Fare il poliziotto a Palermo, negli anni durissimi dello scontro frontale tra Cosa nostra e lo Stato, significava camminare su un filo sottilissimo, a cavallo tra la vita e la morte. Un rischio costante non semplice da accettare e da vivere. La strage di Capaci del 23 maggio del 1992 aveva reso questo rischio ancor più evidente, quasi plastico nella sua estrema e destabilizzante concretezza.
Ma Eddie lo aveva accettato questo rischio, senza cedere di un passo alla paura, scegliendo anzi volontariamente la sua strada. Perché è per questo che si trovava a Palermo il 19 luglio del 1992: per una precisa scelta.
Norwood è un sobborgo di Adelaide, nell’Australia meridionale. Qui la famiglia Cosina, originaria di Trieste, si era trasferita nel dopoguerra, forse alla ricerca di nuove opportunità di vita. Qui era nato Eddie, il 25 luglio del 1961, e qui aveva trascorso i suoi primi anni di vita, prima della decisione dei suoi genitori di ritornare in Italia, intorno alla metà degli anni ’60, per stabilirsi a Muggia, il comune più a sud del Friuli Venezia Giulia, a poco più di 10 km da Trieste.
Quello di diventare poliziotto era da sempre il suo sogno. Ma, come può accadere, i sogni spesso di scontrano con la realtà. Per Eddie, la realtà fu la morte del padre, quando lui aveva appena 21 anni. Fu questa la ragione per la quale dovette rinunciare al Corso di formazione per diventare agente di Polizia giudiziaria. Era l’uomo di casa e sentiva sulle sue spalle la responsabilità di prendersi cura delle donne delle sua famiglia. Sua madre Nella, anzitutto. E poi le sue due sorelle, Oriana e Edna, e la nipote Silvia, appena sedicenne, per la quale suo zio era come un padre. Una famiglia che amava smisuratamente. Del resto era un uomo altruista, capace di grandi slanci di amore e generosità verso i suoi affetti e verso le persone che gli stavano accanto.
La morte di suo padre aveva determinato dunque una deviazione dal percorso che Eddie aveva stabilito di seguire, che tuttavia non gli impedì di continuare a coltivare per la divisa della Polizia di Stato. Più determinato che mai, nel 1983 entrò nella Digos, per poi passare, nel 1990, al nucleo antisequestri e, successivamente, alla divisione anticrimine. Infine, il 22 maggio del 1992, il giorno prima del tritolo di Capaci, la richiesta di entrare nella Direzione Investigativa Antimafia.
Intanto, in Sicilia, la situazione stava precipitando. Gli esiti del maxiprocesso a Cosa nostra, istruito dal pool antimafia guidato dapprima da Rocco Chinnici e poi da Antonino Caponnetto, erano stati un vero e proprio terremoto per la mafia, che, subito dopo la sentenza della Corte di Cassazione - che aveva confermato quasi tutte le condanne inflitte già nel primo grado di giudizio - aveva deciso di reagire nel modo più violento e brutale che si potesse immaginare.
Dopo la strage di Capaci - con l’uccisione di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani - di fronte alla carenza di agenti di scorta in Sicilia, il Ministero dell’Interno si era rivolto a tutte le Questure italiane, per intensificare la presenza di poliziotti da destinare al servizio di protezione dei magistrati che, in quegli anni, si erano particolarmente esposti nell’azione di contrasto a Cosa nostra.
Quando la richiesta di invio di agenti arriva alla Questura di Trieste, Eddie si offre volontariamente. Il candidato per il trasferimento a Palermo non è lui, che però decide di prendere il posto di un collega divenuto da poco padre. Arriva così nel capoluogo siciliano, dove viene assegnato alla scorta di Paolo Borsellino. Un incarico delicatissimo quello di proteggere la vita del magistrato che tutti sapevano sarebbe stato il prossimo obiettivo del tritolo mafioso. A cominciare da lui stesso.
Nessuno di noi sapeva che Eddie faceva la scorta al giudice Borsellino. A casa, per non farci preoccupare, aveva raccontato che a Palermo ci era andato per sbrigare alcune pratiche burocratiche.
Era la trincea della guerra alla mafia quella in cui si muoveva e Eddie lo sapeva bene. Ma non voleva che questo destabilizzasse la serenità della sua famiglia. Lui però doveva essere lì, perché quello era il lavoro che aveva scelto di fare e che, del resto, amava profondamente. E lì, al suo posto, rimase sempre, fino a quel maledetto 19 luglio, quando la sua vita si spense insieme a quella di Paolo e dei suoi colleghi Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli e Claudio Traina.
Erano persone che facevano parte della nostra famiglia. Condividevamo le loro ansie e i loro progetti. Era un rapporto, oltre che di umanità e di amicizia, di rispetto per il loro servizio. Mio marito mi disse «quando decideranno di uccidermi, i primi a morire saranno loro». Per evitare che ciò accadesse, spesso usciva da solo a comprare il giornale e le sigarette, quasi a mandare un messaggio ai suoi carnefici perché lo uccidessero quando lui era solo e non in compagnia dei suoi angeli custodi.
Il 19 luglio del 1992
Era una domenica quel 19 luglio. Eddie non doveva essere al lavoro, perché quel turno di servizio era stato affidato a un suo collega triestino. Lui però aveva scelto di sostituirlo per consentirgli di riposare dopo il lungo viaggio dal Friuli alla Sicilia.
Quella domenica Paolo aveva pranzato a Villagrazia di Carini con la sua famiglia. Nel pomeriggio aveva deciso di tornare a Palermo e passare dalla casa di via D’Amelio, dove vivevano sua madre e sua sorella Rita. Una strada stretta, pericolosa per la sua sicurezza, al punto da indurlo, già venti giorni prima dell’attentato, a richiedere alla Questura di disporre la rimozione dei veicoli nella zona antistante il civico 21, l’abitazione di sua madre. Una domanda rimasta inspiegabilmente
inevasa.
Alle 16.58 i 90 chilogrammi di esplosivo con i quali era stata imbottita una Fiat 126 parcheggiata proprio lì esplosero al passaggio del magistrato e degli agenti di scorta. Una scena apocalittica. Paolo, Emanuela, Agostino, Vincenzo, Claudio e Eddie morirono sul colpo. L'unico sopravvissuto fu l'agente Antonino Vullo, scampato perché al momento della deflagrazione stava parcheggiando uno dei veicoli della scorta.
Le ultime parole di Eddie furono rivolte ai suoi colleghi. Chiese come stavano, se si erano salvati. Poi chiuse per sempre gli occhi.
Da allora ogni anno, ogni cerimonia, ogni ricordo è una sorta di funerale. Proviamo un dolore che solo chi ha provato può comprendere.
Agnese Borsellino rifiutò i funerali di Stato per suo marito Paolo. Quelli degli agenti di scorta si tennero invece il 21 luglio nella Cattedrale di Palermo. All'arrivo dei rappresentanti dello Stato, a cominciare dall’appena eletto Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, una folla inferocita sfondò la barriera creata dai 4000 agenti chiamati per mantenere l'ordine, mentre la gente, strattonando e spingendo, gridava slogan rimasti nella memoria collettiva del Paese, tra cui quel “fuori la mafia dallo Stato” con cui, soprattutto i giovani, volevano denunciare il silenzio, le complicità, le connivenze e l’incapacità delle Istituzioni di proteggere i servitori della Repubblica. Quella Repubblica il cui Presidente venne tirato fuori a stento dalla calca.
La vicenda giudiziaria
Quattro processi e numerosi altri filoni di inchiesta non sono riusciti a scrivere tutta la verità su una vicenda per molti aspetti ancora oscura e misteriosa, che attende di essere definitivamente chiarita nella sua estrema complessità.
Memoria viva
Eddie - come i suoi colleghi e il magistrato che proteggevano – è stato insignito della Medaglia d’oro al valor civile. A tutti loro sono dedicate decine di piazze, strade, scuole, aule. Di tutto. E del resto, l’impatto sulla cultura di massa della strage di via D’Amelio, come di quella di Capaci di 57 giorni prima, è stato ed è tuttora enorme, in Italia e nel resto del mondo.
Le sue sorelle e sua nipote Silvia, sono da sempre impegnate per mantenere viva la memoria di Eddie e trasformarla in motore di cambiamento.