Fare il poliziotto a Palermo, negli anni durissimi dello scontro frontale tra Cosa nostra e lo Stato, significava camminare su un filo sottilissimo, a cavallo tra la vita e la morte. Un rischio costante non semplice da accettare e da vivere. La strage di Capaci del 23 maggio del 1992 aveva reso questo rischio ancor più evidente, quasi plastico nella sua estrema e destabilizzante concretezza. Ma Emanuela non si era sottratta. Neanche quando, appena abilitata al servizio scorte, il suo incarico era stato quello - delicatissimo - di proteggere la vita di Paolo Borsellino, quel magistrato che tutti sapevano sarebbe stato il prossimo. A cominciare da lui stesso. Eppure lei è rimasta al suo fianco, fino all’ultimo respiro, coraggiosa testimone di fedeltà allo Stato. Mentre altri pezzi di quello stesso Stato andavano in tutt’altra direzione.
Emanuela Loi viveva con la sua famiglia a Sestu, un quarto d’ora di macchina da Cagliari. Una cittadina di 20 mila abitanti in cui tutti si conoscevano. Papà Virgilio era un ex dipendente delle Ferrovie. Berta Lai, sua moglie, aveva cresciuto con amore i loro tre figli: Maria Claudia, Marcello e, appunto, Emanuela.
Voleva fare la maestra Emanuela e per questo aveva scelto la via degli studi magistrali. Poi però, una volta diplomata, decise di cambiare strada. Entrò nella Polizia di Stato nel 1989 e frequentò il 119º corso presso la Scuola Allievi Agenti di Trieste.
Era una ragazza seria e appassionata. Di una passione che, strada facendo, si accresceva passo dopo passo. Socievole, sempre sorridente, solare. Era bella Emanuela, con quella cascata di capelli biondi a incorniciare due splendidi occhi scuri. Forse un po’ anche per la sua giovanissima età, appariva ai suoi colleghi di corso quasi spensierata, di sicuro innamorata di quello che faceva.
Destinazione Palermo
Emanuela amava profondamente la sua terra, la Sardegna. È lì che sarebbe voluta tornare e lavorare, accanto alla sua famiglia e ad Andrea, il ragazzo con il quale progettava di costruire la sua vita futura. E invece la destinazione per il suo primo - e purtroppo anche ultimo - incarico fu un’altra isola: la Sicilia, e Palermo in particolare. La trincea della guerra alla mafia. Ne dovette essere spaventata, ma quello era il lavoro che aveva scelto di fare e che amava profondamente.
Nel capoluogo siciliano si stabilì negli alloggi destinati agli agenti fuori sede del complesso delle Tre Torri, in Viale del Fante. Era una tiratrice scelta ed era affascinata dall’idea di poter lavorare alla sezione scorte, alla quale, nonostante il rischio enorme che questa scelta comportava, aveva chiesto di essere destinata. Prima che ciò avvenisse, le furono affidati altri compiti estremamente delicati. Tra questi, quello di proteggere l’abitazione dell’allora Onorevole Sergio Mattarella, futuro Presidente della Repubblica, cui, il 6 gennaio del 1980, era stato assassinato il fratello Piersanti. E ancora, piantonare il boss Francesco Madonia e la casa della Senatrice Pina Maisano, vedova di Libero Grassi, il coraggioso imprenditore che aveva detto no alle richieste estorsive di Cosa nostra e, per questo, era stato ucciso il 29 agosto del ’91.
Poi, finalmente, il tanto agognato incarico al servizio scorte. Incarico che valse ad Emanuela il merito di essere tra le prime donne poliziotto in Italia ad essere adibita a quel servizio. Incarico che, però, le costò anche il primato di essere la prima donna poliziotto uccisa in servizio.
Quando, nel giugno del ’92, a poche settimane dalla strage di Capaci, le fu affidato il compito di proteggere la vita di Paolo Borsellino, lei capì che sarebbe stata durissima. Ma non ne ebbe paura. La sua preoccupazione principale era invece che non ne soffrissero i suoi cari. E forse per questo evitò di dire loro la verità. Li chiamava, li rassicurava, gli chiedeva di non temere per lei. Ma non le parlava del lavoro accanto a Paolo. Le diceva che sarebbe tornata presto in Sardegna, che aveva già chiesto il trasferimento. Non c’era motivo di preoccuparsi, continuava a ripetere ai suoi. Lei rimase al suo posto, sempre, fino a quel 19 luglio, quando la sua vita si spense insieme a quella di Paolo e dei suoi colleghi Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.
Erano persone che facevano parte della nostra famiglia. Condividevamo le loro ansie e i loro progetti. Era un rapporto, oltre che di umanità e di amicizia, di rispetto per il loro servizio. Mio marito mi disse «quando decideranno di uccidermi, i primi a morire saranno loro». Per evitare che
ciò accadesse, spesso usciva da solo a comprare il giornale e le sigarette, quasi a mandare un messaggio ai suoi carnefici perché lo uccidessero quando lui era solo e non in compagnia dei suoi angeli custodi.
ll 19 luglio del 1992
Era una domenica quel 19 luglio. Paolo aveva pranzato a Villagrazia di Carini con la sua famiglia. Nel pomeriggio aveva deciso di tornare a Palermo e passare dalla casa di via D’Amelio, dove vivevano sua madre e sua sorella Rita. Una strada stretta, pericolosa per la sua sicurezza, al punto da indurlo, già venti giorni prima dell’attentato, a richiedere alla Questura di disporre la rimozione dei veicoli nella zona antistante il civico 21, l’abitazione di sua madre. Una domanda rimasta inspiegabilmente inevasa.
Alle 16.58 i 90 chilogrammi di esplosivo con i quali era stata imbottita una Fiat 126 parcheggiata proprio lì esplosero al passaggio del magistrato e degli agenti di scorta. Una scena apocalittica. Paolo, Emanuela, Agostino, Vincenzo, Eddie e Claudio morirono sul colpo. L'unico sopravvissuto fu l'agente Antonino Vullo, scampato perché al momento della deflagrazione stava parcheggiando uno dei veicoli della scorta. Lei, Emanuela, aveva appena 24 anni e tutta la vita davanti.
A Sestu, la sua famiglia seppe quanto era accaduto dalla televisione. Come sua sorella Claudia, che in quei giorni di luglio era in vacanza a Riva del Garda. Fu così che tutti scoprirono che Emanuela lavorava gomito a gomito con Paolo Borsellino.
Agnese Borsellino rifiutò i funerali di Stato. Quelli degli agenti di scorta si tennero invece il 21 luglio nella Cattedrale di Palermo. All'arrivo dei rappresentanti dello Stato, a cominciare dall’appena eletto Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, una folla inferocita sfondò la barriera creata dai 4000 agenti chiamati per mantenere l'ordine, mentre la gente, strattonando e spingendo, gridava slogan rimasti nella memoria collettiva del Paese, tra cui quel “fuori la mafia dallo Stato” con cui, soprattutto i giovani, volevano denunciare il silenzio, le complicità, le connivenze e l’incapacità delle Istituzioni di proteggere i servitori della Repubblica. Quella Repubblica il cui Presidente venne tirato fuori a stento dalla calca.
La vicenda giudiziaria
Quattro processi e numerosi altri filoni di inchiesta non sono riusciti a scrivere la verità su una vicenda ancora oscura e misteriosa, che aspetta di essere definitivamente chiarita nella sua estrema complessità.
Memoria viva
Emanuela - come i suoi colleghi e il magistrato che proteggevano – è stata insignita della Medaglia d’oro al valor civile. A tutti loro sono dedicate decine di piazze, strade, scuole, ponti, aule. Di tutto. E del resto, l’impatto sulla cultura di massa della strage di via D’Amelio, come di quella di Capaci di 57 giorni prima, è stato ed è tuttora enorme, in Italia e nel resto del mondo.
Dopo la morte di Emanuela, papà Virgilio e mamma Berta prima e Claudia e Marcello poi si sono dedicati senza sosta a tenere viva la memoria della loro amata figlia e sorella, accanto a Libera e a centinaia di altri familiari di vittime innocenti delle mafie, in un percorso quotidiano di testimonianza civile.
Né io né i miei genitori sapevamo che mia sorella era impiegata nella scorta a Borsellino. Ho saputo che era fra le vittime in albergo, ascoltando il TG 3. Nessuno ci aveva avvertito. Per 26 anni non sono riuscita a tornare in Sicilia. Ogni volta che vedevo un’auto targata Palermo mi veniva un tuffo al cuore. Ci sono riuscita solo quattro anni fa, con la nave della legalità.
Non ho mai provato odio, ma desiderio di giustizia, di legalità e di memoria. La cosa più utile che possiamo fare è non dimenticare, portare la nostra esperienza nelle scuole e, soprattutto, fare tutti con coerenza la nostra parte in difesa della legalità.