Luciano Traina era entrato in Polizia nel 1972. Suo fratello Claudio, il protagonista di questa storia, all’epoca aveva appena 7 anni. Il percorso di suo fratello però deve averlo affascinato sin da allora, nonostante la tenera età, se, anni dopo, scelse di seguirne esattamente le stesse orme. Una passione forte quella per la divisa, vissuta con intensità, spirito di servizio e dedizione. Fino all’estremo sacrificio.
Claudio nacque a Palermo il 2 settembre del 1965. Era l’ultimo di sei fratelli. Una famiglia numerosa e unita. Dopo il servizio militare in aeronautica, decise di prendere la stessa strada di Luciano e arruolarsi in Polizia. Seguì il corso di formazione ad Alessandria. Poi, conclusi gli studi, il primo incarico nella Squadra Volanti a Milano e, successivamente, a Sesto San Giovanni. Compiti delicati, che Claudio svolgeva con serietà e professionalità. Ma quelle città erano lontane dalla sua Sicilia, la sua terra, nella quale pure desiderava convintamente ritornare. Aveva chiesto il trasferimento e l’aveva anche ottenuto. Il primo anno, però, lo aveva rifiutato, forse convinto da suo fratello a desistere dal proposito di andare a lavorare in una città così difficile e rischiosa per un poliziotto. Non così l’anno successivo, quando invece accettò il trasferimento e tornò a Palermo, dove abitava la sua famiglia. Nel 1990, l’assegnazione all’ufficio scorte.
Tutto questo accadeva mentre, a Palermo, la situazione stava velocemente precipitando. Gli esiti del maxiprocesso a Cosa nostra, istruito dal pool antimafia guidato poi da Antonino Caponnetto, erano stati un vero e proprio terremoto per la mafia, che, subito dopo la sentenza della Corte di Cassazione - che aveva confermato quasi tutte le condanne inflitte già nel primo grado di giudizio - aveva deciso di reagire nel modo più violento e brutale che si potesse immaginare. Fare l’agente di scorta significava stare nella trincea della guerra alla mafia e Claudio lo sapeva bene. Ma è rimasto lì, al suo posto, fino a quel 19 luglio, quando la sua vita si è spenta insieme a quella di Paolo e dei suoi colleghi Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Agostino Catalano.
Erano persone che facevano parte della nostra famiglia. Condividevamo le loro ansie e i loro progetti. Era un rapporto, oltre che di umanità e di amicizia, di rispetto per il loro servizio. Mio marito mi disse «quando decideranno di uccidermi, i primi a morire saranno loro». Per evitare che ciò accadesse, spesso usciva da solo a comprare il giornale e le sigarette, quasi a mandare un messaggio ai suoi carnefici perché lo uccidessero angeli custodi.
Fare il poliziotto a Palermo, negli anni durissimi dello scontro frontale tra Cosa nostra e lo Stato, significava camminare su un filo sottilissimo, a cavallo tra la vita e la morte. Un rischio costante non semplice da accettare e da vivere. La strage di Capaci del 23 maggio del 1992 aveva poi reso questo rischio ancor più evidente, quasi plastico nella sua estrema e destabilizzante concretezza. Soprattutto quando si trattava di accompagnare chi, quella battaglia contro la mafia, l’aveva resa la sua missione di vita. Tutto questo era molto chiaro a Claudio. Il suo interesse principale però era che quel lavoro così rischioso non turbasse la serenità della vita della sua famiglia. Forse per questo decise di tenere nascosto ai suoi cari l’incarico di far parte della squadra di agenti che proteggeva la vita di Paolo Borsellino.
Noi non sapevamo che fosse entrato a far parte della scorta di Borsellino. Mio fratello Luciano era riuscito a convincerlo una prima volta a desistere, ma Claudio non cambiò idea e vi entrò. L’unico che lo sapeva era Luciano, forse per non farci preoccupare, per non metterci in pericolo.
Il 19 luglio del 1992
Amava la pesca Claudio. Una passione che condivideva con suo fratello Luciano, con cui, almeno una volta al mese, usciva in mare. Un modo per ritagliarsi uno spazio di serenità e di tranquillità, senza necessariamente dover parlare di lavoro. Erano insieme la mattina del 19 luglio 1992.
Uno degli ultimi ricordi che ho di mio fratello, in quella tragica giornata, è la stata la mattinata che abbiamo trascorso insieme a pesca, la nostra passione comune. E poi le ultime parole pronunciate con la solita ironia che lo caratterizzata, quasi una premonizione: "stasera raduna tutta la famiglia".
Quella battuta di pesca però terminò presto, intorno a mezzogiorno. Alle 15.00, infatti, Claudio doveva rientrare in servizio. Si sarebbero ritrovati a cena, a casa della madre, per consumare il pescato del giorno. Con loro ci sarebbero stati certamente anche la sua compagna e suo figlio Dario, arrivato non più di un anno prima.
Era una domenica quel 19 luglio. Paolo aveva pranzato a Villagrazia di Carini, insieme alla sua famiglia. Poi, nel pomeriggio, aveva deciso di tornare a Palermo e passare dalla casa di via D’Amelio, dove vivevano sua madre e sua sorella Rita. Una strada stretta, pericolosa per la sua sicurezza, al punto da indurlo, già venti giorni prima dell’attentato, a richiedere alla Questura di disporre la rimozione dei veicoli nella zona antistante il civico 21, l’abitazione di sua madre. Una domanda rimasta inspiegabilmente inevasa.
Alle 16.58 i 90 chilogrammi di esplosivo con i quali era stata imbottita una Fiat 126 parcheggiata proprio lì esplosero al passaggio del magistrato e degli agenti di scorta. Una scena apocalittica. Paolo, Emanuela, Agostino, Vincenzo, Claudio e Eddie morirono sul colpo. L'unico sopravvissuto fu l'agente Antonino Vullo, scampato perché al momento della deflagrazione stava parcheggiando uno dei veicoli della scorta.
Agnese Borsellino rifiutò i funerali di Stato per suo marito Paolo. Quelli degli agenti di scorta si tennero invece il 21 luglio nella Cattedrale di Palermo. All'arrivo dei rappresentanti dello Stato, a cominciare dall’appena eletto Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, una folla inferocita sfondò la barriera creata dai 4000 agenti chiamati per mantenere l'ordine, mentre la gente, strattonando e spingendo, gridava slogan rimasti nella memoria collettiva del Paese, tra cui quel “fuori la mafia dallo Stato” con cui, soprattutto i giovani, volevano denunciare il silenzio, le complicità, le connivenze e l’incapacità delle Istituzioni di proteggere i servitori della Repubblica. Quella Repubblica il cui Presidente venne tirato fuori a stento dalla calca.
La vicenda giudiziaria
Quattro processi e numerosi altri filoni di inchiesta non sono riusciti a scrivere tutta la verità su una vicenda per molti aspetti ancora oscura e misteriosa, che attende di essere definitivamente chiarita nella sua estrema complessità.
Memoria viva
Claudio - come i suoi colleghi e il magistrato che proteggevano - è stato insignito della Medaglia d’oro al valor civile. A tutti loro sono dedicate decine di piazze, strade, scuole, aule. Di tutto. E del resto, l’impatto sulla cultura di massa della strage di via D’Amelio, come di quella di Capaci di 57 giorni prima, è stato ed è tuttora enorme, in Italia e nel resto del mondo.
Quando ricorda suo fratello Claudio, nelle parole di Luciano Traina c’è sempre un misto di orgoglio e nostalgia. Sa bene, Luciano, che Claudio aveva scelto la strada di arruolarsi in Polizia anche, se non soprattutto, per seguire le sue orme. Quel 19 luglio in via D’Amelio se n’è andato anche un pezzo di lui. Non ha mai smesso di farsi carico di quella memoria, che è diventata anche un libro, "Vi abbraccerei tutti". un modo “per raccontare la mia vita, nella speranza che questo racconto possa servire a sensibilizzare le persone, e i giovani soprattutto, rispetto al fenomeno mafioso e al dolore che può procurare”.