19 luglio 1992
Palermo (PA)

Vincenzo Li Muli

Il giorno della strage di Capaci Vincenzo pianse lacrime di dolore e di rabbia per un'ingiustizia che lo turbava profondamente e che lo spinse a compiere scelte precise. È per questo che si trovava in via D'Amelio il 19 luglio del 1992: per una precisa scelta.

Vincenzo Li Muli era nato a Palermo il 19 marzo del 1970. Era un ragazzo tranquillo e appassionato. Amava le moto e le auto da corsa, due tra le sue più grandi passioni. Non le prime però. Perché in testa a quella classifica delle cose che amava c’era la divisa di poliziotto. Indossarla era stato da sempre il suo sogno e il suo più grande desiderio. Lo aveva coltivato, inseguito, raggiunto. E così era entrato in polizia nel 1990 e due anni più tardi era diventato agente effettivo, subito assegnato all’ufficio scorte della Questura di Palermo.

E poi c’era la sua famiglia, quella d’origine e quella che invece voleva costruire con Vittoria, la sua giovane fidanzata. Sebbene così giovani, entrambi stavano facendo già programmi per il matrimonio, per la loro vita futura insieme. Era un ragazzo dolce, capace di slanci di grande tenerezza. Sogni, speranze, desideri e sorrisi che, di lì a poco, sarebbero stati spezzati per sempre dalla bestialità di Cosa nostra.

Erano mesi estremamente difficili quelli. A Palermo, la situazione stava precipitando. Gli esiti del maxiprocesso a Cosa nostra, istruito dal pool antimafia guidato dapprima da Rocco Chinnici e poi da Antonino Caponnetto, erano stati un vero e proprio terremoto per la mafia, che, subito dopo la sentenza della Corte di Cassazione - che aveva confermato quasi tutte le condanne inflitte già nel primo grado di giudizio - aveva deciso di reagire nel modo più violento e brutale che si potesse immaginare.

Quando gli italiani erano stati travolti dalle notizie che arrivavano da Palermo nel pomeriggio del 23 maggio ’92, Vincenzo era davanti alla televisione. Rimase immobile a guardare le immagini dell’autostrada A29 sventrata dal tritolo. Avvertiva dentro di sé un senso profondissimo di indignazione per quelle vite spezzate in una maniera così brutale e vigliacca. Il giorno della strage di Capaci, di fronte a quelle immagini apocalittiche, Vincenzo aveva fatto la sua scelta: proteggere Paolo Borsellino. Un incarico delicatissimo quello di stare accanto al magistrato che tutti sapevano sarebbe stato il prossimo obiettivo del tritolo mafioso. A cominciare da lui stesso.

Era la trincea della guerra alla mafia e Vincenzo lo sapeva bene. E tuttavia il suo primo pensiero era evitare che i rischi che correva turbassero la tranquillità dei suoi affetti più cari. Per questo forse decise di non dire niente di quel lavoro così difficile e rischioso. Non era facile per lui convivere con quella paura costante. Eppure lui era lì, accanto a Paolo, tutti i giorni. Perché quello era il lavoro che aveva scelto di fare e che, del resto, amava profondamente. E lì, al suo posto, rimase sempre, fino a quel maledetto 19 luglio, quando la sua vita si spense insieme a quella di Paolo e dei suoi colleghi Emanuela Loi, Agostino Catalano, Eddie Walter Cosina e Claudio Traina.

Erano persone che facevano parte della nostra famiglia. Condividevamo le loro ansie e i loro progetti. Era un rapporto, oltre che di umanità e di amicizia, di rispetto per il loro servizio. Mio marito mi disse «quando decideranno di uccidermi, i primi a morire saranno loro». Per evitare che ciò accadesse, spesso usciva da solo a comprare il giornale e le sigarette, quasi a mandare un messaggio ai suoi carnefici perché lo uccidessero angeli custodi.
Agnese Piraino Leto - moglie di Paolo Borsellino

Il 19 luglio del 1992

Era una domenica quel 19 luglio. Paolo aveva pranzato a Villagrazia di Carini, insieme alla sua famiglia. Poi, nel pomeriggio, aveva deciso di tornare a Palermo e passare dalla casa di via D’Amelio, dove vivevano sua madre e sua sorella Rita. Una strada stretta, pericolosa per la sua sicurezza, al punto da indurlo, già venti giorni prima dell’attentato, a richiedere alla Questura di disporre la rimozione dei veicoli nella zona antistante il civico 21, l’abitazione di sua madre. Una domanda rimasta inspiegabilmente inevasa.
Alle 16.58 i 90 chilogrammi di esplosivo con i quali era stata imbottita una Fiat 126 parcheggiata proprio lì esplosero al passaggio del magistrato e degli agenti di scorta. Una scena apocalittica. Paolo, Emanuela, Agostino, Vincenzo, Claudio e Eddie morirono sul colpo. L'unico sopravvissuto fu l'agente Antonino Vullo, scampato perché al momento della deflagrazione stava parcheggiando uno dei veicoli della scorta. 

Lui, Vincenzo, aveva appena 22 anni. Era il più giovane della squadra. La sua famiglia apprese la notizia della strage dalla televisione.

Agnese Borsellino rifiutò i funerali di Stato per suo marito Paolo. Quelli degli agenti di scorta si tennero invece il 21 luglio nella Cattedrale di Palermo. All'arrivo dei rappresentanti dello Stato, a cominciare dall’appena eletto Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, una folla inferocita sfondò la barriera creata dai 4000 agenti chiamati per mantenere l'ordine, mentre la gente, strattonando e spingendo, gridava slogan rimasti nella memoria collettiva del Paese, tra cui quel “fuori la mafia dallo Stato” con cui, soprattutto i giovani, volevano denunciare il silenzio, le complicità, le connivenze e l’incapacità delle Istituzioni di proteggere i servitori della Repubblica. Quella Repubblica il cui Presidente venne tirato fuori a stento dalla calca.

La vicenda giudiziaria

Quattro processi e numerosi altri filoni di inchiesta non sono riusciti a scrivere tutta la verità su una vicenda per molti aspetti ancora oscura e misteriosa, che attende di essere definitivamente chiarita nella sua estrema complessità.

Memoria viva

Vincenzo - come i suoi colleghi e il magistrato che proteggevano - è stato insignito della Medaglia d’oro al valor civile. A tutti loro sono dedicate decine di piazze, strade, scuole, aule. Di tutto. E del resto, l’impatto sulla cultura di massa della strage di via D’Amelio, come di quella di Capaci di 57 giorni prima, è stato ed è tuttora enorme, in Italia e nel resto del mondo.

Non ci aveva mai detto che faceva la scorta a Borsellino, ma nell'ultimo periodo non era sereno, passava le notti insonni e a mia sorella, più piccola di lui di due anni, aveva chiesto di pregare insieme la sera. Solo dopo, mettendo insieme tutti questi tasselli, abbiamo compreso quello che stava vivendo. Nessuno ci ha chiamato. Io ero a casa con mio figlio di tre anni, mio marito, poliziotto, era in servizio. Ero attonita, non potevo credere che mio fratello fosse là. È stato terribile, ho urlato, ero disperata. Ho provato un dolore enorme, ho pensato ai miei genitori. Nonostante i 22 anni, aveva una grande maturità e un profondo senso del dovere, ma di lui ricordo soprattutto la sua dolcezza, i suoi abbracci. Tenerissimi.
I ragazzi devono poter avere un futuro, perché lo Stato non è tutto marcio, perché mio fratello, gli altri ragazzi della scorta e il giudice Borsellino in quel cambiamento hanno creduto fino alla fine.
Sabrina Li Muli - sorella di Vincenzo