19 luglio 1992
Palermo (PA)

Agostino Catalano

Fare il poliziotto in quegli anni a Palermo significava camminare su un filo sottilissimo, a cavallo tra la vita e la morte. Un rischio altissimo, soprattutto quando si trattava di scortare chi, quella battaglia contro la mafia, l'aveva resa la sua missione di vita.

In quella squadra di poliziotti di scorta falcidiata tragicamente in via D’Amelio nel pomeriggio del 19 luglio 1992 dal tritolo della mafia l’età media era decisamente bassa. Emanuela Loi aveva 24 anni, Vincenzo Li Muli appena 22. E poi Eddie Walter Cosina, che di anni ne aveva 31, e Claudio Traina, 27. L’unico che alzava un po’ la media del gruppo era Agostino Catalano. Lui aveva 43 anni ed era il più “vecchio” della squadra. E quel giorno, tra l’altro, non doveva neanche essere lì.

Fare il poliziotto a Palermo, negli anni durissimi dello scontro frontale tra Cosa nostra e lo Stato, significava camminare su un filo sottilissimo, a cavallo tra la vita e la morte. Un rischio costante non semplice da accettare e da vivere. Lui, Agostino, lo sperimentava da tempo, da quando era stato chiamato a proteggere la vita di Padre Bartolomeo Sorge, un teologo e politologo gesuita che, per le sue posizioni ostinatamente e dichiaratamente ostili alla mafia, da 7 anni era costretto a vivere sotto scorta.

La strage di Capaci del 23 maggio del 1992 aveva poi reso questo rischio ancor più evidente, quasi plastico nella sua estrema e destabilizzante concretezza. Soprattutto quando si trattava di accompagnare chi, quella battaglia contro la mafia, l’aveva resa la sua missione di vita.

L’Assistente capo Agostino Catalano era nato nel capoluogo siciliano il 16 maggio del 1949. La sua vita familiare non era stata per niente facile, carica di dolori e sacrifici. Aveva sposato in prime nozze Maria Pace, dalla quale aveva avuto tre bambini: Emanuele, Emilia e Rosalinda. Fu forse proprio per garantire una maggiore stabilità ai suoi affetti che Agostino decise di diventare agente di scorta. Il 23 ottobre del 1989, sua moglie Maria se ne andò, uccisa da un tumore.

Due anni più tardi, nel 1991, sposò in seconde nozze Maria Fontana. Un matrimonio che sembrava aver riportato un po’ di serenità in quella famiglia, che, nonostante tutto, continuava ad essere molto forte e unita.

Era un uomo buono Agostino, generoso e altruista. Non perdeva occasione per aiutare il prossimo, anche correndo seri rischi. Come quando, poche settimane prima della strage di via D’Amelio, aveva salvato dall’annegamento un ragazzino di 12 anni, che annaspava nelle acque di Mondello e che Agostino aveva strappato alla morte praticandogli la respirazione bocca a bocca. Non lo aveva abbandonato neanche dopo, quando aveva chiesto ad un suo amico psicologo di prendersi cura di
quel ragazzo, per accompagnarlo in una fase difficile della sua vita, seguita alla shock subito.

Tutto questo accadeva mentre, a Palermo, la situazione stava velocemente precipitando. Gli esiti del maxiprocesso a Cosa nostra, istruito dal pool antimafia guidato dapprima da Rocco Chinnici e poi da Antonino Caponnetto, erano stati un vero e proprio terremoto per la mafia, che, subito dopo la sentenza della Corte di Cassazione - che aveva confermato quasi tutte le condanne inflitte già nel primo grado di giudizio - aveva deciso di reagire nel modo più violento e brutale che si potesse immaginare. Fare l’agente di scorta significava stare nella trincea della guerra alla mafia e Agostino lo sapeva bene. Ma quello era il lavoro che aveva scelto di fare. Dunque, è rimasto lì, al suo posto, fino a quel maledetto 19 luglio, quando la sua vita si spense insieme a quella di Paolo e dei suoi colleghi Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.

Intervista a Giuseppa e Tommaso Catalano, fratelli di Agostino

Il 19 luglio del 1992

Era una domenica quel 19 luglio. Agostino era in ferie quel giorno e dunque non doveva essere al lavoro. Ma quando gli telefonarono per dirgli che era necessario il suo servizio per completare la squadra degli agenti di scorta di Borsellino lui non disse no e si presentò in ufficio.

Quella domenica Paolo aveva pranzato a Villagrazia di Carini con la sua famiglia. Nel pomeriggio aveva deciso di tornare a Palermo e passare dalla casa di via D’Amelio, dove vivevano sua madre e sua sorella Rita. Una strada stretta, pericolosa per la sua sicurezza, al punto da indurlo, già venti giorni prima dell’attentato, a richiedere alla Questura di disporre la rimozione dei veicoli nella zona antistante il civico 21, l’abitazione di sua madre. Una domanda rimasta inspiegabilmente inevasa.
Alle 16.58 i 90 chilogrammi di esplosivo con i quali era stata imbottita una Fiat 126 parcheggiata proprio lì esplosero al passaggio del magistrato e degli agenti di scorta. Una scena apocalittica. Paolo, Emanuela, Agostino, Vincenzo, Claudio e Eddie morirono sul colpo. L'unico sopravvissuto fu l'agente Antonino Vullo, scampato perché al momento della deflagrazione stava parcheggiando uno dei veicoli della scorta.

All’epoca della morte del padre, Emanuele, Emilia e Rosalinda - i figli di Agostino - avevano rispettivamente 20, 17 e 12 anni.

Agnese Borsellino rifiutò i funerali di Stato per suo marito Paolo. Quelli degli agenti di scorta si tennero invece il 21 luglio nella Cattedrale di Palermo. All'arrivo dei rappresentanti dello Stato, a cominciare dall’appena eletto Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, una folla inferocita sfondò la barriera creata dai 4000 agenti chiamati per mantenere l'ordine, mentre la gente, strattonando e spingendo, gridava slogan rimasti nella memoria collettiva del Paese, tra cui quel “fuori la  complicità, le connivenze e l’incapacità delle Istituzioni di proteggere i servitori della Repubblica. Quella Repubblica il cui Presidente venne tirato fuori a stento dalla calca.

La vicenda giudiziaria

Quattro processi e numerosi altri filoni di inchiesta non sono riusciti a scrivere tutta la verità su una vicenda per molti aspetti ancora oscura e misteriosa, che attende di essere definitivamente chiarita nella sua estrema complessità.

Memoria viva

Agostino - come i suoi colleghi e il magistrato che proteggevano – è stato insignito della Medaglia d’oro al valor civile. A tutti loro sono dedicate decine di piazze, strade, scuole, aule. Di tutto. E del resto, l’impatto sulla cultura di massa della strage di via D’Amelio, come di quella di Capaci di 57 giorni prima, è stato ed è tuttora enorme, in Italia e nel resto del mondo.

Quando è morta mia mamma sei anni fa alzai gli occhi al cielo e dissi: «mamma la tua missione ora la prendiamo noi». Così da tutto questo tempo incontriamo tantissimi giovani e a loro dico sempre che quando vengono qua in via D'Amelio devono abbracciare i rami di questo albero. Perché sono le braccia di Agostino, Emanuela, Claudio, Vincenzo, Eddie Walter e il tronco di Paolo. Loro ci sentono, ci vedono e ci danno tanta energia. Loro sono felici se lo fate.
Salvatore Catalano - fratello di Agostino