In questa storia di amore e morte, che ha cambiato per sempre la storia dell’Italia, l’errore più grande che si possa commettere è considerare che l’uccisione di Francesca Morvillo sia stato un “danno collaterale”. Considerare cioè che lei, che era la moglie di Giovanni Falcone, sia morta perché era casualmente lì al suo fianco, sul sedile passeggeri della Fiat Croma bianca blindata schiantatasi sulla montagna di cemento e detriti sollevata dall’esplosione di quei cinque quintali di tritolo. È un errore imperdonabile, che non coglie il senso più profondo di quella presenza.
Capaci, alle 17.58 di quel 23 maggio 1992, è esattamente il luogo dove Francesca voleva essere, con l’uomo accanto al quale aveva deciso di stare, condividendone nel profondo la battaglia, l’impegno, il sacrificio. In definitiva, condividendone la vita.
Francesca
Quel profondo senso di giustizia che ha guidato i passi di Giovanni apparteneva anche a Francesca Morvillo. Le apparteneva a prescindere dal loro incontro, perché era un tratto della sua personalità, della sua formazione culturale e professionale, della sua stessa esistenza. Lei, che era cresciuta respirando il diritto, sin da quando, bambina, osservava rapita suo padre Guido, Sostituto procuratore a Palermo. Un esempio, quello paterno, che avrebbe ispirato poi anche il percorso dell’altro figlio, Alfredo.
Francesca era nata a Palermo, il 14 dicembre del 1945 ed era cresciuta in questa famiglia, tra codici e carte processuali. E così, quando si trattò di scegliere la propria strada, lei non ebbe dubbi: il diritto, la giustizia, quei codici. Si iscrisse alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Palermo e il suo percorso di studi fu veloce e brillante. A 22 anni, il 26 maggio del 1967, era già laureata con il massimo dei voti e la lode accademica. Si faceva fatica, sul suo libretto universitario, a trovare qualche esame da cui non fosse uscita con la lode. La sua tesi, dal titolo “Stato di diritto e misure di sicurezza”, fu la migliore in discipline penalistiche di quell’anno accademico e per questo insignita del Premio Giuseppe Maggiore. Insomma, una vocazione, un talento naturale, che spinge Francesca a dedicarsi sin da subito, mentre ancora era alle prese con la redazione della tesi di laurea, al concorso in Magistratura. Da cui uscì vincitrice un anno dopo, nel 1968, diventando una delle prima donne magistrato italiane.
Dopo il primo incarico come giudice al Tribunale di Agrigento, arrivò la nomina a Sostituto procuratore presso il Tribunale per i minorenni di Palermo. Fu di certo l’incarico più importante, quello che meglio ci restituisce i tratti della sua professionalità. Ma non fu l’unico né l’ultimo. Francesca fu anche Consigliere della Corte d’Appello di Palermo e poi, negli anni romani di Giovanni, componente della Commissione per il concorso di accesso in Magistratura. E fu anche un’apprezzata accademica, avendo insegnato Legislativa del minore presso la Scuola di specializzazione in Pediatria della facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università di Palermo. Un cursus honorum di primissimo livello, che ci consegna i tratti di una donna dalle grandi qualità professionali, unanimemente riconosciute e apprezzate.
Ma c’è un altro tratto che ha caratterizzato sempre la sua personalità e, per molti versi, il suo lavoro. Ed è il tratto di una sensibilità fuori dal comune, in grado di farle leggere anche le carte processuali attraverso la lente della sua profondissima umanità.
Quei ragazzi con i quali si trovava ad avere a che fare avevano sbagliato, certo, e avrebbero dovuto assumersi le loro responsabilità. Ma nondimeno lei voleva ascoltarli, conoscerne il vissuto, provare a dare loro un’altra possibilità. Era anche questa la sua missione. Una missione che lei svolgeva mettendo insieme rigore e umanità, intransigenza e dolcezza.
La dolcezza è un elemento che ricorre spesso nei racconti di chi l’ha conosciuta. Così come il riferimento a quel sorriso con il quale è ritratta in molte delle foto che ci sono arrivate di lei. Un sorriso amabile, segno di un’allegria sobria e riservata, di un grande amore per la vita. Perché Francesca era capace di grandi slanci di amore. Come quello che lo ha legata per sempre a Giovanni.
L'incontro con Giovanni
Il 1979 è l’anno del loro incontro. Giovanni mancava da Palermo da 14 anni. Era stato a Lentini e poi a Trapani, prima di tornare nel capoluogo e accettare la proposta di Rocco Chinnici di lavorare all’Ufficio istruzione della sezione penale, insieme al collega e amico Paolo Borsellino. L’incontro avviene nel corso di una serata a casa di amici. Entrambi hanno già un matrimonio alle spalle, ma è subito un colpo di fulmine. Nel 1983 si trasferiscono insieme nella casa di via Notarbartolo e tre anni più tardi, nel maggio del 1986, ottenuto entrambi il divorzio, si sposano con un rito civile officiato dall’allora sindaco di Palermo, Leoluca Orlando. Una cerimonia intima, con pochi amici e i testimoni di nozze, uno dei quali è il nuovo capo del pool antimafia, Antonino Caponnetto.
È un legame profondo il loro, uniti da un amore sincero ma anche da un’intima condivisione delle loro vite professionali, della loro visione del mondo, della loro sete di verità e giustizia. Giovanni ha in Francesca un punto di riferimento costante, nella vita privata come in quella lavorativa. Le chiede consiglio, la ascolta, ne ha una grandissima stima e un’enorme considerazione.
Il fallito attentato all'Addaura
La ama davvero e vuole proteggerla. Il 21 giugno dell’89, 58 candelotti di tritolo vengono scoperti tra gli scogli dell’Addaura, nei pressi della villa fittata per le vacanze. Quel fallito attentato turba profondamente Giovanni, che parla di “menti raffinatissime” dietro quella strategia. Ha paura per Francesca, prova ad allontanarla pur di tenerla al sicuro. Ma lei non cede di un centimetro.
Sono anni estremamente complicati, che Giovanni affronta avendo sempre accanto a sé Francesca. Lei si è innamorata perdutamente di quell’uomo riservato, dal carattere non facile, a volte finanche burbero, ma capace anche di grandi slanci di allegria e di dolcezza. L’esperienza del pool, quel lavoro forzatamente recluso, è diventato l’occasione per creare e consolidare legami di amicizia fortissimi tra i magistrati. Il carisma di Giovanni è un elemento che salda quei legami, che da professionali diventano sempre più umani. La musica, l’amore per il mare. In quell’inferno che era diventano la vita si intravedono sprazzi di una felicità che risaltano ancor più per contrasto. Fino a quel maledetto 23 maggio che ha cambiato la storia.
Il 23 maggio del 1992
È un sabato e, come ogni fine settimana, Giovanni sale con Francesca su un aereo per spostarsi da Roma a Palermo. Sono le 16.45. 53 minuti più tardi, il jet atterra a Punta Raisi, dove tre Fiat Croma aspettano già in pista. Giovanni sale su quella bianca e chiede di guidare. Francesca si siede davanti, accanto a suo marito. L’autista, Giuseppe Costanza, sale sul sedile posteriore. Sulla Croma marrone, che apre la carovana, salgono gli agenti Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani. Su quella azzurra, che il corteo di auto blindate lo chiude, ci sono gli altri tre uomini di scorta, Paolo Capuzza, Gaspare Cervello e Angelo Corbo.
Alle 17.58 le tre auto sono all’altezza dello svincolo di Capaci. In quel preciso istante, Giovanni Brusca, appostato sulle colline accanto all’autostrada A29, aziona il telecomando che fa esplodere una quantità enorme di tritolo. L’autostrada si frantuma. La Croma marrone è scaraventata a 10 metri di distanza. Quella bianca, guidata da Falcone, sbatte contro la montagna di detriti sollevata dalla deflagrazione. È l’inferno in terra.
Venti minuti dopo, Giovanni viene trasportato d’urgenza all’ospedale civico. Morirà alle 19.05 tra le braccia di Paolo Borsellino, senza mai riprendere conoscenza. Poche ore dopo, intorno alle 23.00, se ne va anche Francesca. L’orologio che porta al polso è fermo alle 17.58.
Non ce la faranno neanche gli agenti Montinaro, Dicillo e Schifani. L’Italia è sconvolta, tramortita da quella violenza inaudita. Le immagini dei funerali, celebrati il 25 maggio nella chiesa di San Domenico, rimarranno per sempre una delle pagine più strazianti della storia italiana. Giovanni e Francesca vengono tumulati, uno accanto all’altra, nel cimitero di Sant’Orsola, nella cappella della famiglia Falcone.
La vicenda giudiziaria
Le indagini sulla strage ebbero una prima svolta nel 1993, con la decisione di Santino Di Matteo e Gioacchino La Barbera di collaborare con la giustizia. Il processo si aprì a Caltanissetta nell’aprile del ‘95. Alla sbarra, ancora una volta, tutti i vertici di Cosa nostra. Nel ’97 la prima sentenza di condanna, poi confermata in appello nel 2000. Da questo momento, seguire l’iter processuale è estremamente complesso. Ciò che è certo è che a decidere la morte di Giovanni, e poi quella di Paolo, furono i capi di Cosa nostra. Ancora si cerca di capire se non lo abbiano fatto da soli.
Memoria viva
È impossibile elencare tutte le iniziative che, sin da subito, hanno dato vita alla (e hanno reso viva la) memoria delle vittime della strage di Capaci. Come a Giovanni, anche a Francesca - la cui morte è stata spesso erroneamente interpretata come un “danno collaterale” - è stata conferita la Medaglia d’oro al valor civile. E nella motivazione c’è tutto il senso del suo sacrificio:
Giovane Consigliere della Corte d'Appello di Palermo, consorte del giudice Giovanni Falcone, pur consapevole dei gravissimi pericoli cui era esposto il coniuge, gli rimaneva costantemente accanto sopportando gli stessi disagi e privazioni, sempre incoraggiandolo ed esortandolo nella dura lotta intrapresa contro la mafia. Coinvolta, insieme al Magistrato, in un vile e feroce agguato, sacrificava la propria esistenza vissuta coniugando ai forti sentimenti di affetto, stima e rispetto verso il marito, la dedizione ai più alti ideali di giustizia.
L’impatto della strage di Capaci sulla cultura di massa è stato ed è tuttora enorme, in Italia e all’estero. I giovani di Libera hanno dedicato alla memoria di Francesca il Presidio di Orbassano (TO) e di Genova.
A voler cristallizzare ed eternare la profondità d’animo di Francesca Morvillo e il senso più intimo del suo amore per Giovanni, basterebbe rileggere le parole, forse le più belle nella loro semplicità, scritte di suo pugno su un cartoncino bianco ritrovato, anni dopo, in un libro regalato a suo marito:
Giovanni, amore mio, sei la cosa più bella della mia vita.
Sarai sempre dentro di me, così come io spero di rimanere viva nel tuo cuore.