Palermo, via Castrofilippo, quartiere della Kalsa.
Questa storia comincia qui, in uno dei quattro rioni storici del capoluogo siciliano. È un giovedì quel 18 maggio e Luisa Bentivegna è in travaglio. C’è aria di attesa in casa Falcone. Attesa e tensione. Anna ha 5 anni, Maria 3. Con papà Arturo trepidano per l’imminente arrivo di un fratellino. È una famiglia benestante la loro: Arturo ha un importante lavoro come direttore del laboratorio chimico di igiene e profilassi del comune di Palermo; Luisa invece è la figlia di un noto ginecologo della città. Tutti non vedono l’ora di sentire il pianto di questo maschietto tanto atteso. Ma quando nasce Giovanni Salvatore Augusto - è così che sceglieranno di chiamarlo - sorprende tutti. Ha i pugni stretti stretti e non versa una lacrima. La sua esistenza forse è racchiusa in questa immagine: i pugni chiusi della lotta e la serenità di chi affronta la vita con la forza del coraggio.
Quando nel 1940 sulla Kalsa piovono le bombe della guerra, la famiglia Falcone lascia la casa di via Castofilippo per trasferirsi sul mare di Sferracavallo e poi a Corleone. Ritornano tutti insieme in città tre anni più tardi, dopo l’armistizio del settembre del ’43. In quel quartiere del resto c’è un pezzo del destino di questa famiglia e di Giovanni in particolare, perché per le strade della Kalsa crescono molti altri bambini che incroceranno la vita di Giovanni. Paolo, per esempio.
È un tipo sveglio Giovanni, che mostra, sin da bambino, una particolare sensibilità per lo studio e l’approfondimento. Frequenta le scuole elementari al Convitto Nazionale, poi le medie alla "Giovanni Verga" e, infine, sceglie il Liceo classico. Dall’Umberto I esce nel 1957, con un diploma conseguito con il massimo dei voti. È una famiglia cattolica la sua e Giovanni fa la spola, negli anni dell’adolescenza, tra le parrocchie di Santa Teresa alla Kalsa e San Francesco. L’azione cattolica è per lui una grande palestra, l’oratorio la sua seconda casa. E poi c’è lo sport, una passione che attraversa tutta la sua prima giovinezza: il calcetto, il ping pong, e poi il nuoto, il canottaggio. A 13 anni è proprio una partita di calcetto a fargli incrociare Paolo Borsellino, uno di quei bambini cresciuti alla Kalsa. I due si ritroveranno all’Università e poi al Tribunale di Palermo.
Con il diploma tra le mani, appena diciottenne, Giovanni lascia Palermo alla volta di Livorno per frequentare l’Accademia Navale e inseguire il progetto di diventare ingegnere. Cerca, inconsapevolmente, di sfuggire a un destino che però, solo quattro mesi dopo, lo riporta in Sicilia a fare, questa volta sì, la scelta della vita: la facoltà di Giurisprudenza. Quattro anni dopo si laurea con una tesi sull'Istruzione probatoria in diritto amministrativo. 110 e lode. La strada è aperta e Giovanni la percorre di corsa.
Nel 1964 vince il concorso ed entra in magistratura. Nello stesso anno, sposa Rita Bonnici, una maestra elementare. L’anno successivo, a 26 anni, è Pretore a Lentini e poi, dal 1966 e per i dodici anni successivi, al Tribunale di Trapani come sostituto procuratore e giudice istruttore. Sono anni importanti di esperienza e formazione, che gli aprono la strada alle prime inchieste sulla mafia e a un crescente interesse per il diritto penale. Ma sono anche gli anni dolorosi della malattia e della morte di papà Arturo. Giovanni ne è molto turbato. Sente che qualcosa, dentro di sé, lo sta portando a una nuova visione della vita. Ingiustizie e disparità sociali gli sono insopportabili e si sente sempre più attratto dalle idee di Enrico Berlinguer. Sente di poter e voler dare un contributo più incisivo a combatterle quelle ingiustizie e quelle disparità, anche a costo di scontrarsi con una famiglia molto cattolica e politicamente vicina alla Democrazia Cristiana.
Ritorno a Palermo
Nel 1978 la sua esperienza a Trapani finisce e Giovanni approda alla sezione fallimentare del Tribunale di Palermo. Finisce anche il suo matrimonio con Rita, che sceglie un’altra strada. Il 1979 è un anno di svolta, nella vita privata come in quella professionale. L’incontro con la collega Francesca Morvillo, conosciuta durante una cena a Salemi, segna l’inizio di una stagione nuova, fatta di un amore profondo, che li unirà fino alla fine. I due si sposeranno nel 1986.
Un nome, una storia. Mi chiamo Giovanni Falcone. Presidio di Libera Chieti "Attilio Romanò" - interprete Alessandro Blasioli.
E poi c’è la vita professionale, che prende un’altra direzione, quella definitiva. Nel settembre del ’79, dopo l’omicidio di Cesare Terranova, Rocco Chinnici lo vuole all’Ufficio Istruzione della sezione penale e gli affida un delicato processo contro Rosario Spatola, un costruttore edile palermitano senza precedenti, ma con una grande capacità di fare affari con la droga, finanche oltreoceano. Giovanni si tuffa nel lavoro e dimostra di che stoffa è fatto. È capace di intuizioni geniali, come quella di “seguire i soldi” per arrivare a cogliere le dinamiche criminali. È il metodo Falcone, quello che lo porterà a ricostruire, col tempo, struttura e organizzazione di Cosa nostra. Nel 1983 spedisce in carcere Spatola e un’altra settantina di persone. Un successo, il primo di una lunga serie.
Giovanni studia, approfondisce, scende nella profondità delle cose. Chinnici apprezza la sua serietà, il suo valore. Così, quando sceglie di dare vita al pool antimafia mettendo insieme magistrati il cui lavoro dovesse unicamente concentrarsi sulla mafia, Giovanni non può non farne parte. E, come lui, Paolo Borsellino.
Nel luglio del 1984, il ragazzino della Kalsa, diventato ormai un affermato magistrato, ritrova un altro di quei bambini cresciuti nei vicoli del centro storico: Tommaso Buscetta. Lui aveva fatto una scelta diversa, quella della mafia. Ed era diventato uno che contava. Ma poi i nuovi boss di Corleone lo avevano sconfitto, gli avevano fatto pagare le sue scelte. Quando Tommaso comincia a parlare con Giovanni diventa un fiume in piena. Le sue dichiarazioni aprono la strada che porterà al Maxiprocesso. Una strada tutt’altro che facile.
Nell’estate dell’85, dopo gli omicidi di Ninni Cassarà e Beppe Montana, il pool è costretto a rinchiudersi nel carcere dell’Asinara per preparare l’istruttoria. Un lavoro enorme, condotto in un ambiente blindato e che vede coinvolto il gotha di Cosa nostra. Il 10 febbraio del 1986 inizia il processo. Nel dicembre dell’anno successivo, la sentenza di primo grado: 360 condanne per 2665 anni di carcere. A Palermo si fa la storia.
Eppure la situazione si fa sempre più difficile, il contesto sempre più ostile. A processo finito, Paolo va a Marsala per diventare Procuratore. Nel 1988, Antonino Caponnetto, che aveva preso il posto di Chinnici dopo il suo omicidio, lascia la guida del pool convinto che a succedergli sarà Giovanni. E invece, il CSM gli preferisce Antonino Meli. Pochi mesi dopo, il pool viene definitivamente smantellato. È un crescendo di tensioni, in un contesto ostile, che, giorno dopo giorno, isola Giovanni.
Il 21 giugno dell’89, 500 candelotti di tritolo vengono scoperti tra gli scogli dell’Addaura, nei pressi della villa fittata dal magistrato per le vacanze. Quel fallito attentato turba profondamente Giovanni, che parla di “menti raffinatissime” dietro quella strategia. Polemiche e veleni invadono l’ambiente del tribunale: è la stagione dei corvi e delle calunnie. Per Giovanni, il clima è insostenibile. Non gli resta che accettare la proposta del Guardasigilli Claudio Martelli di andare a Roma a dirigere la sezione Affari penali del Ministero. Giovanni ha una nuova intuizione straordinaria e coglie in questa soluzione una grande opportunità, quella cioè di lavorare a costruire la Direzione Investigativa Antimafia, una superprocura che coordinasse centralmente le indagini di mafia. Le polemiche contro il magistrato, accusato di aver ceduto alle lusinghe della politica, sono ferocissime.
Sono davvero anni complicati, che Giovanni affronta avendo sempre accanto a sé Francesca. I due si amano profondamente. Francesca si è innamorata perdutamente di quell’uomo riservato, dal carattere non facile, a volte finanche burbero, ma capace anche di grandi slanci di allegria e di dolcezza. L’esperienza del pool, quel lavoro forzatamente recluso, è diventato l’occasione per creare e consolidare legami di amicizia fortissimi tra i magistrati. Il carisma di Giovanni è un elemento che salda quei legami, che da professionali diventano sempre più umani. La musica, l’amore per il mare. In quell’inferno che era diventano la vita si intravedono sprazzi di una felicità che risaltano ancor più per contrasto. Fino a quel maledetto 23 maggio che ha cambiato la storia.
Il 23 maggio del 1992
È un sabato e, come ogni fine settimana, Giovanni sale con Francesca su un aereo per spostarsi da Roma a Palermo. Sono le 16.45. 53 minuti più tardi, il jet atterra a Punta Raisi, dove tre Fiat Croma aspettano già in pista. Giovanni sale su quella bianca e chiede di guidare. Francesca si siede davanti, accanto a suo marito. L’autista, Giuseppe Costanza, sale sul sedile posteriore. Sulla Croma marrone, che apre la carovana, salgono gli agenti Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani. Su quella azzurra, che il corteo di auto blindate lo chiude, ci sono gli altri tre uomini di scorta, Paolo Capuzza, Gaspare Cervello e Angelo Corbo.
Alle 17.58 le tre auto sono all’altezza dello svincolo di Capaci. In quel preciso istante, Giovanni Brusca, appostato sulle colline accanto all’autostrada A29, aziona il telecomando che fa esplodere 1000 chili di tritolo. L’autostrada si frantuma. La Croma marrone è scaraventata a 10 metri di distanza. Quella bianca, guidata da Falcone, è investita in pieno dall’esplosione. È una scena apocalittica.
Venti minuti dopo, Giovanni viene trasportato d’urgenza all’ospedale civico. Morirà alle 19.05 tra le braccia di Paolo Borsellino, senza mai riprendere conoscenza. Tre ore dopo, se ne andrà anche Francesca. Non ce la faranno neanche gli agenti Montinaro, Dicillo e Schifani.
L’Italia è sconvolta, tramortita da quella violenza inaudita. Le immagini dei funerali, celebrati il 25 maggio nella chiesa di San Domenico, rimarranno per sempre una delle pagine più strazianti della storia italiana.
Vicenda giudiziaria
Le indagini sulla strage ebbero una prima svolta nel 1993, con la decisione di Santino Di Matteo e Gioacchino La Barbera di collaborare con la giustizia. Il processo si aprì a Caltanissetta nell’aprile del ‘95. Alla sbarra, ancora una volta, tutti i vertici di Cosa nostra. Nel ’97 la prima sentenza di condanna, poi confermata in appello nel 2000. Da questo momento, seguire l’iter processuale è estremamente complesso. Ciò che è certo è che a decidere la morte di Giovanni, e poi quella di Paolo, furono i capi di Cosa nostra. Ancora si cerca di capire se non lo abbiano fatto da soli.
Memoria viva
Impossibile è anche elencare tutte le iniziative che, sin da subito, hanno dato vita alla memoria di Giovanni Falcone, cui è stata conferita la Medaglia d’oro al valor civile. L’impatto della Strage di Capaci sulla cultura di massa, così come l’influenza del pensiero e delle intuizioni di Giovanni Falcone, è stato ed è tuttora enorme, in Italia e all’estero. Basti pensare che al ragazzino della Kalsa diventato il simbolo della lotta alla mafia è dedicato addirittura un asteroide, scoperto nel 1999 e denominato 60183 Falcone.
A voler trovare le parole di chi lo ha conosciuto e amato, forse le più belle, nella loro semplicità, restano quelle scritte da Francesca su un cartoncino bianco ritrovato, anni dopo, in un libro regalato a Giovanni:
Giovanni, amore mio, sei la cosa più bella della mia vita. Sarai sempre dentro di me, così come io spero di rimanere viva nel tuo cuore.