"Ad onore dei miei genitori voglio ricordare che i principi che mi hanno guidato in tutta la vita sono frutto della educazione da loro ricevuta e che, se in qualche misura sono riuscito ad operare bene da uomo e da cittadino, ciò lo devo soprattutto agli insegnamenti e agli esempi costanti di mio padre e di mia madre, ai quali va la mia infinita gratitudine”. Con queste parole Cesare Terranova chiude la sua lettera - testamento, vergata di suo pugno il primo marzo del 1978. Manca più di un anno a quel maledetto 25 settembre 1979. Ma Cesare sa di essere esposto, percepisce che il risentimento nei suoi confronti è forte, immagina che il suo lavoro e la sua tenacia non gli sono stati mai perdonati. Lui la mafia la conosceva, l’aveva combattuta, l’aveva colpita davvero.
Cesare era nato il giorno di ferragosto del 1921 a Petralia Soprana, in provincia di Palermo. La passione per la giurisprudenza, il diritto erano un vizio di famiglia, che gli era stato trasmesso direttamente da suo padre Vincenzo. Cesare, sin da giovanissimo, sa che quella sarà anche la sua strada. Un percorso solo temporaneamente interrotto dallo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, che lo vede impegnato in prima persona tra il novembre del 1942 e il luglio dell’anno successivo. Un’esperienza dura e difficile, per la quale riceverà nel 1952 anche la Croce al merito di guerra e durante la quale farà l’esperienza della prigionia e della detenzione nei campi di concentramento dell’Africa settentrionale, da dove verrà rimpatriato soltanto nell’ottobre del ’45.
Il ritorno a casa coincide con la ripresa del percorso di studio. Cesare si tuffa nuovamente nei libri, iscrivendosi all’Università di Messina, dove intanto suo padre aveva assunto l’incarico di Pretore. Si laurea a 25 anni, il 12 marzo del 1946 con il massimo dei voti e la lode accademica. Nello stesso anno entra in Magistratura e viene destinato a ricoprire il ruolo di Pretore dapprima a Messina e poi a Rometta, dove arriva a dirigere l’ufficio appena ventiseienne. Si distingue immediatamente per le sue capacità professionali, per il suo acume investigativo, per le sue doti operative. Ma anche per il suo volto umano e per la sua passione civile che gli conquistano la stima unanime dei cittadini, al punto che, nel 1950, il Consiglio comunale di Rometta delibera di conferirgli la cittadinanza onoraria. Nel marzo del 1953 si trasferisce a Patti e viene nominato Giudice istruttore. Vi resterà fino al dicembre del 1958, quando viene trasferito all’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo.
Il trasferimento a Palermo
Negli anni ’50 conosce Giovanna Giaconia, la donna che gli resterà accanto fino all’ultimo giorno. I due si innamorano e, dopo pochi mesi il 9 aprile del 1951, decidono di sposarsi. Negli scritti di Terranova, il loro rapporto viene sempre ricordato con parole di grande affetto e tenerezza. Sono anni trascorsi “in armonia ed in piena comunione di spirito, ricchi di affetto e di comprensione reciproca, anche negli errori e nei dissapori, mai più forti del legame sincero e profondo che ci ha unito”. Aspetti intimi e privati che lasciano trasparire il volto più umano di quest’uomo rigoroso e incorruttibile, che dava all’amicizia un valore profondo.
Un uomo pieno di interessi, come il bridge, di cui è un campione di fama nazionale e che lo porta a fondare e diventare presidente dell’associazione bridgistica prima a Messina e poi anche a Palermo.
E poi è un gran collezionista: orologi, medaglie, monete, penne, ciondoli, francobolli e tanti altri oggetti che continua a raccogliere e conservare.
Ma sono anche anni di lavoro intenso e difficile, che espongono Terranova al risentimento e all’odio di Cosa nostra e, in particolare, dei corleonesi. Il giudice lavora intensamente per istruire il famoso processo dei 117, che approfondisce i fatti legati alla guerra di mafia combattuta tra il ’62 e il ’63; e poi quello contro i corleonesi per i tremendi fatti di sangue registrati tra il ’58 e il ’63. L’esito dei due processi, celebrati a Catanzaro e a Bari, finisce però con il rammaricare fortemente Terranova. Decine di assoluzioni, maturate di certo in un contesto ostile, ma soprattutto in un ambiente giudiziario che fa ancora troppa fatica a riconoscere la mafia come fenomeno organico e strutturato. Terranova, invece, intuisce che quel mondo criminale e mafioso sta facendo un vero e proprio salto di qualità, puntando a trasformarsi da mafia agricola a mafia imprenditrice. Spinto dal suo ardore investigativo, il giudice non si ferma e riesce a ottenere, dinanzi alla Corte d’appello, nel dicembre del 1970, la condanna all’ergastolo per Luciano Leggio. Il boss non glielo perdonerà mai.
Il primo incontro con Leggio si svolse nel carcere dell'Ucciardone nel 1964. La tempra di questo giovane magistrato emerse chiaramente. Leggio era solito far "accomodare" nella sua cella i magistrati che andavano per interrogarlo, un modo per affermare il suo prestigio. Quando toccò a Terranova, il magistrato lo costrinse a presentarsi in ufficio, dopo essersi accertato che non aveva nessun problema di salute, e le guardie carcerarie lo condussero dal magistrato in barella.
La fama di questo giudice onesto e preparato comincia a diffondersi e si consolida ancora di più quando, approdato alla Procura di Marsala nel giugno del 1971, è costretto a occuparsi di un caso dall’enorme eco mediatica, la vicenda del cosiddetto Mostro di Marsala. Il 22 ottobre del 1971 tre bambine spariscono a Marsala. Si tratta di Antonella Valenti, undici anni, Virginia e Ninfa Marchese, nove e sette anni. Con la denuncia della loro scomparsa si apre uno dei casi di cronaca nera più inquietanti della storia del dopoguerra, conosciuto anche come "il caso del mostro di Marsala". Il giudice Cesare Terranova emette il mandato d'arresto per Michele Vinci, zio di Antonella, che durante l'interrogatorio confessa di aver rapito le bambine per stuprare una di loro e di aver gettato Ninfa e Virginia in una cava all'interno di un terreno di proprietà di Giuseppe Guarrato, dove effettivamente verranno ritrovate il 9 novembre. Durante il processo, tuttavia, emergono parecchi dubbi sulle dichiarazioni fatte da Vinci, e si profila la possibilità che abbia avuto uno o più complici. Antonella sarebbe stata rapita e uccisa perché suo padre, Leonardo Valenti, aveva fatto uno sgarro a Cosa nostra. Lo stesso Paolo Borsellino riaprirà le indagini nel 1989, archiviate per mancanza di prove.
L’esperienza in Parlamento
Gli anni successivi segnano il passaggio di Terranova a una nuova intensa esperienza, ma stavolta fuori dalla magistratura. Il 25 maggio del 1972 viene eletto Deputato al Parlamento nelle fila del PCI, come indipendente. Alla Camera resterà per due legislature, fino al giugno del 1979. Anche in politica si distingue per il suo rigore e per l’ardore del suo impegno, in particolare come segretario della Commissione Antimafia. Nel 1976 è tra i firmatari della famosa Relazione di minoranza, alla cui redazione collabora attivamente insieme a Pio La Torre. Come lui, anche Terranova è un profondo conoscitore della mafia siciliana e ricusa la lettura semplicistica che di Cosa nostra si fa nella relazione di maggioranza.
Diventa un punto di riferimento importante nel contrasto al fenomeno mafioso, nel 1977 sarà intervistato da Joe Marrazzo per l’inchiesta del TG2 Dossier sull'esecuzione del colonnello Giuseppe Russo.
Nel luglio del 1979 fa richiesta per rientrare in magistratura. La sua domanda viene accolta e Terranova viene nominato Consigliere presso la Corte di Appello di Palermo. Il magistrato punta alla guida dell’Ufficio Istruzione. Incarico prestigioso al quale senz’altro sarebbe giunto se quella prospettiva, unita all’antico risentimento di Leggio, non avesse fatto precipitare la situazione, spingendo la Cupola ad emettere l’ordine di morte.
Oggi si parla di quarta mafia, la terza, la quinta, ma la realtà è che la mafia è sempre una, ha una sua continuità; si succedono naturalmente i capi, i personaggi, cambiano i sistemi operativi, cambiano gli obiettivi di lucro, ma la mafia è sempre quella.
Il 25 settembre del 1979
Sono le 8.30 del 25 settembre. Il maresciallo di Pubblica Sicurezza Lenin Mancuso, fidato agente di scorta e collaboratore di Terranova sin dal 1963, aspetta il giudice a bordo di una. Fiat 131 per condurlo in Tribunale. Cesare scende e decide di mettersi alla guida. Imbocca una strada secondaria tra via Rutelli e via De Amicis. Quando si accorge che la strada è bloccata da una transenna si rende conto che qualcosa non va, ma non ha il tempo di reagire. I killer circondano l’auto e sparano circa 30 colpi di un fucile Winchester e di pistola. Terranova ingrana istintivamente la retromarcia mentre Mancuso estrae la Beretta di ordinanza e fa fuoco. Ma non c’è nulla da fare. La pioggia di piombo uccide sul colpo il giudice e ferisce gravemente il poliziotto, che morirà in ospedale dopo alcune ore di agonia. A Terranova viene riservato anche un colpo di grazia alla nuca, esploso da distanza ravvicinata.
Vicenda giudiziaria
La pista mafiosa è evidente e tutti i sospetti sembrano puntare su Luciano Leggio. Il primo processo viene istruito a Reggio Calabria nel 1982 e vede proprio Leggio unico imputato, come mandante dell’omicidio. Ma il procedimento si chiude con l’assoluzione.
Nel 1984, le dichiarazioni di Tommaso Buscetta a Giovanni Falcone fanno riaprire il processo. Ma ancora una volta tutto si risolve in un nulla di fatto, con il proscioglimento, nel giugno del 1990, di Leggio e di tutti i vertici della Cupola.
Sul finire degli anni ’90, sono altri due collaboratori di giustizia, Gaspare Mutolo e Francesco Di Carlo, a consentire ancora una volta la riapertura del processo. Stavolta le cose vanno diversamente. Il 17 marzo del 2000, la Corte d’Assise di Reggio Calabria condanna Leggio all’ergastolo come mandante dell’omicidio e Giuseppe Giacomo Gambino, Vincenzo Puccio, Leoluca Bagarella e Giuseppe Madonia come esecutori materiali. Le condanne sono diventate definitive nell’ottobre del 2004.
Nel 1997 intanto era stato riaperto il procedimento contro altri sette esponenti di spicco di Cosa nostra - Michele Greco, Bernardo Brusca, Pippo Calò, Antonino Geraci, Francesco Madonia, Totò Riina e Bernardo Provenzano - accusati di aver concesso il loro consenso al progetto di eliminare Terranova.
Giovanna Giaconia si è costituita parte civile in tutti i processi e per anni ha continuato a chiedere verità e giustizia per suo marito e per il suo fidato agente di scorta. Nel 1982 ha partecipato alla fondazione dell’Associazione donne siciliane per la lotta contro le mafie, di cui è stata a lungo presidente.
Sprofondai in un abisso senza fondo, per un po’ persi la cognizione del tempo. Poi la vita più o meno lentamente riprende, anche se una morte di questo tipo non si dimentica. Non si dimentica perché al dolore si sovrappone l’orrore, la gratuità, la volgare brutalità dell’assassinio, la violenza che colpisce pure la dignità della persona fisica. All’inizio l’istinto è quello di rinchiudersi nel proprio dolore, non si pensa assolutamente di mettersi in gioco. È quello che ho provato anch’io. Però poi ho avuto la sensazione di non essere la protagonista di una tragedia soltanto personale, ma di una tragedia collettiva, che il pericolo minacciava un’intera società, non solo me. È questo che spinge ad un certo punto a testimoniare, quando ci si dice che non sono fatti tuoi, ma sono fatti di tutti i cittadini. E non si deve perdere la capacità di reagire, cioè quel filo che ci lega gli uni agli altri in una società civile, che è il filo della reattività. Altrimenti si rischia di scivolare nell’indifferenza e nella rassegnazione, si rischia di dimenticare.
Memoria viva
A Cesare è stata conferita la Medaglia d’Oro al Valor Civile. Nella motivazione viene definito un “alto Magistrato, sempre distintosi per particolare fermezza e alto rigore morale”. Vi si ricordano il suo impegno, la sua incondizionata dedizione, la sua fedeltà al compito di giudice imparziale, pur nella consapevolezza dei rischi ai quali si esponeva.
Subito dopo il suo omicidio a Palermo, studiosi e magistrati hanno fondato il «Centro studi giuridici e sociali CESARE TERRANOVA», con l’obiettivo di promuovere l'approfondimento dei problemi connessi al fenomeno mafioso, per la ricerca dei mezzi più adatti a combatterlo.
Nel 1982 sotto il patrocinio dei comuni di Castellana Sicula, Petralia Soprana, Petralia Sottana, Polizzi e Scillato, con la prefazione di Leonardo Sciascia è pubblicato un volume dedicato alla sua memoria.