Lenin era nato il 6 novembre del 1922 a Rota Greca, un piccolo comune della provincia di Cosenza, che all’epoca contava poco più di 2000 abitanti e che oggi non ne conta più di 1100. È qui, in questo paesino, che comincia la storia di quest’uomo rigoroso, il cui cognome disvela le sue origini calabresi.
Il padre, un socialista libertario, aveva scelto quel nome come gesto di sfida al dilagare del Fascismo. Lenin era nato, infatti, pochi giorni dopo la marcia su Roma voluta da Mussolini e che aveva segnato l’inizio della dittatura fascista nel nostro Paese.
Mancuso è il maresciallo della squadra mobile assegnato alla scorta del magistrato, era entrato in polizia nel 1943. È lui l’uomo seduto al lato passeggeri della Fiat 131 nella quale furono barbaramente trucidati con 30 colpi di fucile e pistola dai killer di Cosa nostra.
Lenin trascorre tutta la sua vita alla Squadra mobile di Palermo, diventando un po' la memoria storica della guerra contro la mafia. Ed è Palermo che si innamora e si sposa, crescendo tre figli, Antonietta, Carmine e Franco. É un uomo alto, bello, quasi una star del cinema. Ma era soprattutto un uomo onesto ed è proprio questo senso di giustizia e di onestà a legarlo in modo profondo al giudice Terranova.
È lui il collaboratore di Terranova quando, nel 1971, l’allora Procuratore di Marsala si occupò delle delicate indagini sul caso del Mostro di Marsala. Una vicenda tragica, che aveva visto la morte di tre bambine e che richiamò l’attenzione dell’opinione pubblica di tutta Italia.
È lui che, con il trasferimento a Palermo, si trova a respirare l’aria pesante di una città squassata dalla violenza della mafia.
È nella condivisione di questi percorsi che il rapporto tra Mancuso e Terranova diventa ogni giorno più intenso, più profondo, più stretto. È un rapporto fatto di una incrollabile stima e di una sincera fiducia reciproca. Sono amici prima che in qualche modo colleghi di lavoro. E come amici vengono riconosciuti.
Il 1979 è l’anno in cui questo rapporto vive il suo passaggio definitivo. È l’anno in cui Terranova, chiusa definitivamente la sua significativa esperienza politica di Deputato al Parlamento, decide di fare domanda per rientrare in Magistratura. Il suo obiettivo è arrivare a dirigere l’Ufficio Istruzione. Il permesso di rientrare gli viene accordato, ma con il ruolo, propedeutico a quello cui Terranova aspirava, di Consigliere presso la Corte d’Appello. È però anche un anno tragico, scandito da omicidi “eccellenti” che insanguinano le strade di Palermo e opprimono la città in una cappa irrespirabile di omertà, di paura, di terrore.
Il 26 gennaio viene ammazzato il giornalista Mario Francese. Un mese più tardi è la volta del segretario provinciale della Democrazia Cristiana Michele Reina. Poi, nel mese di luglio, tocca al capo della Squadra Mobile, Giorgio Boris Giuliano. Terranova, e con lui Mancuso, sanno di essere nel mirino. Sanno che Cosa nostra li ha nel mirino sin da quando, nel 1970, il giudice era riuscito a ottenere in appello una condanna all’ergastolo per Luciano Leggio, potente boss dei corleonesi. Sanno che quell’affronto Leggio non glielo ha mai perdonato. E quando si fa concreta la possibilità che Terranova vada a ricoprire l’incarico di capo dell’Ufficio Istruzione a Palermo, i vertici della Cupola decidono che è il momento di agire.
Il 25 settembre del 1979
Alle 8.30 del 25 settembre 1979, il maresciallo di Pubblica Sicurezza Lenin Mancuso aspetta il giudice a bordo di una Fiat 131 per condurlo in Tribunale. Cesare scende e decide di mettersi alla guida. Imbocca una strada secondaria tra via Rutelli e via De Amicis. Quando si accorge che la strada è bloccata da una transenna si rende conto che qualcosa non va ma non ha il tempo di reagire. I killer circondano l’auto e sparano circa 30 colpi di un fucile Winchester e di pistola. Terranova ingrana istintivamente la retromarcia mentre Mancuso estrae la Beretta di ordinanza e fa fuoco, tentando di coprire con il suo corpo quello di Terranova. Ma non c’è nulla da fare. La pioggia di piombo uccide sul colpo il giudice e ferisce gravemente il poliziotto, che morirà in ospedale dopo alcune ore di agonia. A Terranova viene riservato anche un colpo di grazia alla nuca, esploso da distanza ravvicinata.
Lenin aveva 56 anni.
Qualche mese dopo il duplice omicidio, i condomini del palazzo di fronte al quale era avvenuto l’agguato si oppongono alla richiesta di installare una lapide commemorativa. Un diniego inspiegabile, formalmente giustificato dalla volontà di non imbrattare i muri esterni dell’edificio. Molto più probabilmente, il segno della paura che regnava in città. In ogni caso, un colpo durissimo per i familiari delle due vittime. Anni dopo, la lapide è stata apposta sulle mura di una scuola media poco distante dal luogo dell’agguato.
Vicenda giudiziaria
La pista mafiosa appare immediatamente l’unica possibile. I sospetti, in particolare, puntano su Luciano Leggio. Il primo processo viene istruito a Reggio Calabria nel 1982 e vede proprio Leggio unico imputato come mandante dell’omicidio. Ma il procedimento si chiude con l’assoluzione.
Nel 1984, le dichiarazioni di Tommaso Buscetta a Giovanni Falcone fanno riaprire il processo. Ma ancora una volta tutto si risolve in un nulla di fatto, con il proscioglimento, nel giugno del 1990, di Leggio e di tutti i vertici della Cupola.
Sul finire degli anni ’90, sono altri due collaboratori di giustizia, Gaspare Mutolo e Francesco Di Carlo, a consentire ancora una volta la riapertura del processo. Stavolta le cose vanno diversamente. Il 17 marzo del 2000, la Corte d’Assise di Reggio Calabria condanna Leggio all’ergastolo come mandante dell’omicidio e Giuseppe Giacomo Gambino, Vincenzo Puccio, Leoluca Bagarella e Giuseppe Madonia come esecutori materiali. Le condanne sono diventate definitive nell’ottobre del 2004. Nel 1997 intanto era stato riaperto il procedimento contro altri sette esponenti di spicco di Cosa nostra - Michele Greco, Bernardo Brusca, Pippo Calò, Antonino Geraci, Francesco Madonia, Totò Riina e Bernardo Provenzano - accusate di aver concesso il loro consenso al progetto di eliminare Terranova e, con lui, Mancuso.
Il rapporto tra i due è nato negli anni ’60 quando Terranova stava istruendo il processo di Catanzaro e col passare degli anni il legame è diventato sempre più forte. C’era una sintonia professionale e personale tra loro. Terranova lo considerava un amico prima ancora che un fidato collaboratore. Erano sempre insieme, avevano formato un binomio tanto forte che quando qualcuno incontrava solo uno dei due chiedeva dove fosse l’altro.
È dopo la morte di Boris Giuliano che mio padre ha capito di essere in pericolo. Da quel momento il suo atteggiamento è cambiato, ha iniziato ad avere paura, ha preso coscienza che lui e Terranova erano in pericolo.
Memoria viva
Due anni dopo la sua morte, nel maggio del 1981, a Lenin è stata conferita la medaglia d’oro al valor civile:
“Prescelto, in virtù delle sue non comuni qualità, per il servizio di sicurezza ad eminente magistrato, assolveva il proprio compito con sprezzo del pericolo e profondo senso del dovere, pur consapevole del grave rischio cui si esponeva. Veniva proditoriamente trucidato con colpi d’arma da fuoco, esplosigli da distanza ravvicinata, in un vile agguato mentre, con impegno e responsabile coraggio, svolgeva la propria missione”.
Un richiamo a un coraggio responsabile che descrive appieno il senso del sacrificio e della testimonianza di questo poliziotto intransigente e rigoroso, fedele servitore dello Stato.