26 gennaio 1979
Palermo (PA)

Mario Francese

Con la sua penna denunciava, raccontava e interpretava i fatti di mafia che avvenivano in Sicilia. Non ebbe mai paura di fare i nomi.

Un giornalista con la schiena dritta

Mario Francese iniziò la sua carriera come telescriventista dell’ANSA. Successivamente passò alle funzioni di giornalista e scrisse per il quotidiano “La Sicilia” di Catania. Nel 1958 venne assunto all’ufficio stampa dell’assessorato ai Lavori Pubblici della Regione Siciliana. Nel frattempo intraprese la collaborazione con “Il Giornale di Sicilia” di Palermo. Nel 1968 si licenziò dall’ufficio stampa per lavorare a pieno nel giornale, dove si occupava della cronaca giudiziaria, entrando in contatto con gli scottanti temi del fenomeno mafioso. Erano le 21,15 di una fredda serata di gennaio. Il cronista giudiziario aveva da poco finito il suo turno al “Giornale di Sicilia” e stava rientrando nella sua casa palermitana. Quel 26 gennaio del 1979 Mario Francese aveva da poco parcheggiato la sua Alfa Romeo quando fu raggiunto mortalmente da quattro colpi di arma da fuoco.

Mario si identificava completamente con la sua professione, che lo portava a recarsi direttamente sui luoghi dove avvenivano i più gravi episodi di cronaca. Voleva vedere con i suoi occhi, raccogliere personalmente tutti gli elementi che potessero aiutarlo a comprendere gli eventi e il contesto in cui essi maturavano. Quelle informazioni venivano elaborate con grande cura, rigore e onestà intellettuale e tradotte in articoli dallo stile vivo, concreto ed efficace, che delineavano in modo chiaro e completo i contorni, i presupposti e le implicazioni degli avvenimenti di maggiore rilievo, descritti con grande ricchezza di dettagli, e senza tacere il nome di nessuno dei soggetti coinvolti, quale che fosse il suo spessore criminale e il suo ruolo sociale.

Con la sua penna si occupò della strage di Ciaculli, del processo ai corleonesi del 1969 a Bari, dell’omicidio del colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo e fu l’unico giornalista a intervistare la moglie di Totò Riina, Antonietta Bagarella. Nelle sue inchieste entrò profondamente nell’analisi dell’organizzazione mafiosa, delle sue spaccatture, delle famiglie e dei capi, specie del corleonese legato a Luciano Liggio e Totò Riina. Dagli articoli e dal dossier redatti da Mario Francese emerge una straordinaria capacità di operare collegamenti tra i fatti di cronaca più significativi verificatisi nel corso degli anni, di interpretarli con coraggiosa intelligenza e di tracciare così una ricostruzione di eccezionale chiarezza e credibilità sulle linee evolutive dell’organizzazione mafiosa, in una fase storica nella quale emergevano le diffuse e penetranti infiltrazioni di "Cosa Nostra" nel mondo degli appalti e dell’economia e iniziava a delinearsi la strategia di attacco alle Istituzioni da parte dell’illecito sodalizio. Il pentito Gaspare Mutolo, in un interrogatorio del 15 dicembre 1993, così parlava del lavoro del giornalista siciliano: “Ricordo in particolare che il Francese non perdeva occasione per attaccare in qualunque modo la mafia ed i soggetti ad essa appartenenti. Se non erro si interessò molto delle vicende relative ai lavori di appalto e di subappalto realizzati nella Valle del Belice per la costruzione della diga Garcia ed a tal proposito pubblicò spesso articoli riguardanti anche numerosi omicidi che erano avvenuti in quel periodo nella zona del Trapanese e del Palermitano interessata proprio da tali lavori.”

L'impegno della famiglia

Sono tante le interviste di Giulio Francese, figlio del giornalista siciliano, che ricordano con parole toccanti la figura del padre. E non solo la figura del padre. Nella ricerca della verità, l’altro fratello Giuseppe, ha rappresentato la figura determinante.

“Mio padre – commenta Giulio Francese, sottolineando quanto scritto dai giudici nella sentenza - ricostruì prima di tutti i nuovi assetti di Cosa Nostra a metà degli anni Settanta. Fu il primo a capire l’evoluzione strategica e i nuovi interessi della mafia di Corleone”. I corleonesi - ha continuato Giulio Francese - si erano voluti liberare di un cronista scomodo che aveva più volte sottolineato la loro ferocia, che aveva scritto con insistenza della pericolosità di Riina e Provenzano, raccontando i retroscena della lunga catena di morti ammazzati nel Corleonese e dintorni, una mattanza che rappresentava solo la prova generale della strategia di morte che i corleonesi erano pronti a scatenare più tardi a Palermo prima, e in tutta la Sicilia poi”.

Ma il ricordo diventa struggente quando Giulio ricorda suo fratello Giuseppe, morto suicida a 36 anni, un anno dopo la sentenza che vede condannati i i boss della “cupola”. “Aveva 12 anni quando è stato ucciso il suo papà. Lo ha potuto abbracciare solo nelle fotografie, le ha cercate ovunque, compresi gli archivi dei giornali, ha coltivato come reliquie i suoi articoli, li ha letti uno per uno, li ha trascritti tutti al computer (ricordo che ai tempi di mio padre si usava ancora la macchina da scrivere). Di questi testi ha fatto il suo tesoro affettivo e conoscitivo. Sì, mio fratello che non era un giornalista ma che il giornalismo lo aveva nel sangue, studiando mio padre è diventato pure lui un esperto di mafia e chiedere verità e giustizia per il suo papà e per i tanti senza giustizia è diventata la sua missione. Non accettava che suo padre fosse stato dimenticato e ha cominciato a scriverne su qualche giornale, visto che altri, più affermati e qualificati non lo facevano”. Ma il suo grande merito, ha voluto sottolineare il fratello Giulio, “è stato quello di non arrendersi mai alla rassegnazione, spingendo noi fratelli a reagire. Lavorando sulle carte di papà, ha fatto una lavoro pazzesco di ricostruzione, di ricerca, di riscontri ai racconti dei collaboratori di giustizia, fino al punto da creare un suo dossier per chiedere, dopo oltre 15 anni di attesa, la riapertura dell’inchiesta. Giuseppe ha vinto. Ha saputo stimolare in maniera intelligente i magistrati che del caso si sono occupati, diventando per loro un punto di riferimento. Non si è risparmiato, continuando a cercare elementi utili, finché il sogno del processo non è diventato realtà. Un processo lungo, difficile, che ha creato anche non pochi imbarazzi nell’ambiente professionale di mio padre, per certe frequentazioni poco limpide. Giuseppe ha seguito, con un coinvolgimento totale, ogni udienza, ed è uscito stremato dal processo. La sentenza ha sancito la condanna di mezza cupola, ma l’ho visto esultare solo con un mezzo sorriso stanco. Mario Francese non era più una vittima di serie B, la sentenza gli restituiva onore e dignità umana e professionale che con un lungo silenzio avevano cercato di sotterrare per sempre. Ma Giuseppe non era più Giuseppe, nonostante la vittoria. Lo sforzo di quell’impegno lo aveva sfiancato, le sue ferite mai rimarginate avevano ripreso a sanguinare con forza. E lui non ce l’ha fatta”.

Con i tuoi occhi hai scrutato il mare,

cercato il bene, sorriso al male

I tuoi occhi,

calici di lacrime e luce,

fiaccole nelle tenebre, ampolle di purezza,

buchi neri di mistero e dolore

Sulla lapide bianca

i tuoi occhi, accesi di passione

consolano, perdonano, sorridono.

I tuoi occhi

Per guardare avanti e specchiarsi

in cerca di te, di me.

Giulio Francese - figlio di Mario

Vicenda giudiziaria

Per ben vent’anni la storia di Mario Francese è caduta nel dimenticatoio. Grazie al collaboratore di giustizia Gaspare Mutolo si ebbe una svolta: raccontò ai magistrati che il giornalista era stato ucciso da Cosa nostra perché i suoi articoli davano fastidio. Era poco per la procura che decise di non riaprire il caso. Un giorno al “Giornale di Sicilia” al figlio Giulio arrivò una lettera rivolta a tutta la famiglia, firmata da Domenico Di Marco, un mafioso da “quattro soldi” che secondo i magistrati era poco attendibile. Le dichiarazioni del pentito non avevano alcun riscontro, però spinsero la famiglia Francese a chiedere giustizia. Nel 1994, Giulio fu ricevuto dai magistrati Gian Carlo Caselli ed Enza Sabatino che gli suggerirono di raccogliere articoli, documenti e materiali che confermassero le dichiarazioni di Di Marco. Giuseppe, figlio più piccolo di Mario, decise di passare a setaccio tutti gli articoli scritti da suo padre e iniziò a ricostruire l’attività giornalistica investigativa. Il suo obbiettivo era di trovare dei collegamenti tra gli appalti della diga Garcia, l’omicidio Russo e gli attentati al caporedattore e direttore del giornale di quel tempo. Tra il lavoro fatto da Giuseppe e Giulio e i pentiti, che arrivarono in un secondo momento, il Gip Florestano Cristodaro accolse la proposta della pm Laura Vaccaro di riaprire il caso Francese, rinviando a giudizio l’intera cupola di Cosa nostra. Alla sbarra Salvatore Riina, Francesco Madonia, Michele Greco, Antonino Geraci, Giuseppe Farinella, Matteo Motisi, Pippo Calò e imputati per essere stati i killer Leoluca Bagarella e Giuseppe Madonia. Madonia fu poi assolto. Nella sua requisitoria la pm Vaccaro ricostruì il contesto in cui Francese lavorava, evidenziando anche l'isolamento all’interno del giornale. “Si muore quando si è soli - disse il magistrato - quella solitudine uccise Mario Francese”. E poi ancora: “Ce lo dicevano i fatti, ce lo diceva la vita di Mario Francese, ce lo dicevano soprattutto i suoi scritti, che la chiave di lettura andava cercata nel suo impegno professionale, nella sua tenacia nel ricercare la verità e comunicarla attraverso le pagine di un Giornale all'epoca non coraggioso come il suo cronista; ce lo dicevano questi fatti, che la morte di Mario Francese era stata opera di quelli che, sul finire degli anni ‘70, erano i veri 'padroni' delle nostre città, della nostra terra, di questa città. Ma non avevamo prove per fare di tutto ciò un processo, non avevamo elementi per richiedere una affermazione di verità giudiziaria”.

L'11 aprile del 2001 arrivarono le condanne a 30 anni per tutti gli imputati. Nel secondo grado di giudizio, la Corte d’Appello di Palermo il 13 dicembre 2002 confermò tutte le condanne di primo grado. Ma poi in Cassazione, i boss Pippo Calò, Antonino Geraci e Giuseppe Farinella furono assolti “per non avere commesso il fatto”, per il resto furono avvallate le condanne a 30 anni. Ma sono tanti i dubbi ancora non svelati. Leggendo la sentenza della Corte d'Assise presieduta da Giuseppe Oliveri, che ha condannato Riina e i boss della Cupola (tra cui Michele Greco) come mandanti del delitto Francese, i giudici hanno esplorato non solo le stanze dell’editore, ma anche i misteri di quella redazione negli anni Settanta, e si sono soffermati sulla "fuga di notizie che avveniva dall’interno del Giornale di Sicilia in favore di alcuni esponenti di Cosa nostra" (pagina 416 della sentenza di appello). È il punto centrale della storia di Francese: qualcuno fece filtrare all’esterno il suo grande dossier - inchiesta sulla nuova mafia dei Corleonesi? Francese l’aveva consegnato a maggio, fu pubblicato solo otto mesi più tardi, quando il giornalista era ormai morto. Davvero curioso: un cronista ucciso per uno scoop mai fatto. Forse qualcuno aveva fatto sapere ai boss dell’esistenza del dossier. Tante domande ancora senza risposta. Quelle domande che per tanto tempo hanno tormentato Giuseppe, il figlio di Mario, che ha dedicato la sua vita prima di suicidarsi, a combattere per far riaprire l'inchiesta.

Memoria viva

Il Premio Mario Francese è un premio giornalistico istituito nel 1993 alla memoria di Mario Francese, dedicato al cronista palermitano ucciso dalla mafia, e al figlio Giuseppe. Il premio viene assegnato periodicamente dall'Ordine dei Giornalisti di Sicilia.