Il senso della tragedia. Un ricordo del 23 maggio
di Daniela Marcone
Ho conosciuto Antonio attraverso il racconto della loro infanzia e adolescenza condiviso da sua sorella Matilde, Tilde per parenti e amici. Eravamo in cerchio, tutti familiari di vittime delle mafie pugliesi. Guardavo Tilde e ascoltavo le parole da lei scelte con cura e amore, lo sguardo grave ma vitale, e parola dopo parola iniziai a vedere Antonio che correva libero da bambino e poi ragazzo, che sceglieva di entrare nella Polizia di Stato, che si innamorava della sua Tina e poi aveva due splendidi bimbi. Ma dentro di me sentivo che il racconto sarebbe terminato in quella maledetta esplosione, una quantità impressionante di esplosivo che avrebbe spazzato via vite e speranze. Conoscevo bene, nei dettagli, quanto era accaduto il 23 maggio del 1992 a Capaci, vicino Palermo: ricordo ancora che quella sera i tg nazionali trasmisero le immagini della devastazione causata dalla violenza mafiosa ai danni del giudice Giovanni Falcone, di sua moglie Francesca Morvillo e delle persone che lo proteggevano, Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani. Non sapevo che Antonio e Rocco erano figli di Puglia, nati nella regione dove sono nata io. Il servizio del tg lo guardai con mio padre Francesco Marcone, Franco per tutti noi. Mi guardò sconvolto, negli occhi la consapevolezza che lui adulto avvertiva in modo profondo, di quanto quella violenza non fosse poi così lontana da casa nostra. A me, invece, parve che quella scena di guerra appartenesse ad un mondo lontano, causata da un fenomeno, la mafia, che da noi non c'era. Quanto mi sbagliavo, mi sentivo al sicuro ma non lo ero. Papà ci ha protetti trasmettendoci fiducia nella vita e nelle persone, fino al giorno in cui fu ucciso, il 31 marzo del 1995, meno di 3 anni dopo la strage di Capaci. La sua è una storia diversa ma la devastazione entrò nella nostra casa e, anni dopo, il dolore profondo scaturito da quanto era accaduto alla mia famiglia, mi fece comprendere quanto esprimeva Tilde, con il suo racconto di vita realmente vissuta. Era accaduto davvero, le persone uccise a Capaci il 23 maggio del 1992 erano state spazzate via senza alcuna pietà, da persone che hanno scelto di condannare a morte, una morte terribile, altre persone. Il senso della tragedia che quell'evento, come quello successivo accaduto il 19 luglio dello stesso anno ai danni di un altro giudice e delle persone che gli facevano da scorta, era schiacciante e rischiava realmente di paralizzare la reazione della gente comune, impaurita e senza parole. Poi, nello stesso anno in cui morì mio padre, il 1995, nacque Libera, una realtà che metteva in rete tante altre realtà e singoli, per costruire insieme una reazione comune alle mafie, una resistenza che si fondava proprio sulle vite spezzate delle vittime innocenti delle mafie. Quell'incontro tra familiari di vittime era stato organizzato, qualche anno dopo, proprio da persone della rete di Libera, di cui facevo parte anche io. E le parole di Tilde, cui seguirono le nostre, il bisogno comune di raccontare i nostri cari, ci permisero di riconciliarci con il senso di condivisione umana che la violenza entrata nelle nostre vite rischiava di cancellare per sempre, facendoci sentire soli con il nostro dolore.
Anche oggi, dopo 28 anni da quel 23 maggio del 1992, la costruzione di una memoria collettiva su quanto accaduto a Capaci, ad Antonio e Rocco, a Giovanni e Francesca e a Vito, alle persone sopravvissute da quella strage che ancora oggi convivono con i danni visibili e invisibili, è il filo conduttore di un impegno comune contro tutte le mafie, contro la corruzione a esse legata. E' la nostra identità, di cui dobbiamo continuare a prenderci cura, oggi più che mai, nelle nostre comunità che vengono fuori, piano piano, dall'emergenza sanitaria, con più fragilità di prima e un bisogno di fare memoria anche di quanto accaduto alle vittime del virus.