In quell'estate del 1985 in molti fischiettavano sulle spiagge gli ultimi successi della stagione: L’estate sta finendo dei Righeira e Ragazzi di oggi di Luis Miguel. Un caffè e un quotidiano si compravano ancora con le vecchie mille lire. In quell'estate del 1985, in Sicilia, a Palermo, si iniziava ad allestire l’aula bunker dell’Ucciardone, dove si sarebbe tenuto il primo maxiprocesso alla mafia: 456 imputati alla sbarra, tre gradi di giudizio e la sentenza, il 30 gennaio 1992, della Cassazione che sancirà l’esistenza di un’organizzazione criminale di stampo mafioso denominata “Cosa nostra”.
In quella estate del 1985, un giorno di fine luglio, sul molo di Porticello vicino Palermo, il commissario Beppe Montana cammina seguito dalla sua fidanzata. Ha ormeggiato il piccolo motoscafo "Speedy el Sud" con il quale ha fatto un giro navigando tra Casteldaccia e Porticello. Ha ancora il sale sulla pelle, i capelli umidi e il costume da bagno. Sembrano due innamorati in cerca di privacy in un giorno di festa. In realtà Montana è a caccia di nascondigli di latitanti: questo è il suo mestiere da capo della sezione Catturandi della squadra mobile di Palermo. Solo una settimana prima, Beppe aveva condotto un’operazione che aveva portato all’arresto di otto persone appartenenti alla famiglia di Pino Greco detto Scarpuzzedda. Mentre cammina su quel molo, i sicari di Cosa Nostra, lo sorprendono con numerosi colpi di una 357 Magnum e una calibro 38. Gli sparano in faccia lasciandolo in un lago di sangue. L'orologio segnava le ore 21.00, i sicari che lo hanno freddato quella domenica 28 luglio del 1985, forse non sanno, o forse sì, che con quell'omicidio inizia una delle più terribili estati vissute da Palermo.
La Sezione Catturandi di Palermo
Beppe Montana, nativo di Agrigento, arriva a Palermo all’indomani dell’omicidio del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, di sua moglie Emanuela Setti Carraro e dell’agente di scorta Domenico Russo, nel 1982. Beppe era un uomo della sezione ‘Catturandi’, la squadra che lavorava per arrestare i mafiosi ancora latitanti. Insieme al vicedirigente della Mobile Antonino Cassarà, braccio destro di Falcone, diventò a soli 34 anni uno degli investigatori più abili. I colleghi avevano cominciato a chiamarlo Serpico, come l'indimenticabile Al Pacino nel film di Sidney Lumet sulla mala di New York. In soli tre anni di attività sono tantissimi i suoi successi professionali, che vanno dai numerosissimi arresti di latitanti, alla scoperta di depositi di armi e raffinerie di droga. Le sue intuizioni più grandi sono state certamente la creazione della sezione “Catturandi” e l’introduzione di un nuovo modello investigativo, basato sulla frequentazione e conoscenza del territorio, in cui cercava i latitanti. Riteneva, infatti, che un capomafia non poteva allontanarsi per troppo tempo dal suo territorio, perché così facendo avrebbe perso il suo potere. Ma è stato soprattutto il protagonista principale di una vera e propria rivoluzione culturale di quella squadra mobile. Quando ai funerali di Lillo Zucchetto, un bravissimo investigatore della Catturandi, si rese conto che in chiesa non c’erano i palermitani, ma solo poliziotti, diede vita al Comitato Lillo Zucchetto, girando e incontrando gli studenti.
I nostri successi sono determinati non solo dalle investigazioni ma anche dal progresso culturale.
Insieme a Ninni Cassarà, con cui era legato da un profondo senso di amicizia, aveva diretto le operazioni che avevano portato agli arresti di molti boss mafiosi. Già nel 1983 infatti i suoi uomini individuarono l’arsenale di San Ciro Maredolce. Erano armi delle famiglie Greco e Marchese, in lotta con i corleonesi per la supremazia. Durante la primavera del 1984, Montana e la sua squadra avevano arrestato il boss Masino Spadaro, trovandolo nella sua casa dove stava trascorrendo indisturbato la latitanza. Infine, il 24 luglio 1985, avevano fatto irruzione in una villa a Bonfornello e arrestato otto persone, fra cui alcuni luogotenenti dei Greco e di Luciano Liggio.
Quel necrologio negato
Dopo il funerale ricorda Giuseppe Vinci, amico di Beppe, accompagnammo la salma di Beppe al cimitero di Catania. Con noi anche il Vicequestore Ninni Cassarà e l’agente Roberto Antiochia, che fino a pochi mesi prima aveva lavorato nella Squadra Catturandi di Beppe, diventando oltre che un abile investigatore, suo intimo amico. Roberto era da poco rientrato nella sua Roma, ma avendo appreso dell’omicidio di Beppe volle tornare a Palermo e da allora non lasciò un attimo solo l’altro suo superiore e amico Ninni, prestandosi come volontario per fargli la scorta. E così si beccò insieme a lui una scarica letale di kalashnikov mentre lo accompagnava a casa il 6 agosto 1985. Appena una settimana prima lo avevo sentito promettere davanti alla tomba di Beppe che avrebbe preso “quei bastardi”, gli assassini del suo grande amico. In occasione del trigesimo dell’omicidio di Beppe Montana, il padre chiese la pubblicazione, a pagamento sul quotidiano La Sicilia, nella rubrica dei necrologi, del seguente testo: “La famiglia con rabbioso rimpianto ricorda alla collettività il sacrificio di Beppe Montana – commissario di P.S. – rinnovando ogni disprezzo alla mafia e ai suoi anonimi sostenitori”. Incredibilmente, l’impiegato del giornale La Sicilia gli rispose che sarebbe dovuto andare a chiedere alla direzione l’autorizzazione per la pubblicazione; al suo ritorno, affermò categoricamente che il testo veniva respinto allo sportello su insindacabile disposizione del direttore, Mario Ciancio Sanfilippo.
Vicenda giudiziaria
Le prime indagini portano all'identificazione di Salvatore Marino, un pescatore di 25 anni, calciatore nel Bagheria, a cui risultava intestata l'auto avvistata sul luogo del delitto. Il ragazzo venne convocato dagli inquirenti per essere ascoltato come teste. L'interrogatorio segnò uno dei più importanti passaggi nella guerra tra Stato e mafia. Quando arrivò negli uffici della Mobile il ragazzo era solo. In venti, tra polizia e carabinieri, lo torchiano tutta la sera, ma Salvatore non disse nulla di utile, né sull'auto né sulla somma di diverse decine di milioni di lire, trovata in casa sua. Alle 4,10 del mattino, Salvatore Marino morì nella stanza al secondo piano del chiostro che ospitava gli uffici della Mobile. L'autopsia trovò sul suo corpo i segni delle torture. Partì un'indagine per omicidio a carico di polizia e carabinieri. La sera del 5 agosto, il ministro Scalfaro e il presidente del consiglio Craxi esercitarono il potere di cui disponevano e rimossero dai loro incaarichi il capo della Squadra mobile, il capitano dei carabinieri e il dirigente della sezione antirapine. Lasciando così solo e isolato il commissario Cassarà.
Solo nel 1994 si seppe il movente dell’omicidio di Beppe Montana e, in parte, quello di Cassarà. Il pentito Francesco Marino Mannoia, fratello di Salvatore, rivelò che i due delitti furono eseguiti grazie all’aiuto di una talpa di Cosa nostra negli uffici della polizia. Così la Cupola avrebbe deciso all’unanimità di far uccidere prima Montana e poi Cassarà. Grazie a quelle dichiarazioni, per l’omicidio di Beppe Montana, vennero condannati all’ergastolo Totò Riina, Michele Greco, Francesco e Antonio Madonia, Bernardo Provenzano, Bernardo Brusca, Raffaele e Domenico Ganci, Salvatore Buscemi, Giuseppe e Vincenzo Galatolo. Ergastolo anche per l’esecutore materiale del delitto, Giuseppe Lucchese. I soli Riina, Greco, Madonia, Provenzano e Brusca verranno condannati come mandanti dell’omicidio Cassarà. Il pentito confermò anche che Salvatore Marino aveva fatto da palo durante l’agguato a Porticello, la Peugeot 205 era sua ma l’avevo fatta intestare al fratello.
A casa nostra abbiamo sempre sentito parlare dello zio Beppe, ma non lo abbiamo mai conosciuto. A volte è strano chiamare ‘’zio’’ una persona che non abbiamo mai visto, però sentendo i racconti dei nostri genitori abbiamo iniziato a conoscerlo, a sentirlo vicino e a sentire la responsabilità di raccontare la storia di una persona che non c’è più. Ci hanno raccontato che amava il mare, la sua famiglia, la sua fidanzata Assia, il suo cane, e il suo lavoro. Aveva deciso di diventare poliziotto prestissimo, e ha avuto la grande fortuna di riuscire a coronare il suo sogno. Era arrivato a Palermo dopo l’omicidio di Dalla Chiesa e qui aveva cominciato le indagini sui boss mafi osi della zona. La sua principale intuizione infatti consisteva nell’aver realizzato che i boss, per poter esercitare il dominio su una zona non potevano allontanarsi da questa per troppo tempo. Ci fa sorridere sentir parlare di lui come un eroe perché sappiamo bene che non lo era. Era il più scapestrato della famiglia e anche nel lavoro non seguiva tanto gli schemi. I suoi amici lo prendevano in giro perché lui e i suoi colleghi Ninni Cassarà e Roberto Antiochia si facevano prestare ciò che serviva per gli appostamenti, ad esempio parrucche e auto. Spesso ci chiediamo quanto la sua storia abbia influito sulle nostre scelte e sul nostro modo di vedere le cose. Per la nostra famiglia l’impegno e la condivisione del dolore all’interno di Libera è stato ciò che ha permesso loro di lenirlo e dare un senso a ciò che è successo, e noi abbiamo scelto di seguire le loro orme raccontando la storia di nostro zio.
Memoria viva
A Beppe Montana è dedicata la cooperativa di Libera Terra che gestisce i terreni confiscati alla mafia tra le province di Catania e Siracusa.