Generale, perché fu ucciso il comunista Pio La Torre?
Per tutta la sua vita; ma, decisiva, la sua ultima proposta di legge, di mettere accanto alla "associazione a delinquere" la "associazione mafiosa".
È il 10 agosto del 1982. Queste parole sono solo un passaggio della lunga e memorabile intervista rilasciata dal generale Carlo Alberto dalla Chiesa a Giorgio Bocca e pubblicata dalla Repubblica.
Cominciare da queste parole, in questa storia, ha un sapore particolare. Amaro, naturalmente. Perché tra le vite - e purtroppo le morti - di Pio La Torre e Carlo Alberto dalla Chiesa c’è un legame speciale, un filo rosso come il sangue innocente versato da entrambi.
Pio aveva fortemente sostenuto l’arrivo di Carlo Alberto a Palermo. Credeva fermamente nel contributo decisivo che il generale che aveva sconfitto il terrorismo avrebbe potuto dare alla lotta contro Cosa nostra. Carlo Alberto, che di Pio era un sincero e profondo estimatore, dal canto suo aveva intuito la potenza devastante che la proposta di legge a cui La Torre stava lavorando avrebbe potuto avere per la mafia.
E poi c’è un dettaglio che unisce queste due storie, così diverse eppure in qualche modo così convergenti. E quel dettaglio è una data: il 30 aprile 1982. Pochi giorni prima, il 6 di aprile, il Consiglio dei Ministri aveva nominato dalla Chiesa Prefetto di Palermo. Ma il suo arrivo ufficiale in città avvenne proprio quel giorno, lo stesso in cui Pio La Torre e Rosario Di Salvo venivano barbaramente trucidati dalla mafia.
In quell’intervista Carlo Alberto a Giorgio Bocca disse molte cose importanti. Tra queste, oltre al riferimento a Pio La Torre, un’intuizione che ha il sapore della profezia: “credo di aver capito la nuova regola del gioco: si uccide il potente quando avviene questa combinazione fatale, è diventato troppo pericoloso ma si può uccidere perché è isolato”. Lui era arrivato a Palermo con la promessa di poteri speciali contro Cosa nostra. Se ne andò per sempre senza che questa promessa fosse minimamente mantenuta. Solo. Esposto. Isolato.
La carriera militare
Carlo Alberto dalla Chiesa era nato a Saluzzo, in provincia di Cuneo, il 27 settembre del 1920. Suo padre Romano era un Generale dell’Arma. Come già suo fratello Romolo, decise di seguire le orme paterne. Allo scoppio della Seconda guerra mondiale, nel 1941 e dunque appena ventunenne, decise di arruolarsi nel Regio Esercito per poi transitare, un anno più tardi, nel corpo dei Reali Carabinieri. Destinato al comando della Tenenza di San Benedetto del Tronto, vi rimase fino all’armistizio dell’8 settembre 1943.
Sono i primi passi di una carriera brillantissima, che ha reso leggendarie le gesta di questo fedele servitore dello Stato. Ovunque sia passato, a qualsiasi incarico sia stato destinato, a qualunque tipo di obiettivo abbia lavorato, Carlo Alberto ha lasciato le tracce di risultati straordinari. Compresi gli ambienti di quella Resistenza partigiana alla quale decise di unirsi, operando in clandestinità nelle Marche e in Abruzzo. Quando gli alleati fecero ingresso a Roma, fu inviato lì con il compito di difendere la sicurezza della Presidenza del Consiglio dei ministri dell'Italia liberata. Poi, nel 1944, l’arrivo a Bari, la conoscenza di Aldo Moro e la laurea in Scienze politiche, che seguiva di un anno quella in Giurisprudenza.
A Bari, dove comandava la Tenenza dell’Arma, conobbe Dora Fabbo. Si sposeranno nel 1946 e dal loro amore nasceranno Rita, Nando e Simona. Fu un amore profondo il loro, vissuto con grande intensità da questo militare tutto d’un pezzo che tuttavia era capace di gesti e parole di estrema tenerezza. Dora se ne andò nel febbraio del 1978 ad appena 52 anni.
“Sono oltre quaranta giorni - scrisse poche settimane dopo Carlo Alberto nel suo diario - che vivo senza quella creatura. Senza un segno da colei alla quale avevo donato, dall’età di 19-20 anni, la mia stessa esistenza”. Lei le era stata accanto in tutti gli anni precedenti. A partire da quando, guadagnatosi il passaggio in servizio permanente effettivo nell'Arma dei Carabinieri per merito di guerra grazie al suo ruolo nella Resistenza, aveva cominciato ad affrontare battaglie via via più dure e pericolose.
La lotta al banditismo
L’impegno nella lotta al banditismo in Campania e Sicilia fu la prima di queste battaglie che in molti ritenevano impossibili da vincere. A Casoria, in provincia di Napoli, arrivò nel 1947 e subito si mise al lavoro con risultati sorprendenti. Successi che nel 1949 gli valsero, dopo un passaggio a Firenze nel ‘48, l’incarico al Comando forze repressione banditismo, il gruppo interforze nato con l’obiettivo di sconfiggere le bande di criminali siciliane, tra le quali quella del famigerato Salvatore Giuliano. Nell’isola ricoprì diversi prestigiosi incarichi e si dedicò, tra l’altro, alle indagini sull’omicidio del sindacalista Placido Rizzotto. Fu in questa circostanza, quando il ruolo dapprima occupato da Rizzotto fu assunto da Pio La Torre, che i due si conobbero, costruendo un rapporto di stima reciproca mai più incrinatosi.
Le indagini su Cosa nostra
È impossibile tenere traccia di tutti gli incarichi che assunse in giro per l’Italia, ovunque accrescendo la sua fama e il suo prestigio. Ma ci sono dei punti di snodo in questa storia che occorre necessariamente ricordare per coglierne fino in fondo lo sviluppo. Tra questi, senz’altro il suo ritorno in Sicilia, da cui era stato trasferito nel 1950. Carlo Aberto torna nell’isola nel ‘66, divenuto colonnello, per comandare la Legione Carabinieri e per restarci fino al 1973. Furono anni di impegno intensissimo, che lo portarono a indagare su delitti di peso, come quelli del giornalista Mauro De Mauro e del Procuratore Pietro Scaglione. Anche qui, risultati straordinari, accompagnati da metodi di lavoro e di indagine assolutamente innovativi.
Il contrasto al terrorismo
Nel nord Italia, intanto, si facevano i conti con il preoccupante aumento di episodi di violenza che vedevano protagoniste le Brigate Rosse. Quando, nell'ottobre del 1973, Carlo Alberto, con il grado di generale di brigata, divenne comandante della Prima Brigata Carabinieri di Torino, intuì che il terrorismo politico poteva essere efficacemente contrastato con gli stessi metodi utilizzati contro le organizzazioni mafiose. Scelse di avvalersi della diretta collaborazione di dieci ufficiali da lui personalmente selezionati per dare vita al Nucleo Speciale Antiterrorismo. Siamo nel maggio del 1974. Due anni più tardi, nonostante i successi conseguiti, il Nucleo Antiterrorismo fu sciolto, sulla scia delle polemiche alimentate attorno ai metodi utilizzati dai militari. Tuttavia dalla Chiesa rimase al comando della brigata fino al marzo del ’77, per poi essere nominato, nel mese di maggio, coordinatore del Servizio di sicurezza della Direzione generale degli istituti di prevenzione e pena e pochi mesi dopo promosso al grado di generale di divisione.
Nell'agosto del '78 fu nominato Coordinatore delle Forze di Polizia e degli Agenti Informativi per la lotta contro il terrorismo con poteri speciali e alle dirette dipendenze del Ministro dell’Interno Rognoni. Fu uno scatto ulteriore nella lotta al terrorismo politico, cui il generale diede seguito anche dopo il suo trasferimento al comando della Divisione interregionale Pastrengo di Milano, nel 1979. Inanellando un successo dopo l’altro e, in sostanza, dando un colpo definitivo al terrorismo politico, rimase al comando della Pastrengo fino a quando, il 16 dicembre del 1981, raggiunse il vertice della sua carriera, con la nomina a Vicecomandante generale dell'Arma. Ricoprì l’incarico fino al 5 maggio del 1982, un mese dopo la sua nomina a Prefetto di Palermo, avvenuta il 6 di aprile.
Il ritorno in Sicilia
Inizialmente assai perplesso sulla possibilità di accettare l’incarico e tornare in Sicilia, Carlo Alberto fu convinto dalle insistenze del Ministro Virginio Rognoni, che aveva lavorato con Pio La Torre alla scrittura di quella che sarebbe poi diventata la Legge 646 e che lo convinse promettendogli poteri speciali contro la mafia, come già era avvenuto contro il terrorismo. Alla fine il generale accettò. Con il grado di generale di corpo d’armata, tenne il suo discorso di commiato dall’Arma proprio il 5 maggio per poi arrivare a Palermo quel maledetto 30 aprile.
Intanto la sua vita privata stava per registrare una nuova svolta. Il dolore per la morte di Dora accompagnò per sempre la vita di Carlo Alberto. Ma fu capace di innamorarsi nuovamente, di fronte alla giovane bellezza e alla determinata volontà di Emanuela Setti Carraro. Lei, più giovane di lui di 30 anni, non desistette di fronte alle titubanze del generale. I due si sposarono il 10 luglio, con un matrimonio celebrato in forma privata nella chiesetta di Castel Ivano a Ivano-Fracena in Trentino.
I mesi di Palermo furono estremamente difficili per Carlo Alberto ma non per questo meno intensi. Il generale dovette sperimentare sulla sua pelle le conseguenze dell’isolamento in cui fu relegato. La promessa totalmente disattesa dei poteri speciali non fece altro che alimentare la sensazione che, a differenza di quanto accaduto col terrorismo politico, questa volta lo Stato non avesse alcuna intenzione di dare seguito e concretezza alla volontà di affrontare a viso aperto la mafia e di sconfiggerla. La profezia contenuta in quell’intervista a Giorgio Bocca si avverò, nella maniera più drammatica. Isolato, il generale fu colpito in maniera definitiva.
Il 3 settembre del 1982
La sera del 3 settembre 1982 Carlo Albero ed Emanuela stavano rincasando a bordo della propria A112. Al lato guida c’era lei. Dietro, a poca distanza, un’altra vettura, con a bordo l'autista e agente di scorta, Domenico Russo. L’azione dei killer fu spietata. In via Isidoro Carini, una BMW affiancò la macchina del generale. Dal suo interno, qualcuno esplose una raffica di kalashnikov che non lasciò scampo a Carlo Alberto ed Emanuela. Lui non aveva ancora compiuto 62 anni. Lei invece di anni ne aveva appena 31. Poco più dietro, una motocicletta raggiunse la macchina di Russo, anch’egli trentunenne, ed un’altra raffica di mitra ferì l’agente, che morì 12 giorno dopo in ospedale.
Ai funerali celebrati nella chiesa di San Domenico, una folla indignata contestò duramente le autorità e i rappresentanti istituzionali presenti, colpevoli di non aver adeguatamente protetto e sostenuto il generale. Contestazioni che risparmiarono solo l’amatissimo Presidente della Repubblica Sandro Pertini.
Intanto, nella residenza del Prefetto qualcuno aveva fatto sparire le chiavi della cassaforte, poi ritrovata totalmente vuota. In via Carini, qualcuno affisse un manifesto: “qui è morta la speranza dei palermitani onesti”. Dal pulpito, il cardinale Pappalardo lanciò il suo atto d’accusa contro chi avrebbe potuto fare e non aveva fatto:
Mentre a Roma si pensa sul da fare, la città di Sagunto viene espugnata dai nemici [..] e questa volta non è Sagunto, ma Palermo. Povera la nostra Palermo.
La vicenda giudiziaria
Per la strage di via Carini furono condannati come mandanti i vertici dell’organizzazione mafiosa (Totò Riina, Bernardo Provenzano, Michele Greco, Pippo Calò, Bernardo Brusca, Nenè Geraci) e solo nel 2002 anche gli autori materiali della strage, Antonino Madonia, Vincenzo Galatolo, Raffaele Ganci e Giuseppe Lucchese, e i collaboratori di giustizia Francesco Paolo Anzelmo e Calogero Ganci.
Memoria viva
“Con che coraggio resti lì, abbandonato dallo Stato?” gli chiesi.
Perché “certe cose non si fanno per coraggio, si fanno per potere continuare a guardare serenamente negli occhi i propri figli e i figli dei propri figli”, fu la risposta.
Ecco qual è il suo insegnamento. La lotta alla mafia è continua e globale. Riguarda il mondo esterno, in tutti i suoi campi e a tutti i suoi livelli; ma riguarda anche le proprie debolezze. E ognuno di noi può farne funzionare una parte piccola o grande.
E se è così, come ebbe a dire dieci anni dopo Giovanni Falcone, “ognuno può sempre fare qualcosa".
L’influenza che la strage di via Carini ha avuto sulla cultura di massa è sconfinata quanto i meriti del generale dalla Chiesa. Onorificenze, film per il cinema e per la tv, decine di libri, centinaia di lapidi, busti, sculture, scuole, caserme, strade e piazze gli sono stati dedicati. A lui sono intitolati anche i Presidi di Libera a Saluzzo, sua città natale, a Voghera e a Gela.