5 maggio 1971
Palermo (PA)

Pietro Scaglione

Il 5 maggio del 1971 è una data fondamentale nella storia repubblicana. Quel mercoledì segnò l'avvio di una fase nuova con la quale Cosa nostra alzò il livello dello scontro con lo Stato e i poteri costituzionali. Quel mercoledì, per la prima volta, venne ucciso un magistrato in prima linea nell'azione di contrasto alla criminalità organizzata. Quel magistrato si chiamava Pietro Scaglione.

Pietro Scaglione era nato a Lercara Friddi, in provincia di Palermo, il 2 marzo del 1906. Era figlio di un ricco possidente agricolo, che gli permise di assecondare la sua passione per il diritto e di dedicarsi con tutte le sue energie allo studio. Si laureò giovanissimo nel 1927 e intraprese un percorso che lo portò in breve tempo a entrare in magistratura, mantenendo le distanze e la sua indipendenza dal regime fascista. Era il 1928 e Pietro aveva solo 22 anni. Fu Vicepretore e Pretore, prima di esordire in aula come Pubblico Ministero negli anni ’40.

“Magistrato integerrimo, dotato di eccezionali capacità professionali e di assoluta onestà morale, persecutore spietato della mafia, le cui indiscusse doti morali e professionali risultano chiaramente dagli atti” – così come è stato definito anche in sentenze irrevocabili - si occupò dei più gravi misteri siciliani, per accertarne la verità e assicurarne i colpevoli alla giustizia, impegnandosi anche attivamente in difesa dell’autonomia dei magistrati dal potere esecutivo.

Video testimonianza di Maria Scaglione, figlia di Pietro Scaglione

Nominato Sostituto procuratore generale, si occupò della strage di Portella della Ginestra, definendo l’uccisione dei contadini come un “delitto infame, ripugnante e abominevole”. Accreditò come principali moventi: la “difesa del latifondo e dei latifondisti”, la lotta “ad oltranza” contro il comunismo che Salvatore Giuliano “mostrò sempre di odiare e di osteggiare”, la volontà da parte dei banditi di accreditarsi come “i debellatori del comunismo”, per poi ottenere l’amnistia, la volontà di “usurpazione dei poteri di polizia devoluti allo Stato”, la “punizione” contro i contadini che occupavano le terre.

Il pubblico ministero Pietro Scaglione aveva individuato in quegli anni la rilevante pericolosità criminale della cosca mafiosa corleonese. Tra l’altro, chiese e ottenne il rinvio a giudizio per i mafiosi Luciano Liggio, Pasquale Criscione e Vincenzo Collura, imputati dell’omicidio del sindacalista Placido Rizzotto e sostenne l’accusa in dibattimento per uno tra i primi omicidi commessi da Liggio, quello della guardia campestre Calogero Comajanni.

Si occupò anche degli assassini di altri sindacalisti, tra i quali Salvatore Carnevale, ucciso il 16 maggio del 1955 a Sciara, in provincia di Palermo, per il suo impegno al fianco di contadini e braccianti agricoli nella lotta ai latifondisti mafiosi. Nella requisitoria del 1956, Scaglione evidenziò la coraggiosa figura del sindacalista, scrivendo che l’attività di Carnevale era temuta da coloro che avevano interesse al mantenimento del sistema latifondista e del potere mafioso. Fu un processo di portata storica, nel corso del quale in aula si confrontano nomi eccellenti. La parte civile della famiglia Carnevale era rappresentata da Sandro Pertini, futuro Presidente della Repubblica. Sul fronte opposto, a difendere gli imputati, un altro futuro Capo dello Stato, il democristiano Giovanni Leone. Un lungo e complesso iter giudiziario che si concluse con l’accoglimento delle tesi dell’accusa.

Nel 1957 si trasferì a Roma per svolgere l’incarico di Consigliere di Cassazione. Qualche anno dopo, nel 1962, ritornò a Palermo con l’incarico di Presidente di sezione della Corte di appello e poi di Procuratore Capo.

Appena un anno dopo, il 30 giugno del 1963, è il primo ad arrivare a Ciaculli, una borgata di Palermo, pochi minuti dopo la strage che uccide sette esponenti delle Forze dell’Ordine. Le indagini coordinate da Scaglione, con la collaborazione di Cesare Terranova (capo dell'Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo) sono un colpo durissimo per la mafia. Grazie a questo duro lavoro, "le organizzazioni mafiose furono scardinate e disperse", si legge nella Relazione conclusiva della Commissione parlamentare antimafia del 1976.

Il magistrato avviò anche numerose inchieste a carico di politici, amministratori e colletti bianchi, come risulta dagli atti giudiziari e dalla testimonianza del giornalista Mario Francese, ucciso nel 1979:

Pietro Scaglione fu convinto assertore che la mafia avesse origini politiche e che i mafiosi di maggior rilievo bisognava snidarli nelle pubbliche amministrazioni. E’ il tempo del cosiddetto braccio di ferro tra l’alto magistrato e i politici, il tempo in cui la linea Scaglione portò ad una serie di procedimenti per peculato o per interesse privato in atti di ufficio nei confronti di amministratori comunali e di enti pubblici.
Mario Francese, "Il giudice degli anni più caldi", il Giornale di Sicilia, 6 maggio 1971

Scaglione si occupò anche della misteriosa scomparsa del giornalista Mauro De Mauro, avvenuta nel settembre del 1970. L’intervento di Scaglione in queste complesse e delicate indagini fu definito “attivissimo” dalla stessa moglie del giornalista scomparso nel settimanale “La Domenica del Corriere” del 13 giugno 1972.

Scaglione era convinto che il potere mafioso non potesse che fondarsi sulla relazione perversa con ambienti deviati dello Stato e della politica. In un suo memorabile intervento in Commissione parlamentare Antimafia, parlò senza mezzi termini della necessità di mettere in campo “un’attività sociale sempre più vasta e rivolta, tra l’altro, a eliminare o riformare strutture economiche che hanno favorito il sorgere e l’affermarsi di forme delinquenziali collegate al fenomeno della mafia, una mastodontica e tenebrosa organizzazione delinquenziale, viva e operante come gigantesca piovra, che stende ovunque i suoi micidiali tentacoli e tutto travolge per soddisfare la sua sete insaziabile di denaro e predominio”.

Pietro Scaglione era molto di più che un magistrato. Sentiva profondamente dentro di sé i valori di solidarietà e carità ed era sinceramente convinto della valore rieducativo della pena. Fu questa convinzione a indurlo a impegnarsi in prima persona in questo ambito, arrivando a diventare Presidente del Consiglio di Patronato per l’assistenza alle famiglie dei carcerati e degli ex detenuti. Un’attività  che portò, tra l’altro, all’istituzione di un asilo nido e per la quale gli fu conferito il diploma di primo grado al merito della redenzione sociale, con facoltà di fregiarsi della relativa medaglia d’oro. 

Il 5 maggio del 1971 

Quello con la moglie Concetta Abate era stato un legame profondissimo ed era rimasto tale anche quando, nel 1965, Concetta se n’era andata. Da allora, non c’era stato giorno nel quale, di buon mattino, Pietro non avesse dedicato del tempo per andare a fare visita alla tomba di sua moglie, sepolta nel cimitero dei Cappuccini. Pietro nutriva un affetto enorme per la sua famiglia, per i suoi figli, Antonio e Maria, i nipoti, i suoi fratelli. Tanto rigoroso e integerrimo nell’attività professionale, quanto cordiale, socievole e amorevole nella vita privata. 

Anche la mattina del 5 maggio 1971, Pietro era passato al cimitero da sua moglie, accompagnato dal suo fedele autista, l’agente di custodia Antonino Lorusso. I due erano a bordo della Fiat 1100 guidata da Lorusso e stavano percorrendo via dei Cipressi, quando furono affiancati da un’altra vettura sulla quale viaggiavano due o tre persone. I criminali aprirono il fuoco contro il Procuratore e l’Agente con pistole calibro 9, 38 special e forse anche una mitraglietta. Per i due non ci fu scampo. Tra i primi a giungere sul luogo della strage fu il commissario Giorgio Boris Giuliano.
Erano gli ultimi giorni a Palermo del Procuratore, che aveva da poco ricevuto l’incarico di ricoprire le funzioni di Procuratore Generale a Lecce.

Vicenda giudiziaria

Le indagini che seguirono l’omicidio sono state lunghe e articolate. Fu l’Autorità giudiziaria di Genova a occuparsene su incarico della Cassazione. Tuttavia, nonostante le numerose piste battute dagli inquirenti, ancora oggi sono sconosciuti autori e mandanti di questo duplice omicidio.

Nell'editoriale del Corriere della Sera pubblicato all'indomani dell'omicidio, Alberto Sensini scrisse che “il caso Scaglione segna un confine che non può essere oltrepassato, un punto di non ritorno".

Nel corso degli anni, sul delitto Scaglione hanno fornito dichiarazioni anche diversi collaboratori di giustizia, tra cui Tommaso Buscetta e Antonino Calderone, i quali ricondussero l’omicidio a Luciano Liggio, Totò Riina e Pippo Calò, collegandolo ad alcuni dei più grandi misteri della storia repubblicana, come il famigerato Golpe Borghese del 1970. Ancora recentemente, Antonio Scaglione, figlio del Procuratore e ordinario di diritto processuale penale all’Università di Palermo, ha ricondotto l’omicidio di suo padre a queste oscure vicende.

Anche le dichiarazioni dei collaboratori tuttavia non hanno trovato riscontri adeguati. Così, nel gennaio 1991, il giudice istruttore di Genova, Dino Di Mattei, che si occupava delle indagini, dichiarò di non doversi procedere nei confronti dei presunti responsabili dell'omicidio del procuratore Scaglione in quanto "non è stato possibile individuare nei confronti di questi imputati gli elementi convincenti di accusa, come ad esempio il rinvenimento delle armi usate o testimonianze dirette, che giustifichino il passaggio alla fase dibattimentale".

Lo storico Francesco Renda scrisse che le causali dei delitti Scaglione e De Mauro erano “inequivocabili”:

Si trattava di una ripresa del terrorismo mafioso tipo 1946-1948, non più, però, contro dirigenti sindacali e politici del mondo contadino, bensì contro la stampa e un corpo essenziale dello Stato, come l’organo giudiziario.
Francesco Renda, in “Storia della mafia. Come, dove, quando”, Palermo, Sigma edizioni, 1997

Nel 1987, Paolo Borsellino parlò di come la mafia avesse deciso, a partire proprio dall'omicidio di Scaglione, di attuare “una campagna di eliminazione sistematica degli investigatori che avevano intuito qualcosa

Le cosche sapevano che erano isolate, che dietro di loro non c'era lo Stato e che la loro morte avrebbe ritardato le scoperte. Isolati, uccisi, quegli uomini furono persino calunniati. Accadde così per Scaglione.
Paolo Borsellino, in L’Ora, 2 febbraio 1987

Dell’omicidio Scaglione si occupò anche Giovanni Falcone:

L'uccisione di Pietro Scaglione, Procuratore della Repubblica di Palermo (ebbe) lo scopo di dimostrare a tutti che Cosa nostra non soltanto non era stata intimidita dalla repressione giudiziaria, ma che era sempre pronta a colpire chiunque ostacolasse il suo cammino.
Giovanni Falcone, in La Posta in gioco, edizioni Bur, Rizzoli, 2011

Memoria viva

Pietro Scaglione e l’agente Antonio Lorusso, sono stati entrambi riconosciuti con Decreto ministeriale “vittime del dovere e della mafia” e insigniti dal Presidente della Repubblica della “Medaglia d’oro al merito civile alla memoria”. Nella motivazione del provvedimento si legge: “Fu vittima di un attacco della mafia. Magistrato assurto ai più alti incarichi, sempre impegnato nella lotta alla criminalità organizzata, perse la vita in un agguato, unitamente all’Appuntato del Corpo degli Agenti di Custodia Antonio Lorusso, mentre era in auto, a seguito di colpi d’arma da fuoco. Straordinario esempio di senso del dovere e di spirito di sacrificio”.

La memoria di Pietro Scaglione, insieme a quella di Antonino Lorusso, vive in numerose iniziative che, da 50 anni, ricordano il sacrificio di questo tutore della legge e servitore dello Stato. A loro è intitolato, tra l’altro, il Presidio di Libera a Genova.

Purtroppo, non ho avuto la gioia e l’onore di conoscere mio nonno perché all’epoca della sua morte non ero ancora nato, ma grazie ai racconti di familiari e amici mi sono accorto, sin da bambino, che si trattava di una persona speciale, di un uomo onesto e intransigente nella sua attività, ma nello stesso tempo cordiale e socievole nella vita privata. Credeva nell’autonomia e nell’indipendenza della magistratura, intesa come una missione in difesa della democrazia, della Costituzione e della Repubblica. Ho ritrovato la descrizione delle sue qualità (raccontate da chi lo conosceva e da chi lo stimava) nei provvedimenti dei diversi organi giurisdizionali (di Genova e di Palermo) che si sono occupati, a vario titolo, della sua uccisione e che lo hanno definito, nelle singole sentenze, come “un magistrato integerrimo, dotato di assoluta onestà morale e di eccezionali capacità professionali, persecutore spietato della mafia.
Pietro - nipote di Pietro