Una carriera brillante, una straordinaria capacità di indagine, una grande conoscenza delle dinamiche criminali, una condotta irreprensibile e un grande rigore morale. Furono questa virtù, oggi unanimemente riconosciute ma all’indomani del delitto oggetto anche di una vergognosa campagna di denigrazione, che gli costarono la vita.
Pietro Scaglione era nato a Lercara Friddi, in provincia di Palermo, il 2 marzo del 1906. Era figlio di un ricco possidente agricolo, circostanza questa che gli permise di assecondare la sua passione per il diritto e di dedicarsi con tutte le sue energie allo studio. Si laureò giovanissimo nel 1927 e intraprese un percorso che, in breve tempo, lo portò a entrare in magistratura, mantenendo le distanze e la sua indipendenza dal regime fascista. Era il 1928 e Pietro aveva solo 22 anni. Fu Vicepretore e Pretore, prima di esordire in aula come Pubblico Ministero negli anni ’40. Sono anni molto intensi nei quali Scaglione si dedica anima e corpo ad alcune importanti indagini di mafia.
Nel 1954 diventa il depositario delle dichiarazioni di Gaspare Pisciotta, luogotenente di Salvatore Giuliano e condannato all'ergastolo, che ricostruisce con lui i particolari e la dinamica della Strage di Portella della Ginestra, prima di essere avvelenato con la stricnina.
Si dedica poi alle requisitorie nell’ambito del processo per l’omicidio del sindacalista Salvatore Carnevale, ucciso il 16 maggio del 1955 a Sciara, in provincia di Palermo, per il suo impegno al fianco di contadini e braccianti agricoli nella lotta ai latifondisti mafiosi. Un processo di portata storica, nel corso del quale in aula si confrontano nomi eccellenti. La parte civile della famiglia Carnevale era infatti rappresentata da Sandro Pertini, futuro presidente della Repubblica. Sul fronte opposto, a difendere gli imputati, un altro futuro Capo dello Stato, il democristiano Giovanni Leone. Un lungo e complesso iter giudiziario che si concluse con l’accoglimento delle tesi dell’accusa.
Così come si occupa dell’omicidio di Placido Rizzotto, per il quale chiede l’ergastolo per Luciano Liggio, Pasquale Criscione e Vincenzo Collura.
Nel 1957 Pietro Scaglione svolge l’incarico di Consigliere di Cassazione, vivendo a Roma fino al 1962. Ritorna a Palermo a febbraio di quell’anno con l’incarico di Presidente di sezione della Corte di appello e della Corte di assise di appello. L’8 aprile diventa Procuratore Capo e, appena un anno dopo, il 30 giugno del 1963, è il primo ad arrivare a Ciaculli, una borgata di Palermo, pochi minuti dopo la strage che uccide, con un autobomba imbottita di esplosivo, sette esponenti delle Forze dell’Ordine. Le indagini coordinate da Scaglione e la collaborazione con l’allora capo dell’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo, Cesare Terranova, sono un colpo durissimo per la mafia. Grazie a questo duro lavoro, «le organizzazioni mafiose furono scardinate e disperse», si legge nella Relazione conclusiva della Commissione parlamentare antimafia del 1976.
Scaglione si occupò anche della misteriosa scomparsa del giornalista Mauro De Mauro, avvenuta nel settembre del 1970. L’intervento di Scaglione in queste complesse e delicate indagini fu definito “attivissimo” dalla stessa moglie del giornalista scomparso nel settimanale “La Domenica del Corriere” del 13 giugno 1972.
Fare l’elenco di tutti i misteri sui quali Scaglione tentò di fare luce, molto spesso riuscendovi, è impossibile. Era convinto che il potere mafioso non potesse che fondarsi sulla relazione perversa con ambienti deviati dello Stato e della politica. Ne dà testimonianza in molti suoi articoli il giornalista Mario Francese, anch’egli ucciso da Cosa nostra nel gennaio del 1979: “Pietro Scaglione fu convinto assertore che la mafia aveva origini politiche e che i mafiosi di maggior rilievo bisognava snidarli nelle pubbliche amministrazioni”. Una tesi rivoluzionario se consideriamo che, all’epoca, per molti la mafia semplicemente non esisteva. Scaglione invece aveva intuito quello che poi la storia in qualche modo dimostrerà. E in questa direzione andarono altre importantissime inchieste condotte in quegli anni, che riguardarono politici del calibro di Salvo Lima e Vito Ciancimino.
In un suo memorabile intervento in Commissione parlamentare Antimafia, il Procuratore Scaglione parlò senza mezzi termini della necessità di mettere in campo “un’attività sociale sempre più vasta e rivolta, tra l’altro, a eliminare o riformare strutture economiche che hanno favorito il sorgere e l’affermarsi di forme delinquenziali collegate al fenomeno della mafia, una mastodontica e tenebrosa organizzazione delinquenziale, viva e operante come gigantesca piovra, che stende ovunque i suoi micidiali tentacoli e tutto travolge per soddisfare la sua sete insaziabile di denaro e predominio”. Siamo negli anni ’60, ma queste parole sembrano pronunciate oggi.
Quello della professione è tuttavia solo uno degli aspetti della vita pienissima di quest’uomo impegnato a viso aperto a contrastare gli interessi e le relazioni della mafia. Pietro Scaglione era molto di più che un magistrato. Sentiva profondamente dentro di sé i valori di solidarietà e carità ed era sinceramente convinto della valore rieducativo della pena. Fu questa convinzione a indurlo a impegnarsi in prima persona in questo ambito, arrivando a diventare Presidente del Consiglio di Patronato per l’assistenza alle famiglie dei carcerati e degli ex detenuti. Un’attività che portò, tra l’altro, all’istituzione di un asilo nido e per la quale gli fu conferito il diploma di primo grado al merito della redenzione sociale, con facoltà di fregiarsi della relativa medaglia d’oro.
Il 5 maggio del 1971
E poi c’era la vita privata. Quello con sua moglie Concetta Abate era stato un legame profondissimo ed era rimasto tale anche quando, nel 1965, Concetta se n’era andata. Da allora, non c’era stato giorno nel quale, di buon mattino, Pietro non avesse dedicato del tempo per andare a fare visita alla tomba di sua moglie, sepolta nel cimitero dei Cappuccini. Pietro nutriva un affetto enorme per la sua famiglia, per i suoi figli, Antonio, e Maria, i nipoti, i suoi fratelli. Tanto rigoroso e integerrimo nell’attività professionale, quanto cordiale, socievole e amorevole nella vita privata.
Ed è questa dimensione affettiva che, per prima, fu così brutalmente colpita da quanto accadde la mattina di quel mercoledì 5 maggio 1971. Anche quella mattina Pietro era passato al cimitero da sua moglie, accompagnato dal suo fedele autista, l’agente di custodia Antonino Lorusso. I due erano a bordo della Fiat 1100 guidata da Lorusso e stavano percorrendo via dei Cipressi, quando furono affiancati da un’altra vettura sulla quale viaggiavano due o tre persone. I criminali aprirono il fuoco contro il Procuratore e l’Agente con pistole calibro 9, 38 special e forse anche una mitraglietta. Per i due non ci fu scampo. Tra i primi a giungere sul luogo della strage fu il commissario Giorgio Boris Giuliano.
Erano gli ultimi giorni a Palermo del Procuratore, che aveva da poco ricevuto l’incarico di ricoprire le funzioni di Procuratore Generale a Lecce.
Vicenda giudiziaria
Le indagini che seguirono l’omicidio sono state lunghe e articolate e fu l’Autorità giudiziaria di Genova a occuparsene su incarico della Cassazione. E tuttavia, nonostante le numerose piste battute dagli inquirenti, ancora oggi sono sconosciuti autori e mandanti di questo omicidio “eccellente”. Nell'editoriale del Corriere della Sera pubblicato all'indomani dell'omicidio, Alberto Sensini scrisse che “il caso Scaglione segna un confine che non può essere oltrepassato, un punto di non ritorno". Nel corso degli anni, sul delitto Scaglione hanno fornito dichiarazioni anche diversi collaboratori di giustizia, tra cui in particolare Tommaso Buscetta e Antonino Calderone, riconducendo l’omicidio a Luciano Liggio, Totò Riina e Pippo Calò e legandolo ad alcuni dei più grandi misteri della storia repubblicana, tra i quali il famigerato Golpe Borghese del 1970. Ancora recentemente, Antonio Scaglione, figlio del Procuratore e ordinario di diritto processuale penale all’università di Palermo, ha ricondotto l’omicidio di suo padre a queste oscure vicende. Anche le dichiarazioni dei collaboratori tuttavia non hanno trovato riscontri adeguati. Così, nel gennaio 1991, il giudice istruttore di Genova, Dino Di Mattei, che si occupava delle indagini, dichiarò di non doversi procedere nei confronti dei presunti responsabili dell'omicidio del procuratore Scaglione in quanto «non è stato possibile individuare nei confronti di questi imputati gli elementi convincenti di accusa, come ad esempio il rinvenimento delle armi usate o testimonianze dirette, che giustifichino il passaggio alla fase dibattimentale».
Peraltro, nell’immediatezza dell’omicidio, non mancarono i tentativi di gettare fango sulla figura del Procuratore. Nel 1987, Paolo Borsellino parlò di come la mafia avesse deciso, a partire proprio dall'omicidio di Scaglione, di attuare “una campagna di eliminazione sistematica degli investigatori che avevano intuito qualcosa. Le cosche sapevano che erano isolate, che dietro di loro non c'era lo Stato e che la loro morte avrebbe ritardato le scoperte. Isolati, uccisi, quegli uomini furono persino calunniati”. E dell’omicidio si occupò anche Giovanni Falcone, che raccolse le dichiarazioni di Buscetta e per il quale l’uccisione del Procuratore ebbe sicuramente “lo scopo di dimostrare a tutti che Cosa nostra non soltanto non era stata intimidita dalla repressione giudiziaria, ma che era sempre pronta a colpire chiunque ostacolasse il suo cammino”.
A oggi dunque la morte di Pietro Scaglione rimane un mistero. Non c’è dubbio invece di quali e quanto irreprensibili fossero le sue doti morali. Il procuratore è stato riconosciuto come vittima del dovere e della mafia.
Memoria viva
La memoria di Pietro Scaglione, insieme a quella di Antonino Lorusso, vive in numerose iniziative che, da 50 anni, ricordano il sacrificio di questo tutore della legge e servitore dello Stato. A loro è intitolato, tra l’altro, il Presidio di Libera a Genova.
Purtroppo, non ho avuto la gioia e l’onore di conoscere mio nonno perché all’epoca della sua morte non ero ancora nato, ma grazie ai racconti di familiari e amici mi sono accorto, sin da bambino, che si trattava di una persona speciale, di un uomo onesto e intransigente nella sua attività, ma nello stesso tempo cordiale e socievole nella vita privata. Credeva nell’autonomia e nell’indipendenza della magistratura, intesa come una missione in difesa della democrazia, della Costituzione e della Repubblica. Ho ritrovato la descrizione delle sue qualità (raccontate da chi lo conosceva e da chi lo stimava) nei provvedimenti dei diversi organi giurisdizionali (di Genova e di Palermo) che si sono occupati, a vario titolo, della sua uccisione e che lo hanno definito, nelle singole sentenze, come “un magistrato integerrimo, dotato di assoluta onestà morale e di eccezionali capacità professionali, persecutore spietato della mafia.