Era una bella giornata il 1° di maggio del 1947 a Portella della Ginestra, nell'entroterra palermitano, tra Piana degli Albanesi e San Giuseppe Jato. Ma soprattutto un giorno di festa. Circa duemila lavoratori della zona di Piana degli Albanesi, in prevalenza contadini, si riunirono nella vallata per manifestare contro il latifondismo, a favore dell'occupazione delle terre incolte e per festeggiare la vittoria del Blocco del Popolo nelle recenti elezioni per l'Assemblea Regionale Siciliana.
Si tornava a festeggiare la Festa dei Lavoratori, dopo che era spostata al 21 aprile durante il regime fascista. La località fu scelta perché, alcuni decenni prima, da uno dei sassi del pianoro teneva i suoi animati discorsi ai contadini il medico Nicola Barbato, una delle figure simbolo del socialismo siciliano tra Otto e Novecento.
Nel '47, le condizioni di vita del popolo erano miserrime e molti dei partecipanti alla manifestazione - come ammesso da vari sopravvissuti - si trovavano lì anche per mettere qualcosa nello stomaco, un sorso di vino, un boccone di pane con qualche carciofo, unico companatico disponibile. Proprio per questo motivo oltre alle immancabili bandiere rosse e a un nutrito gruppo di esponenti sindacali, c'erano anche tante donne, bambini e anziani. Interi nuclei familiari erano giunti a piedi, col carretto o a dorso di mulo già di prima mattina. Avrebbe dovuto tenere il discorso Girolamo Li Causi, originario di Termini Imerese, politico quotato e avversario storico dei boss e dei loro luogotenenti. Impegnato però in un'altra manifestazione, fu sostituito dal calzolaio Giacomo Schirò, segretario della sezione socialista di San Giuseppe Jato.
Sull'improvvisato palco l'oratore aveva appena attaccato il suo discorso quando dalla vicine alture che dominano la piana di Portella partirono le prime raffiche di mitra. Saranno state le nove e mezza, al massimo le dieci. Tra i presenti ci fu chi pensò a un tripudio di castagnole e mortaretti lanciati in segno di festa. Ma dopo l'iniziale sbalordimento il sangue delle vittime fece capire immediatamente la vera natura degli scoppi. Difficile intuire da dove provenissero i colpi. Nessuna possibilità di scampo per la folla, che da compatta si stava disperdendo in preda al panico, alla ricerca di un riparo qualsiasi.
A terra restavano undici corpi inanimati: Margherita Clesceri, Giorgio Cusenza, Giovanni Megna, Francesco Vicari, Vito Allotta, Serafino Lascari (15 anni), Filippo Di Salvo, Giuseppe Di Maggio (13 anni), Castrense Intravaia, Giovanni Grifò (12 anni), Vincenza La Fata (8 anni).
Numerosi i feriti, alcuni dei quali morirono in seguito per le ferite riportate: Vita Dorangricchia, Provvidenza Greco, Vincenzo La Rocca, Vincenza Spina. Mentre Emanuele Busellini e Calogero Caiola furono uccisi probabilmente perché testimoni oculari.
In pochi minuti, la strage di Portella della Ginestra era stata compiuta.
Ci eravamo dati appuntamento per festeggiare il Primo Maggio ma anche l’avanzata della sinistra all’ultima tornata elettorale e per manifestare contro il latifondismo. Non era neanche arrivato l’oratore quando sentimmo degli spari. Avevo 16 anni, pensavo che fossero i petardi della festa, ma alla seconda raffica ho capito. Ho cominciato a cercare mio padre, non l’ho trovato. Quello che ho visto sono i corpi distesi per terra. I primi due erano di donne: la prima morta, sua figlia incinta ferita. Questa scena ce l’ho ancora oggi negli occhi, non la posso dimenticare. Volevano farci abbassare la testa perché lottavamo contro un sistema in cui poche persone possedevano migliaia di ettari di terra e vi facevano pascolare le pecore, mentre i contadini facevano la fame. Un mese dopo successe però una cosa importante. Tornammo qua a commemorare i morti senza paura. “Non ci fermerete”, gridavamo tutti e non ci hanno fermati.
La preparazione e la dinamica del massacro
Gli autori della strage si erano organizzati già dal giorno prima. A Montelepre, il bandito Salvatore Giuliano aveva radunato i suoi uomini e impartito gli ordini per l'azione. Divisi in due gruppi dovevano raggiungere la Pizzuta, un promontorio che domina Portella della Ginestra, e la Cumeta, un altro rilievo poco distante. S'incamminarono all'alba. Armato di tutto punto, Giuliano con i suoi raggiunse la Pizzuta. Gli altri, al comando di Antonino Terranova, videro in lontananza una pattuglia di carabinieri: per evitare uno scontro che avrebbe mandato all'aria tutta l'operazione, il secondo gruppo di fuoco ritornò quindi sui propri passi. Quattro cacciatori si erano imbattuti in Salvatore Giuliano poco prima della strage. Immobilizzati e bendati dagli uomini del "commando" avevano sentito il crepitare dei colpi e poi erano stati liberati. Saranno poi loro a mettere gli inquirenti sulle tracce del bandito.
Contesto storico
Sono anni di povertà e indigenza assoluta per la Sicilia, in cui esiste un fiorente mercato nero per rivendere il frumento. E’ in questo contesto che si forma la banda intorno a Salvatore Giuliano, dedita a furti di bestiame, ricatti e in seguito sequestri nelle zone intorno a Montelepre.
Nel frattempo a valle, nei latifondi inizia uno scontro fortissimo con Roma: il Governo vuole abolire la mezzadrìa. E quando i contadini iniziano a occupare le terre, i latifondisti non disdegnano il braccio armato della mafia. La protesta va stroncata. Ma quelle sono le zone in cui si muove Giuliano, è la sua gente e nasce così il mito del giustiziere che difende i deboli. I carabinieri erano visti come i rappresentanti di uno Stato che sa solo pretendere tasse. Il malessere sociale cresce smisuratamente e nasce il MIS (Movimento per l’Indipendenza della Sicilia), finanziato dagli agrari e sostenuto dalla mafia, con l’obiettivo di ottenere l’indipendenza dall’Italia, ma in realtà per lasciare inalterate le condizioni sociali. Iniziano in questo periodo gli attentati della banda di Giuliano contro le caserme dei Carabinieri, le vittime saranno decine. Non è più un bandito comune.
Il 20 aprile del 1947 a sorpresa il Blocco del Popolo, socialisti e comunisti, vincono le elezioni regionali in Sicilia. Giuliano viene assoldato dagli stessi contro il comunismo. Serve un’azione dimostrativa. E’ questo il quadro in cui avviene la strage di Portella. Solo dopo due giorni il Ministro Mario Scelba rilasciò la prima dichiarazione ufficiale dichiarando che non si trattava di un delitto politico, mentre in tutto il Paese era in corso uno sciopero generale per i fatti siciliani. Gli esecutori furono individuati grazie alla testimonianza di quattro cacciatori che quella mattina stavano facendo una battuta di caccia sulle colline sopra Portella e furono sequestrati e disarmati da un gruppo di uomini che iniziò a sparare sulla folla. Tra loro riconobbero il bandito Giuliano.
Vicenda Giudiziaria
I giorni successivi alla strage di Portella della Ginestra furono caratterizzati da indagini frettolose e poco accurate, gli inquirenti si concentrarono solo sui banditi della banda di Giuliano. Non si eseguirono le autopsie e neanche gli esami balistici per sapere quali tipi di armi erano state utilizzate. Il 17 ottobre 1948 la sezione istruttoria della Corte d’appello di Palermo rinviò a giudizio Salvatore Giuliano e gli altri componenti della banda. La Corte di Cassazione, per legittima suspicione, decise la competenza della Corte d’assise di Viterbo. Il dibattimento iniziò il 12 giugno 1950 e si concluse il 3 maggio 1952 con la condanna all’ergastolo degli imputati, tra cui Gaspare Pisciotta, morto nel 1954 in carcere. Giuliano era stato ucciso a Castelvetrano il 5 luglio 1950, durante un’imboscata dei carabinieri. Ciò che è sicuro è che furono Giuliano e la sua banda gli esecutori dell’eccidio, ma dopo tanti anni ancora non si conoscono i mandanti e chi ha coperto le successive indagini.