L’etica della responsabilità: 40 anni fa la Strage di via Carini
di Nando dalla Chiesa
Quarant’anni sono passati dal 3 settembre 1982, dalla strage di via Carini a Palermo in cui vennero uccisi mio padre il prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa, la sua seconda moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo. Una data che segnò il primo punto di svolta nella coscienza nazionale, poiché neanche i delitti eccellenti precedenti erano riusciti a smuoverla, essendo le vittime tutte siciliane.
Ogni volta che provo a ricordare in pubblico o in privato quel giorno, quel periodo, mi rendo conto della quantità di fatti e di sensazioni, anche molto minuti ma estremamente significativi, che dovrei sapere governare nella memoria o nel racconto. E ne nascono modi diversi di rispondere alle domande che un giovane o anche un mio coetaneo potrebbe farmi su quella vicenda, su mio padre, sulla Palermo di allora, sulla lotta alla mafia.
Stavolta per gli amici di Libera provo a riassumere così. Domanda: che insegnamento lascia tuo padre su come combattere la mafia? Risposta: che la mafia può e deve essere combattuta, contemporaneamente, in cento modi. Non tra loro alternativi, non migliori degli altri, ma tutti in certa misura necessari. Ognuno capace di raggiungere un obiettivo e in grado di aiutare il raggiungimento di un altro obiettivo, in un gioco di sistema, di cooperazione. Occorrono le indagini bancarie, ad esempio, fatte con competenza, conoscenze e intuito, certo non con svogliatezza. Occorrono i posti di blocco, perché i mafiosi sul territorio si muovono e ordinariamente, chissà perché, sono meno controllati dei giovani in motorino. Sembra nulla (“bisogna andare nelle banche” sentenziano gli “esperti”), ma a Palermo mio padre li chiedeva. Certi controlli fatti a Milano negli anni settanta si potevano risolvere nella decapitazione di Cosa Nostra (cinque dei capi più potenti in una sola auto) anziché in un “andate pure”. Occorrono gli incontri nelle scuole perché l’educazione alla legalità trasforma, se ben fatta, il sentire di un intero popolo. Occorre togliere spazio all’economia abusiva, dal pane venduto sotto i gas delle auto ai palazzi costruiti impunemente sulle spiagge. Occorre dare voce a chi non ne ha, perché è considerato comparsa fissa di un paesaggio sociale (“mi piacerebbe foste voi le mie forze dell’ordine” disse ai genitori dei tossicodipendenti). Occorre trasformare i favori in diritti, per spezzare i vincoli di soggezione che tengono in ostaggio i cittadini. Occorrono i rapporti investigativi capaci di denunciare le complicità tra mafia e politica, mafia e imprenditoria. Occorre l’informazione, e fu questa la ragione della sua clamorosa intervista d’agosto a Giorgio Bocca, un giornalista che non lo aveva mai amato, e con cui nell’occasione scattò una simpatia piemontese-risorgimentale. Occorre sapere difendere il valore delle istituzioni dalle cattive influenze politiche, come spiegò a tu per tu a Giulio Andreotti un mese prima di andare in Sicilia. Bisogna soprattutto credere in quello che si fa, nel valore della propria missione.
"Con che coraggio resti lì, abbandonato dallo Stato?” gli chiesi. Perché “certe cose non si fanno per coraggio, si fanno per potere continuare a guardare serenamente negli occhi i propri figli e i figli dei propri figli”, fu la risposta.
Ecco qual è il suo insegnamento. La lotta alla mafia è continua e globale. Riguarda il mondo esterno, in tutti i suoi campi e a tutti i suoi livelli; ma riguarda anche le proprie debolezze. E ognuno di noi può farne funzionare una parte piccola o grande. E se è così, come ebbe a dire dieci anni dopo Giovanni Falcone, “ognuno può sempre fare qualcosa”.