Negli anni ‘70, con l’ascesa dei corleonesi ai vertici di Cosa nostra, il piccolo comune di Partanna, nella Valle del Belice, da centro di pastori si trasforma in centro di traffici di droga e armi. Le famiglie mafiose degli Accardo (noti anche come Cannata, dal cognome della moglie del boss che, dopo la sua uccisione, ha ereditato il ruolo di capobastone) e degli Ingoglia si contendono il controllo del territorio e i traffici illegali.
Degli Accardo fa parte il piccolo boss di quartiere, ufficialmente allevatore di pecore, Vito Atria. È un mafioso vecchio stampo, di quelli che confondono i diritti dei cittadini con favori, che mantengono l’ordine nella comunità e redimono controversie con minacce e violenza. Ma i tempi cambiano, con il narcotraffico ci sono nuovi affari più redditizi a cui votarsi e Vito Atria, che non l’ha capito, viene ucciso in un agguato il 18 novembre del 1985. Vito, sposato con Giovanna Cannova, ha tre figli: Nicola, Anna Maria e Rita, la più piccola.
Il dolore per la sua morte fa maturare nella sua famiglia il desiderio di vendetta e, Nicola, nuovo capofamiglia, giura sulla sua tomba rappresaglia.
Rita, orfana di padre a soli 11 anni, instaura con Nicola un rapporto simbiotico di devozione. Nicola adesso non è più solo un fratello, ma un padre e il suo eroe vendicativo. È un rapporto intenso, fatto di affetto, complicità e soprattutto confidenze. Lui le rivela i nomi degli esecutori e mandanti dell’omicidio del padre, le descrive i contesti familiari in cui si sviluppano gli intrecci criminali e gli affari del narcotraffico.
Nata e cresciuta in un tale contesto, il destino di Rita sembra un copione già scritto. Ancora adolescente si fidanza con Calogero Cascio, piccolo estortore al soldo della cosca Cannata, diventando anche per lui una fidata confidente. Ma se Vito non ha saputo adattarsi ai tempi che cambiano, Nicola è un criminale troppo piccolo e ininfluente per essere un capo. È il 24 giugno del 1991 quando anche lui morirà in agguato.
Della famiglia Atria rimangono così solo le donne, distrutte dal dolore e desiderose di vendetta ma determinate a mantenere il silenzio imposto dalla cultura che le ha permeate.
Non è dello stesso parere Piera Aiello, moglie di Nicola e madre di sua figlia, che pochi giorni dopo il suo assassinio si presenterà davanti ai magistrati e renderà testimonianza di tutto quello che negli anni ha visto, vissuto e sentito, iniziando così, in località segreta, una nuova vita. Lì, a Partanna, la notizia della scelta di Piera, corre veloce per le vie del paese. E Rita, giovane e fragile, rinnegata da Calogero perché cognata di “un infame”, è sempre più sola.
Non ci sono più suo padre e suo fratello a proteggerla. Con sua madre, donna di mafia, i rapporti sono complessi da sempre e ora Piera, l’unico legame d’affetto che le è rimasto, è lontana.
Completamente isolata e senza punti di riferimento, Rita matura sentimenti di vendetta per dare, a suo modo, giustizia a suo padre, a suo fratello e alla sua vita, che è distrutta. E così, a soli 17 anni e con tutta la rabbia di cui si è capaci a quell’età, decide di vendicarsi e chiede di parlare con Paolo Borsellino, procuratore a Marsala, che aveva accolto qualche mese prima le deposizioni di Piera.
È un lungo racconto quello di Rita, colmo di rabbia e desiderio di vendetta, che ripercorre oltre dieci anni di avvenimenti e confidenze annotate minuziosamente nel suo diario. Sono dichiarazioni importanti, precise e puntuali, che si aggiungono a quelle di Piera, permettendo di far luce sugli ingranaggi che regolano le cosche mafiose del trapanese e della valle del Belice. Una fotografia nitida del contesto mafioso che soffoca interi territori, in cui il malaffare si lega a doppio filo con la malapolitica. Dalle sue dichiarazioni prenderanno infatti avvio le indagini sull’operato dell’Onorevole Vincenzo Culicchia, sindaco di Partanna per più di 30 anni.
Paolo Borsellino, uomo buono e sensibile, capisce subito che “la picciridda”, così la chiamava, seppur nata in un contesto malsano, educata all’omertà e alla vendetta, era diversa. Quella giovane ragazza siciliana, fragile ma al contempo forte, aveva solo bisogno di conoscere la parte sana della vita per togliere quel velo che aveva distorto la sua percezione delle cose e rompere definitivamente quella spirale di odio e vendetta a cui la tradizione mafiosa l’aveva costretta.
Rita, come Piera prima di lei, inizia così la sua nuova vita a Roma. Circondata dall’affetto di zio Paolo, che anche da lontano la segue amorevolmente, di Piera e della nipotina, riesce ben presto a liberarsi dai sentimenti negativi che l’avevano accompagnata nel corso della sua giovane età. La vendetta cede il passo alla consapevolezza: suo padre e suo fratello, cui rimarrà per sempre legata da un sentimento d’affetto, non erano eroi, ma uomini che avevano scelto la strada sbagliata e costretto la loro famiglia a soccombere al dolore e alle ingiustizie.
Diventa consapevole dell’importanza di fare la scelta giusta, di essere dalla parte giusta della vita. Del dovere di ciascuno di fare, nel proprio piccolo, la propria parte ed essere d’esempio alle altre e agli altri che verranno. La vendetta lascia così posto alla voglia di riscatto, al diritto di essere liberi di scegliere e scrivere la propria storia, a dispetto di chi arbitrariamente pretende di farlo.
È felice Rita, ha imparato la spensieratezza dei suoi 17 anni, a ridere di niente ed emozionarsi davanti a un tramonto sul mare in compagnia del suo nuovo fidanzato. Ama leggere, ma soprattutto scrivere. Continua a scrivere nel suo diario ma, questa volta, i sentimenti negativi di odio e vendetta lasciano spazio a emozioni sane, alle speranze e alla consapevolezza di una lotta, quella alle mafie e all’illegalità, che è una strada tortuosa e in salita, faticosa al punto di pensare spesso di arrendersi, ma altrettanto ostinata da voler arrivare fino in fondo per godersi il panorama.
La strage di via D’Amelio
È il 19 luglio 1992 quando però i sogni e le speranze di una bellissima giovane e determinata ragazza siciliana, si infrangono con le immagini che la TV trasmette in diretta da Via D’Amelio a Palermo. Una bomba ha quasi sventrato un palazzo, uccidendo sei persone. Si tratta del Giudice Paolo Borsellino e degli agenti di scorta Emanuela Loi, Agostino Catalano, Claudio Traina, Eddie Walter Max Cosina e Vincenzo Li Muli.
Zio Paolo, l’uomo prima che giudice, che l’ha accolta, ascoltata e accompagnata nel suo percorso di rinascita, non c’è più. Quello che accadrà nella vita e nell’animo di Rita, nei giorni successivi alla terribile strage, lo leggiamo nel suo diario:
Ora che è morto Borsellino nessuno può capire che vuoto ha lasciato nella mia vita. Tutti hanno paura ma io l’unica cosa di cui ho paura è che lo Stato mafioso vincerà e quei poveri scemi che combattono contro i mulini a vento saranno uccisi. Prima di combattere la mafia devi farti un auto esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c' è nel giro dei tuoi amici, la mafia siamo noi, è il nostro modo sbagliato di comportarsi. Borsellino sei morto per ciò in cui credevi, ma io senza di te sono morta.
26 luglio 1992
È la mattina del 26 luglio 1992 quando un rumore sordo squarcia il silenzio di Viale Amelia a Roma, in una calda domenica d’estate. Rita non è riuscita a reagire al dolore, l’ultimo e forse più grande che l’aveva colpita per l’ennesima volta nella sua giovane vita e, sopraffatta dallo sconforto, si lascia cadere dal settimo piano del palazzo in cui viveva. Morirà in pochi istanti, sola.
Al suo funerale, a Partanna, dei suoi compaesani non ci sarà nessuno perché “fimmina lingua longa e amica degli sbirri”.
Non andrà neppure sua madre, che l’aveva ripudiata e minacciata di morte quando aveva scoperto la sua volontà di diventare testimone di giustizia. Per aver tradito l’onore della famiglia, Rita non meritava neppure una lapide. Così, Giovanna Cannova, sua madre, a pochi giorni dal suo funerale, si recò al cimitero di Partanna e, armata di martello, distrusse il marmo tombale, stracciando anche la sua foto. Rita doveva pagare anche da morta la sua scelta di libertà, privata meschinamente del diritto al nome e condannata all’oblio.
Vicenda giudiziaria
Nel 1993 la morte di Rita è stata archiviata come suicidio. A distanza di trent’anni, nel 2022, l’Associazione Antimafie Rita Atria e Anna Maria Atria, sorella di Rita, hanno presentato istanza per la riapertura delle indagini sulla sua morte. Qui un estratto del comunicato stampa dell'Associazione sulla richiesta di riapertura delle indagini:
“(...) L’istanza è il frutto di un lavoro corale che ha visto le diverse professionalità unirsi con convinzione in una richiesta che riteniamo e auspichiamo non possa rimanere inascoltata soprattutto alla luce di un fatto inconfutabile: nessuna effettiva indagine venne mai compiuta per accertarne le cause. Nell’istanza si denuncia che l’abitazione di Rita Atria fu “ripulita” da qualcuno; che una serie di oggetti utili alle indagini non furono mai repertati né tantomeno sequestrati. Si denuncia, inoltre, l’atipicità che la consulenza chimico-tossicologica fu eseguita ben due mesi dopo la morte. E tante altre “stranezze” investigative e procedurali che sono state puntualmente elencate nell’esposto (...)”.
Memoria viva
La storia della Picciridda, nel giro di poco tempo, da quel piccolo paesino, risale tutto lo stivale e diventa una storia di coraggio e determinazione di cui avere cura e da portare come esempio.
E così ogni anno, il 26 luglio, nel piccolo cimitero di Partanna, sono in tanti, provenienti da tutta Italia, a ricordarla e a portare, in una processione silenziosa, la lapide con la sua foto e a chiare lettere il suo nome. Un gesto di cura e di amore voluto fortemente dai volontari del coordinamento trapanese di Libera, per rinnovare tutti insieme, nel suo nome, una promessa di impegno contro l’indifferenza e ogni forma di illegalità.
Bisogna rendere coscienti i ragazzi che vivono nella mafia che al di fuori c’è un altro mondo, fatto di cose semplici ma belle, di purezza, un mondo dove sei trattato per ciò che sei, non perché sei figlio di quello o perchè hai pagato per farti fare quel favore.
Ha vinto lei. La sua forza, la sua determinazione e la sua scelta libera sono state d’esempio per molti giovani e donne che, negli anni, hanno trovato il coraggio di ribellarsi alla cultura mafiosa con la consapevolezza che un’altra strada, giusta e possibile, esiste.
A lei è dedicata la proposta di legge per regolamentare la figura dei testimoni di giustizia, troppo a lungo equiparati alla figura dei collaboratori. Proposta confluita nella legge 6/2018 "Disposizioni per la protezione dei testimoni di giustizia".
La sua storia diventerà emblematica e sarà spesso rievocata in numerosi spettacoli teatrali, libri, fiction e film, come "Diario di una siciliana ribelle" di Marco Amenta (1997) e la fiction RAI "Non Parlo più" (regia di Vittorio Nevano, 1994).
Da nord a sud sono sempre di più i Presidi di Libera intitolati alla sua memoria. Tra questi, proprio nel quartiere in cui Rita ha vissuto, è nato intorno agli anni 2000, il Presidio di Roma – VII Municipio "Rita Atria" che ogni 26 luglio in viale Amelia, davanti al civico in cui abitava, organizza un'iniziativa in suo ricordo.
Nel 2014, sui terreni confiscati alla mafia nella Valle del Belice, è nata la cooperativa Libera Terra "Rita Atria", che secondo i metodi dell'agricoltura biologica, produce cereali, legumi e la pregiata varietà di oliva “Nocellara del Belice”.
Forse un mondo onesto non esisterà mai, ma chi ci impedisce di sognare. Forse se ognuno di noi prova a cambiare, forse ce la faremo.