Che dopo Firenze sarebbe potuto toccare a Milano più di qualcuno lo aveva immaginato. Perché la bomba di via dei Georgofili aveva un obiettivo chiaro: generare il terrore tra i cittadini inermi, dimostrare la potenza di Cosa nostra oltre i confini siciliani, colpire il Paese nei suoi luoghi simbolo. E che quindi Milano potesse finire nel mirino dei mafiosi era in qualche modo prevedibile. Eppure, quando questa tragica profezia divenne realtà, si stentò a credere che, dopo i cinque morti di Firenze, Cosa nostra potesse avere avuto l’ardire di sfidare ancora lo Stato, con una strategia del terrore così violenta da togliere il fiato. Altro tritolo, altro terrore, altri cinque morti.
Cinque sono infatti i protagonisti di questa storia. Cinque vite legate indissolubilmente da quell’istante drammatico in cui circa 90 chilogrammi di esplosivo ne troncarono l’esistenza brutalmente. Vite diverse, storie diverse, percorsi diversi. Tutti però convergenti in quel preciso punto e in quel preciso momento: Milano, via Palestro, ore 23.14 del 27 luglio 1993. Qui le cinque vite di Alessandro Ferrari, Carlo La Catena, Sergio Pasotto, Stefano Picerno e Moussafir Driss si sono indissolubilmente legate.
Alessandro è uno dei protagonisti più giovani di questa storia tragica. Era nato a Gandino, neanche 30 chilometri a nord-est di Bergamo, il 9 ottobre del 1963. In questa cittadina di poco più di 5 mila abitanti, aveva trascorso la sua infanzia insieme ai fratelli Giuseppe ed Elena, al papà Agostino e alla mamma Elisabetta. Poi il trasferimento, con tutta la sua famiglia, a Milano dove, il 15 settembre del 1986, non ancora ventitreenne, era stato assunto nel Corpo della Polizia Municipale. Tre anni più tardi, nel 1989, il matrimonio con Giovanna e, nel 1992, la nascita di Matteo, che da suo padre ha ereditato la passione per la musica.
27 luglio 1993
Quel 27 luglio era stato assegnato al turno serale e si era messo alla guida della pattuglia Monza 3. Al suo fianco c’era Katia Cucchi, collega ventisettenne di Alessandro. È lei che, in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera a pochi mesi da quella terribile notte, ha ricostruito quelle ore, le ultime di Alessandro.
Solita routine: la verbalizzazione del sequestro di un motorino fatto dagli agenti del commissariato di via Poma, il recupero di una motocicletta rubata, l'assistenza per un trattamento sanitario obbligatorio. Tra un intervento e un altro andammo anche a casa della sorella di Alessandro per salutarla. Ma non la trovammo.
Intorno alle 23.00, del tutto casualmente, Alessandro si dirige su via Palestro. La sua attenzione viene richiamata da due ragazzi, che gli segnalano la presenza di una Fiat Uno grigia parcheggiata di fronte al Padiglione di arte contemporanea della Galleria di arte moderna e dalla quale fuoriusciva un fumo biancastro. Alessandro capisce che c’è qualcosa che non va e chiama i Vigili del Fuoco.
Dalla caserma di via Benedetto Marcello parte la Squadra C che, pochi minuti dopo, è sul posto. Sono in sette, guidati dal caposquadra Stefano Picerno. Si avvicinano all’auto per ispezionarla. Stefano apre il bagagliaio e si rende conto che in quella macchina c’è una bomba. Poco lontano, Alessandro si sbraccia per cercare di allontanare il maggior numero di persone possibile. Katia gli urla di allontanarsi, che quella bomba potrebbe esplodere da un momento all’altro. Lui risponde con una battuta: “saranno fiori bianchi”. Poi la deflagrazione lo investe con tutta la sua potenza. Il suo corpo viene scaraventato a 25 metri di distanza, nel giardino pubblico poco lontano. I soccorritori lo ritroveranno lì, ucciso dalla barbarie mafiosa a 29 anni. Matteo, suo figlio, aveva poco più di un anno di vita.
L’esplosione che scuote la notte milanese è di una violenza inaudita. Apocalittica è la scena che si presenta ai primi soccorritori giunti sul posto: l’illuminazione pubblica è saltata, i vetri delle case circostanti sono andati in frantumi, il muro esterno del Padiglione di arte contemporanea è totalmente distrutto. I danni seguiti alla deflagrazione interessano un raggio di oltre 200 metri, con un pezzo del motore dell’autobomba che viene rinvenuto sul balcone al terzo piano di un edificio a 100 metri in linea d’aria. Il tritolo sventra il manto stradale e danneggia la condotta del gas. È un inferno di fuoco, che i pompieri fanno fatica a domare. Si cerca di intervenire per bloccare il flusso poco più a monte della rottura, ma l’intervento è molto difficoltoso. Si crea una sacca di gas, che esplode poco più tardi provocando altri danni alla Galleria e alla Villa Reale. Via Palestro è una scena di guerra e si contano i morti.
Assieme a quello di Alessandro, vengono man mano recuperati i corpi di altre quattro persone. C’è Stefano Picerno, 36 anni, il caposquadra dei Vigili del Fuoco appena rientrato dal viaggio di nozze e, con lui, i colleghi Sergio Pasotto, che proprio quel giorno aveva compiuto 34 anni, e Carlo La Catena, 25 anni e in servizio da appena 40 giorni. E c’è Moussafir Driss, un immigrato marocchino che dormiva su una panchina del parco pubblico poco lontano, ucciso da un pezzo di lamiera che lo fa passare dal sonno alla morte. 44 anni, il suo corpo viene ritrovato poco lontano da quello di Alessandro. I feriti sono almeno 12.
Milano è sconvolta. L’Italia intera piange altre cinque vittime innocenti uccise dal terrorismo mafioso. Sì, perché è evidente il collegamento con Firenze, il legame con quella strategia stragista con cui Cosa nostra tenta di mettere in ginocchio la Repubblica. Poche ore più tardi, saranno le bombe di San Giorgio al Velabro e San Giovanni in Laterano a confermare che il Paese è nella morsa del terrore.
Vicenda giudiziaria
La matrice mafiosa della strage viene ben presto confermata dalle indagini. A squarciare in parte il velo della verità sono le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia. Grazie ai racconti di Pietro Carra, Antonio Scarano, Emanuele Di Natale e Umberto Maniscalco, nel 1998 Cosimo Lo Nigro, Giuseppe Barranca, Francesco Giuliano, Gaspare Spatuzza, Luigi Giacalone, Salvatore Benigno, Antonino Mangano, Salvatore Grigoli e lo stesso Scarano vengono riconosciuti come esecutori materiali nella sentenza sulle stragi del ’93.
Secondo la ricostruzione dei magistrati, nel mese di maggio del 1993, i mafiosi di Brancaccio e Corso dei Mille, Barranca, Spatuzza, Lo Nigro e Giuliano confezionarono l’esplosivo appoggiandosi in una casa fatiscente proprio a Corso dei Mille, messa a disposizione da Mangano. Intorno alla metà del mese di luglio, poi, l’esplosivo era stato nascosto nel doppiofondo del camion di Pietro Carra e trasportato ad Arluno, nel milanese, scaricato e nascosto in campagna.
Ancora sulla scorta delle dichiarazioni di Carra e Scarano, nel 2002 la Procura di Firenze dispone l’arresto di Tommaso e Giovanni Formoso, mafiosi di Misilmeri, con l’accusa di avere aiutato Lo Nigro a scaricare l’esplosivo ad Arluno, compiendo poi materialmente la strage. L’anno dopo, la Corte d'Assise di Milano condanna i fratelli Formoso all'ergastolo. La condanna venne poi confermata nei due successivi gradi di giudizio.
Nel 2008 si apre una nuova pagina della storia processuale, dopo la decisione di Gaspare Spatuzza, ‘u Tignusu, affiliato alla famiglia di Brancaccio dei fratelli Graviano, di collaborare con la giustizia. Le sue dichiarazioni consentono di arrestare Cosimo D’Amato, il pescatore, cugino di Lo Nigro, che aveva procurato l’esplosivo per quella di Milano e per le altre stragi del ’92 e del ’93, ricavandolo dagli ordigni bellici recuperati in mare. D’Amato viene condannato all’ergastolo in via definitiva nel 2016. Un anno prima, aveva deciso di collaborare anch’egli, ammettendo le sue responsabilità. Spatuzza chiama in causa anche i fratelli Vittorio e, in particolare, Marcello Tutino, indicandoli come basisti a Milano. Ma le sue dichiarazioni non sono state ritenute sufficienti per la condanna.
Su chi abbia ispirato la strage di via Palestro e chi l’abbia voluta non c’è mai stata verità piena. Un altro pezzo oscuro di quella coltre di ambiguità e mistero che ancora ricopre la storia di quegli anni drammatici nei quali la mafia colpì al cuore la democrazia.
Memoria viva
Alessandro Ferrari è stato insignito della Medaglia d’oro al valor civile alla memoria il 22 novembre 1993, per il "nobile esempio di altissimo senso del dovere ed elette virtù civiche, spinti sino all'estremo sacrificio".
Nel 2011 gli è stata intitolata la sala civica di Gandino, suo paese d’origine. Nel suo nome – insieme a quello di Cristina Mazzotti – è nato il Presidio di Libera della Valle Seriana, ad Alzano Lombardo. A lui, e a tutte le vittime della strage di via Palestro, è intitolato inoltre il Presidio universitario di Milano.