Che dopo Firenze sarebbe potuto toccare a Milano più di qualcuno lo aveva immaginato. Perché la bomba di via dei Georgofili aveva un obiettivo chiaro: generare il terrore tra i cittadini inermi, dimostrare la potenza di Cosa nostra oltre i confini siciliani, colpire il Paese nei suoi luoghi simbolo. E che quindi Milano potesse finire nel mirino dei mafiosi era in qualche modo prevedibile. Eppure, quando questa tragica profezia divenne realtà, si stentò a credere che, dopo i cinque morti di Firenze, Cosa nostra potesse avere avuto l’ardire di sfidare ancora lo Stato, con una strategia del terrore così violenta da togliere il fiato. Altro tritolo, altro terrore, altri cinque morti.
Cinque sono infatti i protagonisti di questa storia. Cinque vite legate indissolubilmente da quell’istante drammatico in cui circa 90 chilogrammi di esplosivo ne troncarono l’esistenza brutalmente. Vite diverse, storie diverse, percorsi diversi. Tutti però convergenti in quel preciso punto e in quel preciso momento: Milano, via Palestro, ore 23.14 del 27 luglio 1993. Qui le cinque vite di Stefano Picerno, Sergio Pasotto, Carlo La Catena, Alessandro Ferrari e Moussafir Driss si sono indissolubilmente legate.
Sergio quel giorno non doveva essere lì. Si era sposato due mesi prima con Agnese, con la quale condivideva un appartamento in via Raffaello Sanzio, ed era appena rientrato dal viaggio di nozze. Aveva accettato quel turno di notte per fare un favore ad un collega, che gli aveva chiesto di sostituirlo.
Da Terni, dove era nato il 12 settembre del 1956, era arrivato a Milano appena ventenne, quando, all’inizio del mese di luglio del 1976, era stato assunto nel Corpo nazionale dei Vigili del Fuoco. Con i suoi 36 anni, era il veterano del gruppo, con un importante bagaglio di esperienza. Era stato tra i primi ad intervenire alla stazione di Bologna, quando, il 2 agosto del 1980, una bomba aveva ucciso 85 persone e ferito altre 200, nel più grave atto terroristico avvenuto nel Paese nel secondo dopoguerra.
Amava il mare, Sergio, e si era messo al lavoro per rimettere in sesto una barchetta con la quale trascorrere qualche giornata tranquilla in compagnia di sua moglie.
La sera del 27 luglio, dunque, Sergio era al lavoro per caso, con il compito di caposquadra, in sostituzione di un collega.
27 luglio 1993
Quando, intorno alle 23.00, arrivò in caserma la chiamata dei Vigili Urbani per un’auto sospetta parcheggiata nei pressi del Padiglione di Arte Contemporanea di via Palestro, lui salì a bordo dell’autobotte insieme ai colleghi della Squadra C. Sembrava un intervento di routine per la solita auto in fiamme. Pochi minuti dopo, i pompieri erano sul posto. Erano in sette, guidati e coordinati da Stefano.
Si avvicinarono all’auto per ispezionarla. Fu Stefano ad aprire il bagagliaio e a rendersi conto che in quella macchina c’era una bomba. Poco lontano, Alessandro Ferrari, il Vigile Urbano che aveva fatto partire l’allarme, si sbracciava per cercare di allontanare il maggior numero di persone possibile. Fu una questione di istanti: l’esplosione che sconvolse la notte milanese fu di una violenza inaudita. Apocalittica la scena che si presentò ai primi soccorritori giunti sul posto: l’illuminazione pubblica era saltata, i vetri delle case circostanti andati in frantumi, il muro esterno del Padiglione di arte contemporanea totalmente distrutto. I danni seguiti alla deflagrazione interessarono un raggio di oltre 200 metri, con un pezzo del motore dell’autobomba che venne rinvenuto sul balcone al terzo piano di un edificio a 100 metri in linea d’aria. Il tritolo aveva sventrato il manto stradale e danneggiato la condotta del gas. Era un inferno di fuoco, che i pompieri facevano fatica a domare. Si cercò di intervenire per bloccare il flusso poco più a monte della rottura, ma l’intervento era estremamente difficoltoso. La sacca di gas che si era creata esplose poco più tardi provocando altri danni alla Galleria e alla Villa Reale. Via Palestro era una scena di guerra con morti e feriti.
Man mano vennero recuperati i corpi di cinque persone. C’era Carlo La Catena, il più giovane pompiere in servizio quella sera, 25 anni e al lavoro da appena 40 giorni; c’era Sergio Pasotto, che proprio quel giorno aveva compiuto 34 anni; c’era Alessandro Ferrari, il vigile urbano di 29 anni che aveva chiamato i pompieri e tentato di salvare i passanti; c’era Moussafir Driss, un immigrato marocchino di 44 anni che dormiva su una panchina del parco pubblico poco lontano, ucciso da un pezzo di lamiera che lo aveva fatto passare dal sonno alla morte. Il suo corpo fu ritrovato poco lontano da quello di Alessandro Ferrari. E, infine, c’era Stefano, 36 anni e una famiglia appena costruita. I feriti furono almeno 12.
Milano è sconvolta. L’Italia intera piange altre cinque vittime innocenti uccise dal terrorismo mafioso. Sì, perché è evidente il collegamento con Firenze, il legame con quella strategia stragista con cui Cosa nostra tenta di mettere in ginocchio la Repubblica. Poche ore più tardi, saranno le bombe di San Giorgio al Velabro e San Giovanni in Laterano a confermare che il Paese è nella morsa del terrore.
Vicenda giudiziaria
La matrice mafiosa della strage viene ben presto confermata dalle indagini. A squarciare in parte il velo della verità sono le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia. Grazie ai racconti di Pietro Carra, Antonio Scarano, Emanuele Di Natale e Umberto Maniscalco, nel 1998 vengono riconosciuti come esecutori materiali Cosimo Lo Nigro, Giuseppe Barranca, Francesco Giuliano, Gaspare Spatuzza, Luigi Giacalone, Salvatore Benigno, Antonino Mangano, Salvatore Grigoli e lo stesso Scarano.
Secondo la ricostruzione dei magistrati, nel mese di maggio del 1993, i mafiosi di Brancaccio e Corso dei Mille Barranca, Spatuzza, Lo Nigro e Giuliano confezionarono l’esplosivo appoggiandosi in una casa fatiscente proprio a Corso dei Mille, messa a disposizione da Mangano. Intorno alla metà del mese di luglio, poi, l’esplosivo era stato nascosto nel doppiofondo del camion di Pietro Carra e trasportato ad Arluno, nel milanese, scaricato e nascosto in campagna.
Ancora sulla scorta delle dichiarazioni di Carra e Scarano, nel 2002 la Procura di Firenze dispone l’arresto di Tommaso e Giovanni Formoso, mafiosi di Misilmeri, con l’accusa di avere aiutato Lo Nigro a scaricare l’esplosivo ad Arluno, compiendo poi materialmente la strage. L’anno dopo, la Corte d'Assise di Milano condanna i fratelli Formoso all'ergastolo. La condanna venne poi confermata nei due successivi gradi di giudizio.
Nel 2008 si apre una nuova pagina della storia processuale, dopo la decisione di Gaspare Spatuzza, ‘u Tignusu, affiliato alla famiglia di Brancaccio dei fratelli Graviano, di collaborare con la giustizia. Le sue dichiarazioni consentono di arrestare Cosimo D’Amato, il pescatore, cugino di Lo Nigro, che aveva procurato l’esplosivo per quella di Milano e per le altre stragi del ’92 e del ’93, ricavandolo dagli ordigni bellici recuperati in mare. D’Amato viene condannato all’ergastolo in via definitiva nel 2016. Un anno prima, aveva deciso di collaborare anch’egli, ammettendo le sue responsabilità. Spatuzza chiama in causa anche i fratelli Vittorio e, in particolare, Marcello Tutino, indicandoli come basisti a Milano. Ma le sue dichiarazioni non sono state ritenute sufficienti per la condanna.
Su chi abbia ispirato la strage di via Palestro e chi l’abbia voluta non c’è mai stata verità piena. Un altro pezzo oscuro di quella coltre di ambiguità e mistero che ancora ricopre la storia di quegli anni drammatici nei quali la mafia colpì al cuore la democrazia.
Memoria viva
Il 22 novembre del 1993, Stefano Picerno, il caposquadra della Squadra C partita dalla caserma di via Marcello, è stato insignito della Medaglia d’oro al valor civile alla memoria, per il "nobile esempio di altissimo senso del dovere ed elette virtù civiche, spinti sino all'estremo sacrificio".
A lui, Sergio e Carlo, il 29 luglio 2015, è stata intitolata la caserma dei Vigili del Fuoco di via Benedetto Marcello. A lui, e a tutte le vittime della strage di via Palestro, è intitolato inoltre il Presidio universitario di Libera a Milano.