27 luglio 1993
Milano (MI)

Carlo La Catena

Milano, via Palestro, ore 23.14 del 27 luglio 1993: dopo la strage di via dei Georgofili, Cosa nostra sfida ancora lo Stato. Altro tritolo, altro terrore, altri cinque morti

Che dopo Firenze sarebbe potuto toccare a Milano più di qualcuno lo aveva immaginato. Perché la bomba di via dei Georgofili aveva un obiettivo chiaro: generare il terrore tra i cittadini inermi, dimostrare la potenza di Cosa nostra oltre i confini siciliani, colpire il Paese nei suoi luoghi simbolo. E che quindi Milano potesse finire nel mirino dei mafiosi era in qualche modo prevedibile. Eppure, quando questa tragica profezia divenne realtà, si stentò a credere che, dopo i cinque morti di Firenze, Cosa nostra potesse avere avuto l’ardire di sfidare ancora lo Stato, con una strategia del terrore così violenta da togliere il fiato. Altro tritolo, altro terrore, altri cinque morti.

Cinque sono infatti i protagonisti di questa storia. Cinque vite legate indissolubilmente da quell’istante drammatico in cui circa 90 chilogrammi di esplosivo ne troncarono l’esistenza brutalmente. Vite diverse, storie diverse, percorsi diversi. Tutti però convergenti in quel preciso punto e in quel preciso momento: Milano, via Palestro, ore 23.14 del 27 luglio 1993. Qui le cinque vite di Carlo La Catena, Sergio Pasotto, Stefano Picerno, Alessandro Ferrari e Moussafir Driss si sono indissolubilmente legate.

Carlo La Catena è il protagonista più giovane di questa storia tragica. Era nato a Napoli il 14 novembre del 1967. Sin da giovanissimo, si era dimostrato un ragazzo disponibile e altruista. Cresciuto in una famiglia umile e onesta, era l’ultimo di cinque figli, unico maschio nato dal matrimonio tra Giuseppe e Rita. I suoi gestivano una bottega di carni. Dopo la licenza media all’Istituto "Salvatore Di Giacomo", Carlo aveva conseguito la qualifica di autoriparatore. Abbandonati gli studi per dare una mano al padre nell’attività di famiglia, arrotondava vendendo aspirapolveri e occupandosi di pubbliche relazioni per alcuni locali alla moda della città. Amava lo sport, Carlo, e lo praticava con costanza: dal body building al karate, di cui era maestro. E poi una grande passione per i motori e, soprattutto, per la sua squadra del cuore: il Napoli.

La sua carriera nel Corpo nazionale dei Vigili del Fuoco inizia quando decide di tentare il concorso come autista. Lo supera e nel 1993 accede al corso di addestramento presso la Scuola di Formazione Operativi di Montelibretti, a Roma. Infine, il trasferimento a Milano e l’assegnazione alla Caserma di via Benedetto Marcello.

Nel fine settimana prima di quel martedì 27 luglio, Carlo era tornato a Napoli dalla sua famiglia, come sempre faceva quando ne aveva la possibilità. Per allungare quei giorni in famiglia, aveva chiesto personalmente di essere assegnato al turno di notte. Il suo ultimo turno.

27 luglio 1993

Quando, intorno alle 23.00, arrivò in caserma la chiamata dei Vigili Urbani per un’auto sospetta parcheggiata nei pressi del Padiglione di Arte Contemporanea di via Palestro, Carlo salì a bordo dell’autobotte insieme ai colleghi della Squadra C. Sembrava un intervento di routine per la solita auto in fiamme. Pochi minuti dopo, i pompieri sono sul posto. Sono in sette, guidati dal caposquadra Stefano Picerno. Si avvicinano all’auto per ispezionarla. Stefano apre il bagagliaio e si rende conto che in quella macchina c’è una bomba. Poco lontano, Alessandro Ferrari, il Vigile Urbano che aveva fatto partire l’allarme, si sbraccia per cercare di allontanare il maggior numero di persone possibile. Ma è questione di istanti: l’esplosione che scuote la notte milanese è di una violenza inaudita. Apocalittica è la scena che si presenta ai primi soccorritori giunti sul posto: l’illuminazione pubblica è saltata, i vetri delle case circostanti sono andati in frantumi, il muro esterno del Padiglione di arte contemporanea è totalmente distrutto. I danni seguiti alla deflagrazione interessano un raggio di oltre 200 metri, con un pezzo del motore dell’autobomba che viene rinvenuto sul balcone al terzo piano di un edificio a 100 metri in linea d’aria. Il tritolo sventra il manto stradale e danneggia la condotta del gas. È un inferno di fuoco, che i pompieri fanno fatica a domare. Si cerca di intervenire per bloccare il flusso poco più a monte della rottura, ma l’intervento è molto difficoltoso. Si crea una sacca di gas, che esplode poco più tardi provocando altri danni alla Galleria e alla Villa Reale. Via Palestro è una scena di guerra e si contano i morti.

Man mano vengono recuperati i corpi di cinque persone. C’è Stefano Picerno, 36 anni, il caposquadra dei Vigili del Fuoco appena rientrato dal viaggio di nozze; c’è Sergio Pasotto, anch’egli vigile del fuoco in servizio permanente, che proprio quel giorno aveva compiuto 34 anni; c’è Alessandro Ferrari, il vigile urbano di 29 anni che aveva chiamato i pompieri e tentato di salvare i passanti; c’è Moussafir Driss, un immigrato marocchino di 44 anni che dormiva su una panchina del parco pubblico poco lontano, ucciso da un pezzo di lamiera che lo fa passare dal sonno alla morte. Il suo corpo viene ritrovato poco lontano da quello di Alessandro. E, infine, c’è Carlo, 25 anni e in servizio da appena 40 giorni. I feriti sono almeno 12.

Abbiamo appreso la notizia della morte di Carlo dalla televisione. E’ stata una tragedia. (…) A mezzanotte e mezza l’edizione straordinaria del telegiornale che si apriva con una notizia terribile per tutti noi: “Tre morti nella squadra dei Vigili del Fuoco, tra cui il giovane pompiere napoletano Carlo La Catena”. Da quel momento non ho capito più niente. La disperazione si è impadronita del dolore, sembrava impossibile che Carlo non ci fosse più.
Raffaella La Catena, sorella di Carlo

Milano è sconvolta. L’Italia intera piange altre cinque vittime innocenti uccise dal terrorismo mafioso. Sì, perché è evidente il collegamento con Firenze, il legame con quella strategia stragista con cui Cosa nostra tenta di mettere in ginocchio la Repubblica. Poche ore più tardi, saranno le bombe di San Giorgio al Velabro e San Giovanni in Laterano a confermare che il Paese è nella morsa del terrore.

Vicenda giudiziaria

La matrice mafiosa della strage viene ben presto confermata dalle indagini. A squarciare in parte il velo della verità sono le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia. Grazie ai racconti di Pietro Carra, Antonio Scarano, Emanuele Di Natale e Umberto Maniscalco, nel 1998 vengono riconosciuti come esecutori materiali Cosimo Lo Nigro, Giuseppe Barranca, Francesco Giuliano, Gaspare Spatuzza, Luigi Giacalone, Salvatore Benigno, Antonino Mangano, Salvatore Grigoli e lo stesso Scarano.

Secondo la ricostruzione dei magistrati, nel mese di maggio del 1993, i mafiosi di Brancaccio e Corso dei Mille, Barranca, Spatuzza, Lo Nigro e Giuliano confezionarono l’esplosivo appoggiandosi in una casa fatiscente proprio a Corso dei Mille, messa a disposizione da Mangano. Intorno alla metà del mese di luglio, poi, l’esplosivo era stato nascosto nel doppiofondo del camion di Pietro Carra e trasportato ad Arluno, nel milanese, scaricato e nascosto in campagna.

Ancora sulla scorta delle dichiarazioni di Carra e Scarano, nel 2002 la Procura di Firenze dispone l’arresto di Tommaso e Giovanni Formoso, mafiosi di Misilmeri, con l’accusa di avere aiutato Lo Nigro a scaricare l’esplosivo ad Arluno, compiendo poi materialmente la strage. L’anno dopo, la Corte d'Assise di Milano condanna i fratelli Formoso all'ergastolo. La condanna venne poi confermata nei due successivi gradi di giudizio.

Nel 2008 si apre una nuova pagina della storia processuale, dopo la decisione di Gaspare Spatuzza, ‘u Tignusu, affiliato alla famiglia di Brancaccio dei fratelli Graviano, di collaborare con la giustizia. Le sue dichiarazioni consentono di arrestare Cosimo D’Amato, il pescatore, cugino di Lo Nigro, che aveva procurato l’esplosivo per quella di Milano e per le altre stragi del ’92 e del ’93, ricavandolo dagli ordigni bellici recuperati in mare.

D’Amato viene condannato all’ergastolo in via definitiva nel 2016. Un anno prima, aveva deciso di collaborare anch’egli, ammettendo le sue responsabilità. Spatuzza chiama in causa anche i fratelli Vittorio e, in particolare, Marcello Tutino, indicandoli come basisti a Milano. Ma le sue dichiarazioni non sono state ritenute sufficienti per la condanna.

Su chi abbia ispirato la strage di via Palestro e chi l’abbia voluta non c’è mai stata verità piena. Un altro pezzo oscuro di quella coltre di ambiguità e mistero che ancora ricopre la storia di quegli anni drammatici nei quali la mafia colpì al cuore la democrazia.

Memoria viva

Pochi mesi dopo la strage, nell’aprile 1994, in memoria di Carlo la sua famiglia ha fondato l'Associazione Carlo La Catena:

(…) Abbiamo fondato l’associazione Carlo la Catena, perché l’amore ed il dolore suscitato dal gesto coraggioso di Carlo, che ha sacrificato la propria vita per impedire altre vittime, doveva continuare a vivere nella memoria di tutti.
Raffaella La Catena, sorella di Carlo

Nel 2012, l’associazione ha istituito il Premio Nazionale Vigile del Fuoco “Carlo La Catena”, che viene assegnato annualmente “al personale di tutti i livelli e gradi facente parte del Dipartimento, che si siano distinti in qualche modo nello svolgimento del proprio dovere, innalzando con il proprio ingegno, virtù e coraggio, l’onore e la fama del glorioso Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco”.

Il 22 novembre del 1993, Carlo La Catena è stato insignito della Medaglia d’oro al valor civile alla memoria, per il "nobile esempio di altissimo senso del dovere ed elette virtù civiche, spinti sino all'estremo sacrificio".

A lui, Stefano e Sergio, il 29 luglio 2015, è stata intitolata la caserma dei Vigili del Fuoco di via Benedetto Marcello. A lui, e a tutte le vittime della strage di via Palestro, è intitolato il Presidio universitario di Libera a Milano.