Che dopo Firenze sarebbe potuto toccare a Milano più di qualcuno lo aveva immaginato. Perché la bomba di via dei Georgofili aveva un obiettivo chiaro: generare il terrore tra i cittadini inermi, dimostrare la potenza di Cosa nostra oltre i confini siciliani, colpire il Paese nei suoi luoghi simbolo. E che quindi Milano potesse finire nel mirino dei mafiosi era in qualche modo prevedibile. Eppure, quando questa tragica profezia divenne realtà, si stentò a credere che, dopo i cinque morti di Firenze, Cosa nostra potesse avere avuto l’ardire di sfidare ancora lo Stato, con una strategia del terrore così violenta da togliere il fiato. Altro tritolo, altro terrore, altri cinque morti.
Cinque sono infatti i protagonisti di questa storia. Cinque vite legate indissolubilmente da quell’istante drammatico in cui circa 90 chilogrammi di esplosivo ne troncarono l’esistenza brutalmente. Vite diverse, storie diverse, percorsi diversi. Tutti però convergenti in quel preciso punto e in quel preciso momento: Milano, via Palestro, ore 23.14 del 27 luglio 1993. Qui le cinque vite di Sergio Pasotto, Stefano Picerno, Carlo La Catena, Alessandro Ferrari e Moussafir Driss si sono indissolubilmente legate.
Sergio quel giorno festeggiava il suo compleanno. Era nato a Milano, infatti, esattamente il 27 luglio di 34 anni prima. Era un uomo riservato ma sempre allegro e sorridente, pieno di voglia di vivere. Viveva con i suoi genitori – Angelo e Liberata – in una casa milanese, da cui quella sera era uscito con una bottiglia di spumante e qualche cosa da mangiare insieme ai colleghi, per brindare al suo compleanno. Era stato assunto nel Corpo nazionale dei Vigili del Fuoco il 4 gennaio del 1982 e dunque aveva alle spalle già più di dieci anni di onorato servizio. Amava viaggiare, Sergio, parlava tre lingue e aveva una passione smodata per l’avventura, le escursioni e, in particolare, per la Thailandia. Si era innamorato di quel paese, dove probabilmente sognava un giorno di trasferirsi, di aprire un’attività, di trascorrere il resto della sua vita. La bottiglia che aveva portato con sé per festeggiare coi colleghi il suo trentaquattresimo compleanno Sergio non riuscì mai ad aprila.
27 luglio 1993
Quando, intorno alle 23.00, arrivò in caserma la chiamata dei Vigili Urbani per un’auto sospetta parcheggiata nei pressi del Padiglione di Arte Contemporanea di via Palestro, lui salì a bordo dell’autobotte insieme ai colleghi della Squadra C. Sembrava un intervento di routine per la solita auto in fiamme. Pochi minuti dopo, i pompieri erano sul posto. Erano in sette, guidati dal caposquadra Stefano Picerno. Si avvicinarono all’auto per ispezionarla. Stefano aprì il bagagliaio e si rese conto che in quella macchina c’era una bomba. Poco lontano, Alessandro Ferrari, il Vigile Urbano che aveva fatto partire l’allarme, si sbracciava per cercare di allontanare il maggior numero di persone possibile. Fu una questione di istanti: l’esplosione che sconvolse la notte milanese fu di una violenza inaudita. Apocalittica la scena che si presentò ai primi soccorritori giunti sul posto: l’illuminazione pubblica era saltata, i vetri delle case circostanti andati in frantumi, il muro esterno del Padiglione di arte contemporanea totalmente distrutto. I danni seguiti alla deflagrazione interessarono un raggio di oltre 200 metri, con un pezzo del motore dell’autobomba che venne rinvenuto sul balcone al terzo piano di un edificio a 100 metri in linea d’aria. Il tritolo aveva sventrato il manto stradale e danneggiato la condotta del gas. Era un inferno di fuoco, che i pompieri facevano fatica a domare. Si cercò di intervenire per bloccare il flusso poco più a monte della rottura, ma l’intervento era estremamente difficoltoso. La sacca di gas che si era creata esplose poco più tardi provocando altri danni alla Galleria e alla Villa Reale. Via Palestro era una scena di guerra con morti e feriti.
Man mano vennero recuperati i corpi di cinque persone. C’era Stefano Picerno, 36 anni, il caposquadra dei Vigili del Fuoco appena rientrato dal viaggio di nozze; c’era Carlo La Catena, il più giovane pompiere in servizio quella sera, 25 anni e al lavoro da appena 40 giorni; c’era Alessandro Ferrari, il vigile urbano di 29 anni che aveva chiamato i pompieri e tentato di salvare i passanti; c’era Moussafir Driss, un immigrato marocchino di 44 anni che dormiva su una panchina del parco pubblico poco lontano, ucciso da un pezzo di lamiera che lo aveva fatto passare dal sonno alla morte. Il suo corpo fu ritrovato poco lontano da quello di Alessandro Ferrari. E, infine, c’era Sergio, che proprio quel giorno aveva compiuto 34 anni. I feriti furono almeno 12.
Milano è sconvolta. L’Italia intera piange altre cinque vittime innocenti uccise dal terrorismo mafioso. Sì, perché è evidente il collegamento con Firenze, il legame con quella strategia stragista con cui Cosa nostra tenta di mettere in ginocchio la Repubblica. Poche ore più tardi, saranno le bombe di San Giorgio al Velabro e San Giovanni in Laterano a confermare che il Paese è nella morsa del terrore.
Vicenda giudiziaria
La matrice mafiosa della strage viene ben presto confermata dalle indagini. A squarciare in parte il velo della verità sono le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia. Grazie ai racconti di Pietro Carra, Antonio Scarano, Emanuele Di Natale e Umberto Maniscalco, nel 1998 Cosimo Lo Nigro, Giuseppe Barranca, Francesco Giuliano, Gaspare Spatuzza, Luigi Giacalone, Salvatore Benigno, Antonino Mangano, Salvatore Grigoli e lo stesso Scarano vengono riconosciuti come esecutori materiali nella sentenza sulle stragi del ’93. Secondo la ricostruzione dei magistrati, nel mese di maggio del 1993, i mafiosi di Brancaccio e Corso dei Mille Barranca, Spatuzza, Lo Nigro e Giuliano confezionarono l’esplosivo appoggiandosi in una casa fatiscente proprio a Corso dei Mille, messa a disposizione da Mangano. Intorno alla metà del mese di luglio, poi, l’esplosivo era stato nascosto nel doppiofondo del camion di Pietro Carra e trasportato ad Arluno, nel milanese, scaricato e nascosto in campagna.
Ancora sulla scorta delle dichiarazioni di Carra e Scarano, nel 2002 la Procura di Firenze dispone l’arresto di Tommaso e Giovanni Formoso, mafiosi di Misilmeri, con l’accusa di avere aiutato Lo Nigro a scaricare l’esplosivo ad Arluno, compiendo poi materialmente la strage. L’anno dopo, la Corte d'Assise di Milano condanna i fratelli Formoso all'ergastolo. La condanna venne poi confermata nei due successivi gradi di giudizio.
Nel 2008 si apre una nuova pagina della storia processuale, dopo la decisione di Gaspare Spatuzza, ‘u Tignusu, affiliato alla famiglia di Brancaccio dei fratelli Graviano, di collaborare con la giustizia. Le sue dichiarazioni consentono di arrestare Cosimo D’Amato, il pescatore, cugino di Lo Nigro, che aveva procurato l’esplosivo per quella di Milano e per le altre stragi del ’92 e del ’93, ricavandolo dagli ordigni bellici recuperati in mare. D’Amato viene condannato all’ergastolo in via definitiva nel 2016. Un anno prima, aveva deciso di collaborare anch’egli, ammettendo le sue responsabilità. Spatuzza chiama in causa anche i fratelli Vittorio e, in particolare, Marcello Tutino, indicandoli come basisti a Milano. Ma le sue dichiarazioni non sono state ritenute sufficienti per la condanna.
Su chi abbia ispirato la strage di via Palestro e chi l’abbia voluta non c’è mai stata verità piena. Un altro pezzo oscuro di quella coltre di ambiguità e mistero che ancora ricopre la storia di quegli anni drammatici nei quali la mafia colpì al cuore la democrazia.
Memoria viva
Il 22 novembre del 1993, Sergio Pasotto, il pompiere appassionato di viaggi, è stato insignito, insieme alle altre tre vittime italiane, della Medaglia d’oro al valor civile alla memoria, per il "nobile esempio di altissimo senso del dovere ed elette virtù civiche, spinti sino all'estremo sacrificio".
A lui, Stefano e Carlo, il 29 luglio 2015, è stata intitolata la caserma dei Vigili del Fuoco di via Benedetto Marcello. A lui, e a tutte le vittime della strage di via Palestro, è intitolato il Presidio universitario di Libera a Milano.