Si chiamava Claudio Domino quel bambino. Era nato l’8 gennaio del 1975 da Ninni Domino e Graziella Accetta. Papà Ninni era un impiegato della SIP, la principale azienda di telecomunicazioni italiana. Un lavoro cui, col tempo, aveva affiancato quello di titolare di due piccole imprese di pulizia, una delle quali si era aggiudicata l’appalto per il servizio all’interno dell’aula bunker dell’Ucciardone appena costruita. Mamma Graziella invece gestiva un’altra piccola attività di famiglia, una cartolibreria in via Fattori, nel quartiere di San Lorenzo, in quella Piana dei Colli situata al confine nord della città di Palermo, teatro degli affari di Cosa nostra legati principalmente al traffico di droga. Claudio era il secondo di tre figli, nati il primo nel 1971 e l’ultimo nel 1985.
In una delle poche - se non l’unica - fotografie che circolano di lui, Claudio è ritratto in bianco e nero, il mento appoggiato sulle mani, i capelli arruffati e due grandi occhi scuri. È il volto di un bambinetto, sulla cui vita troppo breve c’è purtroppo davvero poco da raccontare. Se non la profonda, inaccettabile e assurda ingiustizia che lui e la sua famiglia hanno dovuto subire. Senza che mai, da quel 7 ottobre del 1986, sia mai emersa una traccia di verità e di giustizia. Tante ipotesi, tante piste. Ma mai un processo che abbia restituito alla famiglia almeno la consolazione di una giustizia terrena per la morte di un bambino di 11 anni.
Il 7 ottobre del 1986
Lo scenario di questa storia tragica è il marciapiedi di via Fattori, proprio davanti alla cartolibreria della famiglia Domino. Faceva ancora caldo a Palermo in quei primi giorni di ottobre del 1986 e Claudio, come tanti altri bambini del quartiere, in compagnia di qualche amichetto, era in strada a giocare. Pochi minuti prima delle 21.00, Claudio si sentì chiamare da un giovane a bordo di una motocicletta di grossa cilindrata. Senza scendere dalla sua Kawasaki, con il volto coperto da un casco integrale, il giovane chiese al bambino di avvicinarsi. Nella sua innocenza, Claudio lo fece. Quel che accadde di lì a pochi secondi è agghiacciante nella sua tragica insensatezza. Il giovane puntò una calibro 7,65 alla fronte del bambino ed esplose un colpo a bruciapelo. Claudio non ebbe la minima possibilità di sopravvivere. La sua giovanissima vita finì così, per sempre fissata in quella foto in bianco e nero.
Il delitto suscitò un enorme scalpore nell’opinione pubblica. Intanto per la giovanissima età della vittima. Poi perché avvenuto nel pieno dello svolgimento del maxiprocesso, con Cosa nostra che scelse addirittura di prendere pubblicamente le distanze da quell’omicidio.
Sin da subito apparve complicatissimo risalire alle ragioni di quella morte assurda: chi aveva ordinato quell’omicidio? Chi aveva interesse ad eliminare un bambino di 11 anni? E perché? Domande alle quali apparve immediatamente difficile dare una risposta. Domande che ancora attendono una risposta.
La vicenda giudiziaria
Seguire lo sviluppo delle indagini non è semplice. Si accavallano ipotesi e piste molto diverse tra loro ma che, a tratti, sembrano convergere sui responsabili dell’omicidio. C’è chi ha parlato dell’appalto per le pulizie dell’aula bunker, ci sono le dichiarazioni di “pentiti” che tirano in ballo storie di droga e regolamenti di conti. Ci sono dichiarazioni che parlano della presenza, sulla scena del delitto, di Giovanni Aiello, il poliziotto noto come “faccia da mostro”, morto nel 2017, il cui nome è associato da diversi collaboratori di giustizia ad alcuni eventi oscuri della storia del nostro Paese, come il fallito attentato dell'Addaura a Giovanni Falcone, la morte di Paolo Borsellino, l’uccisione di Ninni Cassarà e Roberto Antiochia, l’omicidio del poliziotto Nino Agostino e di sua moglie Ida Castelluccio.
Una prima presunta svolta nelle indagini risale al marzo del 1987, quando viene arrestato Gabriele Graffagnino. Il giovane è il figlio di Salvatore, titolare di un bar rosticceria ubicato proprio di fronte alla cartolibreria di via Fattori. Nel locale vengono rinvenuti circa cinquanta proiettili 7,65, lo stesso calibro della pistola utilizzata per l’omicidio di Claudio. Secondo gli inquirenti, Gabriele fa parte di una banda di criminali emergenti, che aspiravano a conquistare il controllo del traffico di droga nel quartiere di San Lorenzo. Verso la fine di agosto del 1986, Claudio avrebbe assistito al rapimento di due trafficanti di quella banda che si intrattenevano con Giuseppe Graffagnino, il fratello di Gabriele, proprio davanti al bar di famiglia. Per questo sarebbe stato ucciso. I due sparirono per sempre poche ore dopo quell’episodio. Giuseppe Graffagnino si salvò ma un mese dopo fu arrestato. Trenta giorni più tardi, la morte di Claudio e, altri trenta giorni dopo, la sparizione anche di Salvatore Graffagnino, il padre di Giuseppe e Gabriele.
La pista investigativa però non portò ad alcun processo.
A complicare ulteriormente il quadro, c’è la decisione dei boss alla sbarra nel maxiprocesso di prendere le distanze da quel delitto. Il giorno dopo l’uccisione di Claudio, in udienza, Giovanni Bontate, fratello del boss Stefano, legge una dichiarazione in cui definisce l’omicidio del bambino un atto di barbarie: “Noi condanniamo questo barbaro delitto che provoca accuse infondate anche verso gli imputati di questo processo. Siamo uomini, abbiamo figli, comprendiamo il dolore della famiglia Domino. Rifiutiamo l’ipotesi che un atto di simile barbarie ci possa sfiorare”.
Nell’aprile del 1994 un nuovo colpo di scena. Un altro “pentito”, Totò Cancemi, rivela che “subito dopo l'omicidio di Claudio Domino, Totò Riina riunì la Commissione (…) e ordinò che tutti noi dovevamo impegnarci a scoprire i colpevoli e punirli”. Nessun sentimento di giustizia o umana pietà in quest’ordine, ma solo il tentativo di punire chi aveva osato contravvenire a quella consegna del silenzio imposta dai vertici di Cosa nostra: nel quartiere non si poteva muovere niente senza il consenso dei boss. Meno che mai si poteva commettere un omicidio come quello di Claudio.
Altre fonti confidenziali sembrarono poi confermare l’ipotesi iniziale di un coinvolgimento dei Graffagnino. Il già citato Salvatore sarebbe stato rapito e torturato su ordine di Giovanni Brusca, per poi confessare di essere stato lui ad ordinare l’esecuzione del bambino, la cui colpa era di avere assistito al confezionamento di alcune dosi di eroina in un magazzino e aver riconosciuto i trafficanti. L’esecutore materiale del delitto sarebbe stato un tossicodipendente fatto poi morire per overdose. In questo modo, in sostanza, Cosa nostra avrebbe punito chi aveva osato agire in autonomia, senza l’autorizzazione dell’organizzazione.
Infine, nel maggio del 2021, dopo la messa in onda di una puntata di Atlantide in cui il giornalista Lirio Abbate ha riferito del presunto coinvolgimento di “faccia da mostro” nella vicenda dell’uccisione di Claudio, di fronte alle proteste dei genitori del bambino e alla loro pressante richiesta di verità e giustizia, la Procura di Palermo ha deciso di acquisire atti e documenti e di valutare la possibilità di riaprire l’inchiesta.
Stando alla ricostruzione di Abbate, Luigi Ilardo, già capomafia della provincia di Caltanissetta poi divenuto confidente del colonnello dei Ros Michele Riccio e infine ucciso nel 1996, avrebbe raccontato all’ufficiale del coinvolgimento di Aiello nell’omicidio Domino. “Mi fece riferimento al fatto - ha raccontato Riccio riferendosi a Ilardo - che proprio per la morte di Domino i suoi contatti di Cosa Nostra palermitana gli avevano riferito che c’era stata la ricerca di un personaggio che doveva appartenere alle istituzioni italiane, il quale aveva fatto un po' da supervisore e, forse, aveva anche avuto qualche parte attiva in questi attentati, specialmente in quello di Domino che aveva colpito molti esponenti di cosa Nostra che non erano concordi con questi omicidi. Per cui - aggiunse Riccio - si sarebbero mossi alla ricerca di questo personaggio, che Ilardo allora mi descrisse come alto, magro e con in viso una voglia che lo deturpava. Sinteticamente mi disse 'faccia da mostro’”.
Memoria viva
Una vicenda estremamente contorta dunque, alla quale di fatto, ad oltre 35 anni di distanza, nessuno ha messo ancora la parola fine. Papà Ninni e mamma Graziella non si sono mai arresi e hanno continuato, imperterriti, a chiedere che fosse fatta piena luce sull’uccisione del loro bambino e che mandanti ed esecutori di quell’assurdo omicidio fossero assicurati alla giustizia. Dopo i primi anni di silenzioso dolore e di isolamento, hanno iniziato il loro percorso di impegno, hanno passato intere giornate sotto al Palazzo di Giustizia per protestare contro la mancanza di verità, hanno promosso iniziative, incontrato altri familiari di bambini uccisi dalla mafia, raccontato la storia di Claudio ai suoi coetanei, nelle scuole, nelle piazze:
C'erano gli altri miei due figli da crescere, vittime anche loro. Abbiamo reso le nostre testimonianze ma abbiamo anche temuto che la morte di Claudio potesse diventare una questione politica e noi non volevamo che qualcuno potesse approfittare della morte di mio figlio. Poi qualcosa è scattato quando abbiamo visto il figlio di Totò Rina intervistato da Bruno Vespa (…) che diceva di avere tanto sofferto per l'assenza del padre, un assassino che nel suo racconto sembrava un padre perfetto. E noi senza nostro figlio? E tutti i genitori privati dei propri figli? (…) Da lì è partito il nostro progetto di legalità, andiamo di scuola in scuola, in tutta Italia, a raccontare gli invisibili.
Un modo per tenere viva la memoria del loro bambino e, con essa, la speranza di conoscere finalmente la verità e ottenere finalmente giustizia.
Com’era Claudio? Un monello, un monello dolcissimo. Non saprei dire qual è il mio ultimo ricordo. Mi è rimasta però impressa la sua voce quando ha saputo che ero di nuovo incinta. Era con un suo amichetto, all’angolo della strada, aveva 10 anni. Mi urlò: Mamma, ma vero é?