Dario Capolicchio era nato in Sicilia, a Palermo, il 29 settembre del 1971. Era figlio di Liliana e Guerino Capolicchio, ingegnere con un importante ruolo di dirigente in un’azienda petrolifera. Con sua sorella Daniela era cresciuto in una famiglia tranquilla, che ben presto si era trasferita a Sarzana, un importante centro della Val di Magra, in provincia di La Spezia.
Era un ragazzo brillante Dario, nello studio come nella vita, pieno di passioni e di interessi. Due in particolare, tra loro profondamente connessi e che hanno caratterizzato la sua giovane vita: un profondo amore per la montagna e una grande attenzione per l’ambiente.
Compiuti gli studi superiori, per il suo percorso di formazione Dario aveva inseguito un’altra passione, quella per l’architettura. Aveva scelto così di iscriversi alla Facoltà di Architettura dell’Università di Firenze. Nel capoluogo toscano, dunque, si era trasferito molto giovane, sistemandosi al terzo piano di una palazzina proprio di fronte alla Torre dei Pulci, in via dei Georgofili. Affacciandosi, Dario poteva immergersi nel cuore del centro storico fiorentino, a due passi dalla Galleria degli Uffizi e dall’Arno, in uno dei luoghi più belli e più ricchi di storia e di bellezza del Paese. Edifici, palazzi storici, opere d’arte che studiava sui libri di architettura e che, uscendo di casa e girando tra i vicoli e le strade di Firenze, poteva vedere coi suoi occhi e toccare con le sue mani. Era felice Dario e sembra di leggerla quella felicità nei suoi occhi, nelle foto che ci rimangono di lui. Istantanee di un ragazzo normale. In una di esse porta i capelli lunghi a incorniciare un volto pulito e un’espressione intensa e spensierata.
Le stragi del '92
Ma sono mesi difficili quelli per l’Italia, ancora sconvolta dalle stragi di Capaci e via D’Amelio. Nel 1992 gli italiani hanno fatto esperienza della capacità di Cosa nostra di colpire il Paese uccidendo i suoi figli migliori, servitori dello Stato spazzati via senza pietà dal tritolo delle bombe mafiose. Una stagione di morte e violenza inaudita, alla quale le istituzioni repubblicane reagiscono colpendo i mafiosi e sottoponendoli a un regime carcerario ancora più duro. Quel 41 bis che isola completamente gli uomini di Cosa nostra e che, agli uomini di Cosa nostra, proprio non va giù.
Il 15 gennaio del 1993 l’arresto di Totò Riina segna una vittoria importante dello Stato. Il “capo dei capi” viene arrestato a Palermo dopo 24 anni di latitanza. Il Paese vive con sollievo quel successo, perché si rende conto che lo Stato c’è e lavora per dare giustizia alle vittime innocenti. Sono passi in avanti di fronte ai quali, però, la mafia non resta inerme. E reagisce. Reagisce nella maniera più bestiale che si possa immaginare. “Menti raffinatissime” suggeriscono ai boss che non basta più colpire i magistrati, che bisogna perseguire una strategia nuova, che generi terrore, che colpisca i simboli del Paese, che lo metta in ginocchio e lo costringa a rivedere la sua determinazione nella lotta alla mafia. E così, la brutalità di Cosa nostra incrocia tragicamente il destino di Dario. A Firenze, a più di mille chilometri da quella Palermo teatro di guerra.
27 maggio 1993
È la notte tra mercoledì 26 e giovedì 27 maggio 1993. Dario è a casa a riposare. L’indomani mattina si sarebbe alzato e avrebbe affrontato un’altra giornata: l’università, gli amici, lo studio. Mai, neanche nel peggiore dei suoi incubi, avrebbe potuto immaginare quello che, di lì a poco, sarebbe accaduto, lasciando senza fiato tutta Italia. In via dei Georgofili, proprio sotto casa di Dario, a due passi dalla Torre dei Pulci, è parcheggiato un Fiat Fiorino. I mafiosi lo hanno rubato in città diversi giorni prima. Lo hanno portato a Prato, una ventina di chilometri più a nord, e qui lo hanno sistemato nel garage di Antonio Messana. Lui ha sempre detto di essere stato costretto a cedere ai boss, che non sapeva cosa stavano progettando. Ma i giudici hanno sentenziato che non poteva non sapere che nel suo garage gli uomini di Cosa nostra avevano imbottito quel furgone di più di 250 chili di tritolo, T4, pentrite e nitroglicerina. Una miscela esplosiva devastante.
La deflagrazione svegliò la città, mettendola di fronte a una tragedia inimmaginabile e distruggendo abitazioni, palazzi, opere d’arte. La Galleria degli Uffizi ne uscì profondamente ferita, con il 25% delle opere d’arte conservate al suo interno gravemente danneggiate. La Torre dei Pulci sventrata e una devastazione che interessò un’area di 12 ettari. Il cratere lasciato dall’esplosivo - tre metri di diametro e 2 di profondità – tolse ogni dubbio: era stato un attentato, una strage pianificata.
Al terzo piano della Torre dei Pulci dormivano Fabrizio Nencioni, un ispettore dei Vigili Urbani di 39 anni, sua moglie Angela Fiume, custode dell’Accademia dei Georgofili, e le loro bambine Nadia e Caterina, rispettivamente 9 anni e 50 giorni di vita. L’intera famiglia fu spazzata via dall’esplosione. Nel suo appartamento, al terzo piano dell’edificio esattamente di fronte, Dario non ebbe probabilmente neanche il tempo di rendersi conto di quello che era accaduto: fu investito in pieno dall’inferno di fuoco provocato dalla deflagrazione. Morì arso vivo dalle fiamme. Aveva 22 anni e tutta la vita davanti. I feriti furono 48.
Cosa nostra aveva intrapreso la strada del terrorismo mafioso, colpendo luoghi simbolo del Paese e provocando panico e morte tra cittadini inermi, per destabilizzare la democrazia. Una strategia che avrebbe avuto altre tappe e che avrebbe provocato altro dolore e altro sangue innocente: via Palestro a Milano, le bombe di Roma, il fallito attentato allo Stadio Olimpico. Anni tremendi e drammatici, i più bui della storia dell’Italia repubblicana.
Vicenda giudiziaria
Negli anni successivi, la ricostruzione di quanto avvenuto quella notte terribile a Firenze - città da cui era partito alla volta di Palermo Antonino Caponnetto, capo del pool antimafia negli anni degli attentati a Falcone e Borsellino - è avvenuta anche grazie alle dichiarazioni di diversi collaboratori di giustizia. Tra questi, in particolare, Gaspare Spatuzza. Nel 2008, il boss affiliato alla famiglia di Brancaccio racconta ai magistrati del suo coinvolgimento nella strage dei Georgofili. Dice che quella strage era stata decisa in una riunione alla quale aveva partecipato lui stesso, alla presenza di altri boss di primissimo livello, come Giuseppe Barranca, Francesco Giuliano, Giuseppe Graviano, Francesco Tagliavia e Matteo Messina Denaro. Svela i dettagli della preparazione dell’attentato: l’esplosivo estratto da alcuni residui bellici e fornito dal pescatore Cosimo D’Amato, il trasferimento a Prato, la preparazione dell’autobomba. I boss avrebbero individuato l’obiettivo sfogliando un dépliant turistico.
Il 12 novembre del 1996 si apre il processo e il 6 giugno del 1998 arriva la sentenza di primo grado: 14 ergastoli e altre condanne varie. Ad esse si aggiungono, il 21 gennaio del 2000, l’ergastolo a Totò Riina, all’esito di un processo stralcio. Il 13 gennaio del 2001 la sentenza di appello e poi, il 6 maggio del 2002, a quasi dieci anni da quella notte, la pronuncia della Cassazione che conferma i 15 ergastoli e le altre pene.
Il boss Matteo Messina Denaro - all’epoca ancora latitante e arrestato dopo una fuga di 30 anni il 16 gennaio del 2023 - è tra le menti di quella strage terribile. Che però, dicono i giudici, avrebbe anche altre “menti fini”. Una pista, quella del coinvolgimento di altri ambienti fuori dalla mafia, a lungo sostenuta dai familiari delle vittime, senza mai conferme.
Antonio Messana, il proprietario del garage di Prato, viene rinviato ad altro processo e condannato a 21 anni il 13 marzo del 2003.
Memoria viva
L’impatto della strage di Firenze sulla cultura di massa è stato ed è tuttora enorme. Siamo di fronte ad una delle pagine più drammatiche della storia repubblicana. Per tenerne viva la memoria e continuare a chiedere verità e giustizia, nel luglio del 2011 è nata l’Associazione tra i Familiari delle Vittime della Strage di Via dei Georgofili.
Per le vittime, per noi che abbiamo vissuto questo orrore sulla nostra pelle e su quella dei nostri familiari, Memoria e Verità sono due concetti intimamente connessi e non possiamo concepire l’una senza l’altra. Perciò ci batteremo sempre affinché su questa vicenda venga fatta piena luce e il ricordo delle vittime innocenti possa limpidamente vivere nelle coscienze, non inquinato da lati oscuri, misteri irrisolti, responsabilità e connivenze non accertate e non perseguite. Lo abbiamo detto e continueremo a dirlo: non c’è memoria senza verità.
A Dario Capolicchio sono intitolati numerosi spazi pubblici e iniziative di memoria. In particolare a Sarzana, la sua città, dove gli è stata intitolata una piazza, grazie all'impegno dei volontari del Presidio di Libera a lui dedicato. Nato dall'iniziativa degli studenti del Liceo Parentucelli, il Presidio organizza ogni anno, a ridosso dell'anniversario della strage, una camminata sui sentieri di Dario Capolicchio, innamorato delle sue montagne e membro attivo del CAI. Per lui, in occasione del 27 maggio 2020, i volontari del Presidio hanno realizzato il video "In ricordo di Dario Capolicchio".
Così come, dall’altra parte della penisola, a Catania, altri studenti animano le attività del Presidio universitario di Libera, intitolato a questo giovane di 22 anni innamorato della bellezza della vita.
Proprio insieme ai giovani ha sempre camminato Guerino Capolicchio, papà di Dario, che ha combattuto tutto la vita per tenere viva la memoria di suo figlio e per chiedere verità e giustizia. Ha camminato fianco a fianco con i volontari di Libera, per consegnare ai giovani il ricordo di suo figlio e per incoraggiarli all’impegno e alla responsabilità. Negli ultimi anni prima di morire, aveva raccolto tutte le sue memorie sulla strage in un quaderno, scritto a mano, che ha regalato ai ragazzi del Presidio di Sarzana. Nella prefazione scrive:
"Esserci, per noi, significa innanzitutto assumere la responsabilità di non chiudere gli occhi e reagire di fronte alla denuncia sulla presenza ed il radicamento delle mafie nella nostra regione, ma con ramificazioni, come è noto, fin dentro il centro di Roma. Essere al fianco di chi combatte ogni giorno la penetrazione delle mafie nel nostro territorio, spesso scelto come piattaforma logistica per il riciclaggio di capitali che si affiancano alle tradizionali pratiche criminali. Quello che dobbiamo dire, in fondo, è molto semplice:
La mafia non è un problema degli altri. La mafia riguarda noi: le nostre scelte, il nostro impegno, la nostra coerenza.
Libera, in questi anni ci ha insegnato che le mafie possono essere battute solo attraverso un impegno quotidiano, che non ammette distrazioni e che deve vedere coinvolta tutta la società, e non essere solo affidato all'erosimo dei singoli.
In particolare saluto con affetto e ringrazio le centinaia di vittime della mafia che, anche grazie a Libera, hanno trovato la forza di risorgere dal loro dramma per una ricerca di giustizia vera, trasformando persino il dolore in uno strumento concreto, non violento, di impegno e di azione di pace". (Guerino Capolicchio, 14 dicembre 2017)
A Sarzana, l’ultima apparizione pubblica di Guerino, il 21 marzo del 2018, in occasione della Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie.
Dite la verità senza paura, siate divoratori di conoscenza, perché il sapere è il primo strumento per combattere le mafie