Ci sono due momenti, in quella terribile notte tra il 26 e il 27 maggio del 1993, che raccontano plasticamente la barbarie della mafia stragista: il primo momento è quello dell’1.04; il secondo, quello delle 4.33. Un’onda d’urto di odio e violenza, che ha ucciso un’intera famiglia e un ragazzo di 22 anni, seminando distruzione e morte dove, fino a un attimo prima, c’era vita e bellezza.
Due momenti nei quali le lancette di tutto il Paese si sono fermate, proprio come il fiato degli italiani, sospeso di fronte all’assurdità della storia che i giornalisti stavano raccontando in quelle ore tragiche. La storia di un’intera famiglia spazzata via, padre, madre e due bambine. La storia di una delle pagine più buie della vita della Repubblica. La storia di un colpo durissimo inflitto al cuore dello Stato, in uno dei luoghi più rappresentativi della cultura e dell’arte. La storia di Fabrizio, Angela, Nadia e Caterina, ma anche quella del giovane studente di architettura Dario Capolicchio. La storia di un Paese sgomento di fronte a una barbarie senza precedenti e che però neppure si sarebbe fermata. Il volto più brutale di una mafia che ha scelto lucidamente di prendere la via del terrorismo.
Fabrizio Nencioni e Angela Fiume erano marito e moglie. Lui era nato in Val di Pesa, a una trentina di chilometri da Firenze, l’11 novembre del 1954. Lei era nata a Napoli, il 9 novembre 1957. Si erano sposati quando Angela era poco più che una ragazza. Un amore sincero il loro, cui era seguito un matrimonio felice. “Una famiglia bellissima”, raccontarono ai giornalisti alcuni amici quella notte terribile.
Fabrizio aveva vinto il concorso per entrare nel Corpo della Polizia Municipale di Firenze nel 1978. Aveva 24 anni e, diventato ispettore, fu assegnato al distaccamento di Porta Romana. Era un ragazzo brillante, dalla battuta sempre pronta, appassionato di sci.
Anche lei molto giovane, Angela aveva raggiunto la tranquillità di un posto di lavoro stabile, assunta come custode della Torre dei Pulci, un edificio storico del centro di Firenze, in via dei Georgofili 4 angolo via Lambertesca, e con un accesso anche dal piazzale degli Uffizi. Il cuore del nucleo storico della città. E del resto quello non era un edificio qualunque. Nel 1932 la torre era stata individuata infatti come sede dell’Accademia dei Georgofili, la storica istituzione fiorentina nata nel 1753 dallo spirito illuministico per promuovere, tra studiosi e proprietari agrari, gli studi di agronomia, selvicoltura, economia e geografia agraria. Conquistato quel posto da custode, nel 1981 Angela aveva messo piede per la prima volta al terzo piano della Torre dei Pulci, dove si era trasferita con suo marito. Qui, in questa casa nel cuore di Firenze, era nata la loro prima bambina, Nadia, il 4 novembre del 1984. Vivere in quella casa un po’ strana le faceva sembrare tutto un po’ una favola. Una favola divenuta ancor più magica quando, nove anni più tardi - il 6 aprile del ’93 – con mamma e papà, aveva condiviso la gioia per l’arrivo di una sorellina. Caterina la chiamarono. Una famiglia bellissima, con una casa magica nel cuore del centro storico fiorentino, a due passi dalla Galleria degli Uffizi e dall’Arno, in uno dei luoghi più belli e più ricchi di storia e di bellezza del Paese. Erano felici.
Le stragi del ‘92
Ma sono mesi difficili quelli per l’Italia, ancora sconvolta dalle stragi di Capaci e via D’Amelio. Nel 1992 gli italiani hanno fatto esperienza della capacità di Cosa nostra di colpire il Paese uccidendo i suoi figli migliori. Servitori dello Stato spazzati via senza pietà dal tritolo delle bombe mafiose. Una stagione di morte e violenza inaudita, alla quale le Istituzioni repubblicane reagiscono inasprendo colpendo i mafiosi e sottoponendoli a un regime carcerario ancora più duro. Quel 41 bis che isola in completamente gli uomini di Cosa nostra e che, agli uomini di Cosa nostra, proprio non va giù. Il 15 gennaio del 1993 l’arresto di Totò Riina segna una vittoria importante dello Stato. Il capo dei capi viene arrestato a Palermo dopo 24 anni di latitanza. Il Paese vive con sollievo quel successo, perché si rende conto che lo Stato c’è e lavora per dare giustizia alle vittime innocenti. Sono passi in avanti di fronte ai quali, però, la mafia non resta inerme. E reagisce. Reagisce nella maniera più bestiale che si possa immaginare. Qualcuno suggerisce ai boss che non basta più colpire i magistrati, che bisogna perseguire una strategia nuova, che generi terrore, che colpisca i simboli del Paese, che lo metta in ginocchio e lo costringa a rivedere la sua determinazione nella lotta alla mafia. E così, la brutalità di Cosa nostra incrocia tragicamente il destino di questa famiglia felice. A Firenze, a più di mille chilometri da quella Palermo teatro di guerra.
27 maggio 1993
È la notte tra mercoledì 26 e giovedì 27 maggio 1993. Per la famiglia Nencioni è l’ora di riposare. Angela è ancora in permesso di maternità ma il suo lavoro come madre non è affatto meno faticoso, anzi. L’indomani mattina lei e suo marito si sarebbero alzati per affrontare un’altra giornata e mai, neanche nel peggiore dei loro incubi, avrebbero potuto immaginare quello che, di lì a poco, sarebbe accaduto, lasciando senza fiato tutta Italia.
In via dei Georgofili, a due passi dalla Torre dei Pulci, è parcheggiato un Fiat Fiorino. I mafiosi lo hanno rubato in città diversi giorni prima. Lo hanno portato a Prato, una ventina di chilometri più a nord, e qui lo hanno sistemato nel garage di Antonio Messana. Lui ha sempre detto di essere stato costretto a cedere ai boss, che non sapeva cosa stavano progettando. Ma i giudici hanno sentenziato che non poteva non sapere che nel suo garage gli uomini di Cosa nostra avevano imbottito quel furgone di più di 250 chili di tritolo, T4, pentrite e nitroglicerina. Una miscela esplosiva devastante. Pentrite e T4 sono classificati come i superesplosivi per eccellenza, dalle caratteristiche eccezionali e dalla forza dirompente. All’1.04 Firenze ne fece esperienza diretta.
La deflagrazione svegliò la città, mettendola di fronte a una tragedia inimmaginabile e distruggendo abitazioni, palazzi, opere d’arte. La Galleria degli Uffizi ne uscì profondamente ferita, con il 25% delle opere d’arte conservate al suo interno gravemente danneggiata. La Torre dei Pulci sventrata e una devastazione che interessò un’area di 12 ettari. Pochi minuti dopo l’area è piena di ambulanze, soccorritori e forze dell’ordine. Nessuno sa esattamente cosa sia accaduto, nessuno neanche immagina si tratti di quello che poi, con il passare delle ore, si sarebbe appurato. Tra le persone accorse sul posto c’è Franco Scaramuzzi, allora Presidente dell’Accademia. Grida ai soccorritori che sotto le macerie della torre c’è senz’altro la famiglia Nencioni. Ne è certo, perché li ha sentiti al telefono poche ore prima. Alle 4.33, dall’angolo di via Lambertesca, un vigile del fuoco corre verso l’ambulanza portando tra le braccia un fagottino bianco. Consegna quel corpicino ai medici, che fanno di tutto per rianimarlo. Caterina, 50 giorni di vita, è la prima vittima ad essere estratta dalle macerie. Era stata battezzata la domenica precedente. Nelle ore successive toccherà a Nadia, Fabrizio, Angela. Avevano rispettivamente 39, 36 e 8 anni. E toccherà anche a Dario Capolicchio, uno studente di 22 anni di Sarzana, trasferitosi a Firenze per studiare architettura. Dario è morto bruciato dalle fiamme che hanno avvolto il suo appartamento, al terzo piano di un edificio proprio di fronte alla Torre dei Pulci. Poco più tardi, il cratere lasciato dall’esplosivo - tre metri di diametro e due di profondità - leverà ogni dubbio: era stato un attentato, una strage pianificata. I feriti furono 48.
Cosa nostra aveva intrapreso la strada del terrorismo mafioso, colpendo luoghi simbolo del Paese e provocando panico e morte tra cittadini inermi, per destabilizzare la democrazia. Una strategia che avrebbe avuto altre tappe e che avrebbe provocato altro dolore e altro sangue innocente: via Palestro a Milano, le bombe di Roma, il fallito attentato allo Stadio Olimpico. Anni tremendi e drammatici, i più bui della storia dell’Italia repubblicana.
Vicenda giudiziaria
Negli anni successivi, la ricostruzione di quanto avvenuto quella notte terribile a Firenze - città, peraltro, da cui era partito alla volta di Palermo Antonino Caponnetto, capo del pool antimafia negli anni degli attentati a Falcone e Borsellino - è avvenuta anche grazie alle dichiarazioni di diversi collaboratori di giustizia. Tra questi, in particolare, Gaspare Spatuzza. Nel 2008, il boss affiliato alla famiglia di Brancaccio racconta ai magistrati del suo coinvolgimento nella strage dei Georgofili. Dice che quella strage era stata decisa in una riunione alla quale aveva partecipato lui stesso, alla presenza di altri boss di primissimo livello, come Giuseppe Barranca, Francesco Giuliano, Giuseppe Graviano, Francesco Tagliavia e Matteo Messina Denaro. Svela i dettagli della preparazione dell’attentato: l’esplosivo estratto da alcuni residui bellici e fornito dal pescatore Cosimo D’Amato, il trasferimento a Prato, la preparazione dell’autobomba. I boss avrebbero individuato l’obiettivo sfogliando un dépliant turistico.
Il 12 novembre del 1996 si apre il processo e il 6 giugno del 1998 arriva la sentenza di primo grado: 14 ergastoli e altre condanne varie. Ad esse si aggiungono, il 21 gennaio del 2000, l’ergastolo a Totò Riina, all’esito di un processo stralcio. Il 13 gennaio del 2001 la sentenza di appello e poi, il 6 maggio del 2002, a quasi dieci anni da quella notte, la pronuncia della Cassazione che conferma i 15 ergastoli e le altre pene. Il boss Matteo Messina Denaro - all’epoca ancora latitante e arrestato dopo una fuga di 30 anni il 16 gennaio del 2023 - è tra le menti di quella strage terribile. Che però, dicono i giudici, avrebbe anche altre “menti fini”. Una pista, quella del coinvolgimento di altri ambienti fuori dalla mafia, a lungo sostenuta dai familiari delle vittime, senza mai conferme. Antonio Messana, il proprietario del garage di Prato, viene rinviato ad altro processo e condannato a 21 anni il 13 marzo del 2003.
Memoria viva
L’impatto della strage di Firenze sulla cultura di massa è stato ed è tuttora enorme. Siamo di fronte ad una delle pagine più drammatiche della storia repubblicana. Per tenerne viva la memoria e continuare a chiedere verità e giustizia, nel luglio del 2011 è nata l’Associazione tra i Familiari delle Vittime della Strage di Via dei Georgofili.
Per le vittime, per noi che abbiamo vissuto questo orrore sulla nostra pelle e su quella dei nostri familiari, Memoria e Verità sono due concetti intimamente connessi e non possiamo concepire l’una senza l’altra. Perciò ci batteremo sempre affinché su questa vicenda venga fatta piena luce e il ricordo delle vittime innocenti possa limpidamente vivere nelle coscienze, non inquinato da lati oscuri, misteri irrisolti, responsabilità e connivenze non accertate e non perseguite. Lo abbiamo detto e continueremo a dirlo: non c’è memoria senza verità.
All’operazione che ha portato all’arresto di Matteo Messina Denaro il 16 gennaio del 2023, dopo tre decenni di latitanza, magistrati e militari hanno dato il nome di “Operazione Tramonto”. Tramonto è il titolo di una poesia scritta sulla pagina di un quaderno da Nadia Nencioni, datata 24 maggio 1993:
Il pomeriggio se ne va,
il tramonto si avvicina,
un momento stupendo,
il sole sta andando via (a letto).
È già sera tutto è finito
Non so dire se qualcuno di loro, dei carabinieri, scegliendo la parola Tramonto abbia voluto ricordare le bambine e aver voluto richiamare attenzione sulle vittime dell'attentato di Firenze o se si sia voluto anche interpretare qualcosa di più. Questo non lo so, ma so che al di là di tutto, facendo così, c'è stato un pensiero di investigatori e inquirenti dedicato alla strage di Firenze. Aver usato la poesia Tramonto di Nadia come titolo dell'operazione è un simbolo, un bel segnale che viene dato a tutti, non è solo una carezza alle due bambine, nostre nipoti.
Alla famiglia Nencioni, e in particolare a queste due bambine, sono intitolati, tra l’altro, i Presidi di Libera a Rivalta (Torino), Empoli (Firenze) e Foligno (Perugia).