Stefano Li Sacchi nasce il 2 giugno del 1923 a Geraci Siculo, un piccolo paese agricolo adagiato sulle pendici delle Madonie, in provincia di Palermo.
La sua è una famiglia umile, di gente onesta e grandi lavoratori. È il quarto di cinque figli e Stefano impara da subito i valori della condivisione e del rispetto. Quando è ancora giovane è costretto a interrompere gli studi per aiutare economicamente la sua famiglia: eppure questo non gli pesa. Ogni mattina va a lavorare nei campi con il sorriso, felice di poter dare il suo contributo. Ha una grande voglia di vivere, è sempre allegro e soprattutto sempre disponibile nei confronti degli altri.
In quegli anni conosce una ragazza del posto, Nunziata, di cui si innamora. Tra i due giovani nasce così un amore vero e genuino che li porterà, presto, a convolare a nozze. Nel frattempo continua a lavorare duramente per non far mancare nulla alla sua giovane moglie fino a quando, nel 1951, insieme decidono di trasferirsi a Palermo per trovare un lavoro migliore e poter vivere più serenamente.
Con Nunziata si dedica a crescere ed educare la loro nipotina, Lucia, che sarà per la giovane coppia come una figlia.
Stefano è un ragazzo volenteroso, serio e garbato e così trova facilmente lavoro come portiere in uno stabile: il condominio di via Pipitone Federico. Da subito si fa ben volere da tutti i condomini. È sempre disponibile ma soprattutto di buon umore; non fa mai mancare un sorriso o una parola buona a nessuno. Inoltre, svolge il suo lavoro con passione, serietà e impegno.
In poco tempo diventa un punto di riferimento per tutti i condomini, che nutrono nei suoi confronti simpatia e apprezzamento.
E in quello stesso condominio abita anche un giovane giudice, caparbio e determinato: Rocco Chinnici.
La Palermo degli anni ‘70
Sono i primi anni Settanta, anni complessi per la città di Palermo che inizia a confrontarsi con l'aggressione militare della mafia. Il giudice Rocco Chinnici è chiamato a occuparsi dei casi più delicati inerenti alla mafia. Gli viene assegnato il primo grande processo di mafia, quello per la "strage di viale Lazio", e con il susseguirsi degli anni e dell’esperienza acquisita ha una grande intuizione: creare, nel suo ufficio, dei veri e propri gruppi di lavoro, dando quindi una prima forma a ciò che poi diventerà il pool antimafia. Accanto a sé vuole - tra gli altri - due giovani magistrati: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, con cui avvia le prime indagini che sfoceranno nei più importanti processi antimafia della storia siciliana. A seguito dei grandi risultati ottenuti, il giudice Chinnici diventa Consigliere Capo del Tribunale di Palermo e gli verrà assegnato il servizio di scorta.
Quello stesso giudice ha stretto un rapporto di stima e affetto con Stefano. I due, seppur diversi, condividono le origini umili e contadine e il profondo rispetto per l’altro. Chinnici si intrattiene spesso e volentieri a parlargli delle problematiche condominiali o degli argomenti più disparati. Stefano ci tiene tanto a quel rapporto amichevole che ha instaurato con il giudice; lo ammira sia come persona sia per il lavoro che porta avanti.
Anche quando a Roco viene assegnato il servizio scorta il loro rapporto non cambia. Stefano non si fa affatto condizionare dalla paura; lo accompagna quasi sempre fino allo sportello dell’auto blindata per continuare a parlare con lui più a lungo possibile e salutarlo.
Il 29 luglio del 1983
È il 29 luglio del 1983. Sono le 8 del mattino e, come ogni giorno, sotto casa di Rocco, in via Pipitone Federico, ad aspettarlo ci sono i ragazzi della sua scorta: il maresciallo Mario Trapassi, l’appuntato Salvatore Bartolotta e l’autista Giovanni Paparcuri.
L’aria è calda e il sole già alto illumina le vie di una Palermo così bella, ma che di lì a breve conoscerà il periodo delle autobombe e delle stragi. Mario e Salvatore parlano tra loro, si scambiano qualche battuta in attesa che il giudice arrivi. Si guardano attorno, sono attenti, come sempre, ma non sanno che il pericolo arriverà da dove nessuno, sino a quel momento, può immaginare. Davanti a quel portone c‘è infatti una Fiat 126 verde, parcheggiata lì molto prima dell’arrivo della scorta, imbottita con ben 75 kg di esplosivo.
Non appena il giudice arriva, saluta Stefano, come consuetudine. I due si scambiano due sorrisi, parlano degli impegni della giornata e, quando il giudice si accinge a varcare il portone, Stefano, come sempre, lo segue per accompagnarlo. Sembra tutto normale, come ogni mattina ma non sanno che in quel preciso istante, qualcuno azionerà quell’ordigno che spazzerà via in un attimo quattro vite. Moriranno infatti sul colpo Stefano, Rocco, Mario e Salvatore.
L’unico a salvarsi sarà, miracolosamente, Giovanni, che era al suo posto, alla guida di quell’auto che avrebbe dovuto accompagnare il giudice a lavoro. Saranno comunque gravissime le ferite, nel corpo e nell’animo, da lui riportate.
Quell’autobomba sarà solo la prima delle tante autobombe che verranno tristemente utilizzate nelle stragi degli anni ‘90 a Palermo, segnando così l'ulteriore e drammatico inasprirsi della strategia mafiosa ai danni di quanti – magistrati, forze dell’ordine, imprenditori, cittadini comuni - proveranno a ribellarsi ed a fare la propria parte. Quella strage lascerà un segno indelebile nell’opinione pubblica: “Palermo come Beirut” titoleranno i giornali all’indomani dell’esplosione.
Memoria viva
Il nome di Stefano è ricordato, insieme alle oltre 1000 vittime innocenti delle mafie che ogni anno in occasione del 21 marzo, la Giornata della Memoria e dell'Impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie, riecheggiano in tanti luoghi. Per noi Stefano ha un vero e proprio diritto al ricordo, un diritto che restituisce “dignità” a ogni nome che ricordiamo, che rappresenta la promessa a Stefano che non dimenticheremo la sua storia, i suoi progetti di vita, portando con noi i suoi sogni e rendendoli vitale pungolo del nostro impegno quotidiano.