14 settembre 1990
Foggia (FG)

Nicola Ciuffreda

La sua vicenda di vita è emblematica della storia della città di Foggia perché quello dell'edilizia è stato per molti anni il settore di maggiore sviluppo economico. Ma la risposta di Nicola è significativa perché è stato lui per primo, con il suo rifiuto di pagare, a togliere il velo sul sottobosco mafioso che preme e distorce il mercato delle case a Foggia. Nicola Ciuffreda di fatto, con la sua vita ha difeso la possibilità di lavorare, di fare imprenditoria a Foggia come uomini e donne liberi.

Nicola Ciuffreda, primo di 5 figli, nasce a Mattinata il 14 luglio del 1937, da una modesta famiglia contadina. Cresce in quel piccolo paese della provincia di Foggia, porta del Gargano, tra l’azzurro del mare e il verde della natura e degli olivi che popolano la vegetazione circostante, ma quelli sono anni difficili, anni in cui esplode il secondo conflitto mondiale e il suo papà è chiamato alle armi, lontano da casa. Così Nicola, da figlio maggiore, fin da ragazzino sente la responsabilità di aiutare economicamente la sua famiglia e comincia a lavorare. Si trasferisce a Manfredonia dove trova un lavoro stabile come operaio, ma ha grandi speranze per il futuro. Dopo qualche anno decide di far fruttare quel piccolo appezzamento di uliveto che la sua famiglia ha nelle campagne di Mattinata e comincia così a produrre e commerciare olio. Nel 1968 con il piccolo capitale racimolato acquista la prima azienda agricola sulla strada tra Foggia e Biccari; ne è orgoglioso, quasi incredulo, perché sta riuscendo a realizzare i suoi sogni. Lì Nicola costruirà il suo capannone e il frantoio ed è proprio in questo momento che scopre la sua passione per l’edilizia. È un uomo ingegnoso e pieno di sogni Nicola e veder nascere un edificio dal nulla lo entusiasma. Di lì a poco conosce Adriana di cui si innamora subito. I due presto coronano il loro sogno d’amore sposandosi e allargando la famiglia; da quell’amore nasceranno quattro figli, Luigi, Giuseppe, Roberto e Angela.
Nel frattempo Nicola, un papà allegro e affettuoso, mosso proprio dal desiderio di garantire un futuro sereno a tutta la famiglia e di inseguire la sua passione, decide di reinvestire il piccolo capitale accumulato, impiegandolo in modo oculato nell’edilizia, settore che proprio in quegli anni a Foggia comincia a espandersi. Con sacrificio e umiltà inizia a lavorare prima in provincia, a Manfredonia, dove realizza il primo fabbricato nel 1972, poi a Lucera, per poi giungere a Foggia. 
Nicola lavora con responsabilità; chiede prestiti alle banche, firma contratti e si impegna a rispettare le scadenze. Si alza ogni mattina alle sei per recarsi in cantiere. È rispettoso dei suoi operai, apprezza il loro lavoro, li incoraggia, sta con loro nel cantiere, è il primo ad arrivare e l’ultimo ad andare via la sera. I suoi figli intanto crescono, Luigi, il più grande vuole studiare ingegneria e si trasferisce così a Napoli. Giuseppe e Roberto invece vogliono lavorare con lui e Nicola non li porta in ufficio ma li mette subito a fare un lavoro manuale, perché sostiene che non si può dirigere bene, non si può essere un buon datore di lavoro, se non si conosce profondamente il lavoro. Dopo una lunga gavetta Giuseppe diventa il braccio destro del papà, mentre Roberto si occupa dell’amministrazione e sta perciò di più in ufficio. Angela invece vuole diventare architetto e si trasferisce a Pescara per iniziare l’università.

Video testimonianza dei figli di Nicola Ciuffreda

Le richieste estorsive

Questa normalità viene però interrotta, improvvisamente, agli inizi del 1990. In casa di Nicola squilla il telefono, chiedono di lui, ma nessuno può immaginare cosa sta per accadere. Dall’altra parte del telefono una voce maschile chiede un’ingente somma di denaro per poter lavorare “tranquillamente”. È la mafia locale, che non può accettare che Nicola apra cantieri e faccia affari senza cedere loro una parte del guadagno e avanza così la sua richiesta estorsiva. Nicola si sente per un attimo spaesato, tramortito ma prende subito una decisione, andrà dai Carabinieri a denunciare l’accaduto. Si rivolge al Comando dei Carabinieri di Foggia denunciando l’accaduto;  i telefoni di tutta la famiglia finiscono sotto controllo e i Carabinieri vanno e vengono da casa di Nicola, per controllare e provare a proteggere lui e la sua famiglia. I figli di Nicola devono uscire e tornare a casa sempre accompagnati dai Carabinieri. Inizia così un periodo surreale per quella famiglia normale e umile. Nicola forse sottovaluta la situazione ma una cosa è certa: lui vuole rimanere un uomo libero!
Da quel momento si susseguono biglietti, telefonate appena lui rientra a casa, pallottole di pistola chiuse in buste, riferimenti alle abitudini dei figli. Ogni volta che in ufficio o a casa squilla il telefono sono subito attimi di terrore, ma lui riesce sempre a tranquillizzare la famiglia. Nicola è una persona allegra e riesce a rimanerla anche in quei mesi, nonostante l’angoscia e la preoccupazione per la sua famiglia lo logorino dentro. 
Continua a lavorare e nell’agosto del 1990 apre un nuovo cantiere a Foggia, in via Eugenio Masi, adiacente a piazza Ugo Foscolo. La mafia non può accettarlo: quell’uomo non solo non cede alle richieste estorsive, alle intimidazioni, alle minacce, ma continua a lavorare e così viene decisa una “punizione” esemplare, per mostrare a tutti gli imprenditori chi comanda davvero.

14 settembre 1990

È il 14 settembre 1990, come tutte le mattine, Nicola arriva in cantiere con suo figlio Giuseppe prima dell’arrivo degli operai, ma nessuno può immaginare che quella non sarà una giornata come tutte le altre. Sono appena giunti sul cantiere, imboccano la porticina di zinco mettendo a punto gli ultimi dettagli dei lavori di sterramento che dovranno dirigere quella mattina. Arrivano i primi operai, il braccio della pala meccanica è ancora immobile in attesa degli ordini quando, all’improvviso, accanto al recinto metallico del cantiere sfreccia una moto con a bordo due giovani incappucciati, con il viso nascosto dietro il casco. La moto frena bruscamente e uno dei due spara puntando dritto verso Nicola, scaricandogli addosso numerose pallottole. Otto per la precisione i proiettili sparati a bruciapelo che lo raggiungono alla testa, al collo, al torace, all'addome e alle gambe. Una sequenza micidiale di colpi, senza scampo. I due fuggono via rendendosi irreperibili mentre Nicola resta lì, a terra, tra le braccia di suo figlio Giuseppe e dei suoi operai. Le sue condizioni appaiono subito disperate: a nulla servirà la corsa verso gli Ospedali Riuniti di Foggia. Morirà poco dopo, a 53 anni, lasciando nello sconforto e nel dolore la sua amata famiglia. 

Vicenda giudiziaria

Il killer ha sparato per uccidere. Su questo punto gli inquirenti non hanno alcun dubbio. Se avesse voluto soltanto intimidire, sarebbe stato sufficiente mirare basso, sparare contro le gambe, invece, l'omicida ha svuotato il caricatore indirizzando la canna verso organi vitali. Nicola Ciuffreda non doveva sopravvivere.
“Gli assassini hanno sparato otto colpi con la precisa volontà di uccidere e il dolore rimane vivo per anni”. Roberto Ciuffreda – figlio di Nicola
Il nome di Nicola viene inserito nella “sentenza Panunzio” dove, in maniera evidente si sottolinea  che la sua uccisone è stata decisa dalle stesse persone che hanno poi, due anni dopo, ordinato di freddare un altro imprenditore foggiano, Giovanni Panunzio. Una sentenza questa importante per la città di Foggia perché riconosce, per la prima volta, la natura mafiosa della “Società Foggiana”, che già dalla fine degli anni ‘80 si è infiltrata nell’economia sana della città, in particolare nell’edilizia.

Memoria viva

Dalla ricostruzione storica del contesto territoriale emerge che Nicola Ciuffreda è il primo imprenditore edile a pagare con la vita il suo rifiuto di cedere al ricatto della “Società” foggiana. Il presidio cittadino di Libera di Foggia ha così deciso di intitolarsi alla sua memoria.

Mio padre fu ucciso per non aver voluto pagare ed erano altri tempi, perché dopo la sua morte siamo rimasti soli. Non ci fu alcuna manifestazione, sembravamo quasi degli appestati. Le istituzioni non c’erano, gli stessi cittadini non erano presenti forse anche per paura, per questo vedervi qui oggi mi rende felice. Don Ciotti e Libera, di cui faccio parte, in poco tempo è riuscito a fare tutto questo, ha scosso gli animi di tutti voi, e ora siete qui per le vittime della mafia, per le ingiustizie che hanno subito, ma soprattutto per rivendicare il diritto di vivere in questa città. Qui vogliamo vivere, e lo vogliamo fare nella sicurezza, affinché i nostri figli rimangano qui e affinché chi è andato via possa tornarci; siamo qui per reclamare il diritto al lavoro, quello sereno e onesto, perché questa è la nostra terra, una terra stupenda che ci stanno togliendo poco a poco facendola morire.
Roberto - figlio di Nicola