C’è un elemento ricorrente nella storia di questo prete di periferia che si era messo in testa di salvare i bambini da un destino che pareva segnato. Un elemento che attraversa tutta l’esistenza, l’opera, l’azione di Pino Puglisi, la sua attività di educatore e insegnante, la sua missione di sacerdote, il suo impegno antimafia. Un elemento che ritorna, stampato sul suo viso, persino nel momento del suo omicidio e poi, dopo la morte, su quel volto esanime ma sereno. Il sorriso. Un sorriso che ha vinto su tutto: sul colpo di pistola che lo ha ucciso, sulla barbarie dei suoi killer, sulla mafia, perfino sulla morte. Con quel sorriso don Pino ha vinto su tutto.
Era una famiglia modesta quella in cui Pino Puglisi era nato, il 15 settembre del 1937. Papà Carmelo era un calzolaio. Un uomo umile e semplice. Dal suo matrimonio con Giuseppa Fana - che di mestiere faceva la sarta - era nato Giuseppe, nel cortile Faraone di quel quartiere di Brancaccio, nella zona a sud-est di Palermo, nel quale si dipanerà la sua intera esistenza.
Nel 1953, Giuseppe fa la scelta che segnerà tutta la sua vita: appena sedicenne entra nel Seminario arcivescovile di Palermo. Vuole fare il prete, assecondando quella vocazione a seguire le orme di Gesù sulla strada dell’incontro con l’altro, del servizio al prossimo. Viene nominato sacerdote dal Cardinale Ernesto Ruffini il 2 luglio del 1960, a 22 anni, e subito comincia un percorso in cui, agli impegni ecclesiastici, affianca un servizio instancabile per le strade, tra la gente, accanto a chi fa più fatica.
È convinto, don Pino, che l’annunzio di Gesù Cristo debba essere portato sul territorio per diventare carne, per incontrare la vita vera delle persone. Sono gli anni del Concilio Vaticano II, che si apre a Roma per volere di Giovanni XXIII l’11 ottobre del 1962 e che segna di fatto una nuova apertura della Chiesa al mondo. Don Pino è profondamente interessato a questo processo riformatore e crede fermamente nei valori dell’ecumenismo e del rinnovamento, nel ruolo delle chiese locali e in quello dei dei laici.
Mosso da questi convincimenti, che gli fanno amare una Chiesa aperta e militante, inizia il suo percorso sacerdotale. Nel 1961 è vicario alla parrocchia del Santissimo Salvatore di Settecannoli, proprio accanto a Brancaccio; poi, nel ’63, cappellano dell’orfanotrofio Roosevelt e vicario di Maria Santissima Assunta a Valdesi.
Comincia a sperimentare, accanto all’impegno sacerdotale, un impegno pastorale intensissimo, rivolto in particolare ai più giovani. Si convince sempre di più che con l’attività educativa si può davvero cambiare il destino delle persone, aiutarle a crescere come credenti ma, soprattutto, come uomini e come cittadini.
Sono anni di grande lavoro e di dure battaglie sociali, che non si fermeranno - e anzi si svilupperanno in nuove direzioni - dopo il suo trasferimento a Godrano, un paese di mille anime ai piedi di Rocca Busambra, teatro di una sanguinosa faida tra famiglie mafiose. Uno scontro fatto di morte e violenza che don Pino riesce a sedare con la forza e il coraggio della sua opera di evangelizzazione.
A Godrano questo sacerdote ostinato e coraggioso rimarrà fino alla fine di luglio del 1978, per poi ricoprire numerosi altri incarichi fino al 1990: diventa prorettore del Seminario minore di Palermo, poi direttore del Centro diocesano per le vocazioni, responsabile del Centro regionale per le vocazioni e membro del Consiglio nazionale, educatore di diverse associazioni cattoliche tra cui l’Azione Cattolica e la FUCI. Senza mai dimenticare un’altra strada, percorsa con coerenza e passione per tutta la vita: quella dell’insegnamento e della scuola. Don Pino insegnerà matematica e religione per 30 anni, fino al giorno della sua morte, passando per diverse scuole della città, dall’Istituto professionale Einaudi al Liceo classico Vittorio Emanuele II. Una missione, anche questa.
Il ritorno a Brancaccio
Il 1990 è un anno cruciale perché il 29 settembre di quell’anno don Pino ritorna a Brancaccio. Gli viene affidata la parrocchia di San Gaetano, nel cuore di un quartiere difficile, dominato dalla potente famiglia di mafia dei Graviano, legata al boss Leoluca Bagarella.
A Brancaccio non c’è nulla, in particolare per i più giovani, per i bambini, per gli adolescenti: non un luogo di incontro, non un’opportunità di vita, forse neanche più la speranza. Don Pino capisce che c’è bisogno di uno scatto ulteriore di impegno e coraggio. Ingaggia con i mafiosi una vera e propria battaglia, a viso aperto.
La mafia diventa l’oggetto delle sue omelie, molte delle quali pronunciate all’aperto, sul sagrato della chiesa. Vuole che tutti vedano come la chiesa esce dalla sagrestia per diventare un punto di riferimento sul territorio. Vuole che tutti ascoltino, a cominciare dai mafiosi. Vuole che tutti capiscano che quella strada non porta da nessuna parte. Si mette in testa di togliere dalla strada i ragazzi. Li coinvolge in attività educative e ricreative, li fa giocare, li fa studiare, costruisce comunità. È una strategia efficace, che comincia a dare frutti importanti e che richiama l’attenzione dei mafiosi, che mal digeriscono il modo di fare di quel parrino che non si fa i fatti suoi.
Intanto, nel 1992, don Pino viene nominato direttore spirituale del Seminario arcivescovile. Questo mentre l’attenzione dei Graviano, via via, si trasforma in aperta ostilità, forse anche sulla spinta del malcontento di Bagarella, che pare rimproverasse ai boss di Brancaccio di sottovalutare il problema. Cominciano le minacce, le intimidazioni, gli avvertimenti. Ma don Pino non ne parla con nessuno e non si ferma.
Il 29 gennaio del 1993, don Pino compie - da vivo - la sua ultima piccola grande rivoluzione nel quartiere: l’inaugurazione del Centro Padre Nostro per la promozione umana e l’evangelizzazione. Il centro diventa il cuore di tutto il suo impegno educativo, culturale, pastorale. E, naturalmente, del suo impegno antimafia. Forse la goccia che fa traboccare il vaso.
Il 15 settembre del 1993
Il 15 settembre del 1993 era il giorno del cinquantaseiesimo compleanno di don Pino. Lo aveva trascorso come sempre, tra la parrocchia, il centro, i suoi impegni pastorali, i suoi ragazzi. In tarda serata, a bordo della sua Fiat Uno bianca, si diresse verso la sua casa di piazzale Anita Garibaldi, poco più di un chilometro dalla parrocchia. Non più di cinque minuti dopo, era sotto casa. Parcheggiò l’auto e scese, incamminandosi verso il portone d’ingresso. Ciò che accadde in qui drammatici momenti lo ha raccontato ai magistrati Salvatore Grigoli: “Il padre si stava accingendo ad aprire il portoncino di casa. Aveva il borsello nelle mani. Fu una questione di pochi secondi: io ebbi il tempo di notare che lo Spatuzza si avvicinò, gli mise la mano nella mano per prendergli il borsello. E gli disse piano: padre, questa è una rapina. Lui si girò, lo guardò, sorrise - una cosa questa che non posso dimenticare, che non ci ho dormito la notte - e disse: me l’aspettavo. Non si era accorto di me, che ero alle sue spalle. Io allora gli sparai un colpo alla nuca”.Don Pino Puglisi morì così, sorridendo ai suoi assassini. Il primo a soccorrerlo fu un vicino di casa. Ma lui era già morto, sorridendo.
La notizia dell’assassinio del prete di Brancaccio corse per tutta la città e arrivò fino in Vaticano. Nei giorni successivi, l’Osservatore romano definì don Puglisi “una sfera che, lontano dalla luce dei riflettori, ha rischiarato le coscienze”. E Giovanni Paolo II, la mattina del 17 settembre - giorno dei funerali di don Pino - intervenne dalla Verna, il monte dove San Francesco ricevette le stimmate: “In questo luogo di pace e di preghiera, non posso che esprimere il dolore con il quale ho appreso ieri mattina la notizia dell’uccisione di un sacerdote di Palermo, don Giuseppe Puglisi. Elevo la mia voce per deplorare che un sacerdote impegnato nell’annuncio del Vangelo e nell’aiutare i fratelli a vivere onestamente, ad amare Dio e il prossimo, sia stato barbaramente eliminato. Mentre imploro da Dio il premio eterno per questo generoso ministro di Cristo, invito i responsabili di questo delitto a ravvedersi e a convertirsi. Che il sangue innocente di questo sacerdote porti pace alla cara Sicilia”.
Quella Sicilia dove, dalla Valle dei Templi di Agrigento, lo stesso Giovanni Paolo II aveva pronunciato, il 9 maggio di quel 1993, parole nette e chiare contro la mafia, come mai era accaduto prima:
Dio ha detto una volta: non uccidere! Non può l’uomo, qualsiasi, qualsiasi umana agglomerazione, mafia, non può cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio! Questo popolo, popolo siciliano, talmente attaccato alla vita, un popolo attaccato alla vita, un popolo che ama la vita, che dà la vita, non può vivere sempre sotto la pressione di una civiltà contraria, civiltà della morte. Qui ci vuole la civiltà della vita! Nel nome di questo Cristo Crocifisso e risorto, di questo Cristo che è vita, via, verità e vita. Lo dico ai responsabili: Convertitevi! Una volta, un giorno, verrà il giudizio di Dio!.
Le ferite di Capaci e via D’Amelio erano ancora sanguinanti. Ma la mafia reagì malamente a quelle parole: le bombe e i morti di Firenze e Milano e poi, il 28 luglio, le bombe a San Giovanni in Laterano e a San Giorgio al Velabro. Infine, a settembre, l’omicidio di don Pino.
I suoi funerali si tennero il 17 settembre, due giorni dopo l’uccisione. Si pensò di dare un segnale forte al quartiere, celebrando le esequie in un piazzale dell’area industriale di Brancaccio. Ma, tra le circa 8 mila persone presenti, la gente del quartiere era pochissima. Porte e finestre rimasero per lo più chiuse al passaggio della bara, portata a spalla dai sacerdoti. Alcuni di loro, nelle ore precedenti, avevano scritto al Papa: “Ci chiediamo quando finirà questa terribile catena di morte. Qualcuno è anche smarrito e scoraggiato e si chiede se vale la pena continuare a lottare, anche perché continuano a esserci sacerdoti e vescovi che non sono testimoni autentici della liberazione che Cristo vuole per questa nostra isola”.
Nella sua omelia il cardinale Pappalardo utilizzò parole durissime contro i mafiosi:
Coloro che uccidono i propri fratelli sono cristiani ma traditori, sono cristiani ma disonorati in se stessi (…) Padre Puglisi è morto per aver avuto fame e sete di giustizia divina e umana (…) Occorre lavare nel sangue di padre Puglisi la propria coscienza. Non si può combattere e sradicare la mafia se non è il popolo tutto che reagisce alla sua presenza e prepotenza. È la comunità civile e ancor più quella cristiana che deve reagire coralmente, non solo con significative manifestazioni, ma assumendo atteggiamenti di pubblica e aperta ripulsa, di isolamento, di denunzia e di liberazione nei riguardi di ogni forma di mafia a tutti i livelli.
La vicenda giudiziaria
Salvatore Grigoli, le cui parole avevano ricostruito gli ultimi atti di vita di don Pino, era colui che aveva premuto il grilletto. Fu arrestato il 19 giugno del 1997, con la pesantissima accusa di essere l’autore di 46 omicidi, tra cui quello del prete di Brancaccio. Confessò tutto e decise di collaborare con la giustizia, chiamando in correità Gaspare Spatuzza. Quest’ultimo fu condannato all’ergastolo nel 1998, con l’accusa di aver fatto parte del commando che aspettò don Pino sotto casa. Con lui, in cella sono finiti anche Nino Mangano, Cosimo Lo Nigro e Luigi Giacalone.
Nella sentenza si legge: “Emerge la figura di un prete che instancabilmente operava nel territorio, fuori dall’ombra del campanile (…) L’opera di don Puglisi aveva finito per rappresentare una insidia e una spina nel fianco del gruppo criminale emergente che dominava il territorio, perché costituiva un elemento di sovversione nel contesto dell’ordine mafioso (…) Don Puglisi aveva scelto non solo di ricostruire il sentimento religioso e spirituale dei suoi fedeli, ma anche di schierarsi concretamente, senza veli di ambiguità e complici silenzi, dalla parte di deboli ed emarginati, di appoggiare senza riserve i progetti di riscatto provenienti da cittadini onesti, che coglievano alla radice l’ingiustizia della propria emarginazione e intendevano cambiare il volto del quartiere”.
E all’ergastolo sono finiti anche i capimafia Giuseppe Graviano e suo fratello Filippo, ritenuti i mandanti dell’omicidio, condannati rispettivamente il 5 ottobre del 1999 e il 19 febbraio del 2001.
Memoria viva
A sei anni esatti dalla morte di don Pino, il 15 settembre del 1999, si è aperta la causa di beatificazione, con la proclamazione a Servo di Dio. Il 28 giugno del 2012, Papa Benedetto XVI ha concesso la promulgazione del decreto di beatificazione per il martirio in odium fidei, prima vittima di mafia riconosciuta come martire dalla Chiesa cattolica. Infine, il 25 maggio del 2013, circa 100 mila persone hanno partecipato alla cerimonia per la beatificazione di don Pino, al Foro Italico di Palermo.
Padre Pino Puglisi è stato un sacerdote esemplare, dedito specialmente alla pastorale giovanile. Educando i ragazzi secondo il Vangelo vissuto li sottraeva alla malavita e così questa ha cercato di sconfiggerlo uccidendolo. In realtà però è lui che ha vinto con Cristo risorto.
Dal 1994, il 15 settembre segna, per la Diocesi di Palermo, l’apertura dell’anno pastorale. Sono centinaia i luoghi e i segni di memoria dedicati a don Pino, a Palermo, in Sicilia e in tutta Italia. A lui è stata concessa anche la Medaglia d’oro al valor civile alla memoria. Gli sono stati dedicati i presidi di Libera di Val Sangone (Torino), Ozieri (Sassari) e Avola (Siracusa). Portano il suo nome numerose iniziative culturali ed educative.
Imponente anche l’influenza sulla produzione cinematografica e letteraria. La sua storia è stata raccontata nei film Alla luce del sole di Roberto Faenza con Luca Zingaretti, Brancaccio di Gianfranco Albano con Ugo Dighero e L'Ultimo sorriso di Sergio Quartana e Rosalinda Ferrante con Paride Benassai. Di lui hanno scritto numerosi autori. Tra questi, in particolare, Alessandro D'Avenia, che lo ha incrociato al liceo Vittorio Emanuele II e che, nel 2014, gli ha dedicato il romanzo Ciò che inferno non è.