Da ragazzino sognava di fare il calciatore, sognava di difendere i pali della sua squadra del cuore, il Napoli, e girovagava i campi in terra battuta della sua Mugnano. Alberto, non era mai stato con le mani nelle mani. Era un tipo ingegnoso, che sapeva arrangiarsi. Era molto bravo ad aggiustare elettrodomestici, aveva un solo problema, che spesso nel commercio è controproducente, aveva un cuore enorme. Spesso, il prezzo lo faceva a seconda delle possibilità economiche del cliente. Una volta, andò ad aggiustare una lavatrice, si accorse che era irreparabile, come irreparabile era la condizione economica della vecchietta che lo aveva chiamato. Alberto non si perse di coraggio, andò dal papà, si fece prestare dei soldi e regalò una lavatrice nuova di zecca alla signora.
Aveva una fidanzata, con la quale stava progettando il matrimonio in quella torrida estate del 1998. La radio passava due tormentoni: Alex Britti con “Solo una volta”, ma soprattutto Ricky Martin ci abbrustoliva con la sua “Copa de la Vida”. Si la coppa della vita, era l’anno dei mondiali di Francia, il re di Francia si chiamava Zinedine Zidane. C’erano altri campioni a far compagnia a re Zizù: Yuri Djorkaeff, Marcell Desailly,
Quell’estate aveva iniziato un tirocinio presso il pastificio Russo, a 800 mila lire al mese. Rosario, Salvatore e Alberto stanno bevendo il loro caffè. Al solito bar, durante l'ora di spacco. Un rito di una vita apparentemente normale, modesta, senza sussulti. Da operai del pastificio Russo in Via Nazionale delle Puglie a Casalnuovo di Napoli. Fa caldo quel 20 luglio del 1998. Sfruttano la pausa dal lavoro per una chiacchiera fra di loro. Uno sguardo all'orologio. Sono le quattordici e qualche minuto. E ora di rientrare al pastificio. Alberto e Rosario sono i primi a uscire. Salvatore li segue. A pochi metri una Lancia. I loro killer. Almeno quattro. Impugnano kalashnikov e revolver. Preparano le armi, scrutano gli obiettivi. I sicari si calano sul volto dei cappucci. Parte la Lancia, arriva a pochi centimetri dalla Y10. Dai finestrini sporgono le armi. E' un attimo. Un tiro a segno. Alberto e Rosario cadono subito. Salvatore fa qualche passo indietro, cerca un rifugio. Sono più rapidi i proiettili. Quaranta colpi in tutto. Per Alberto Vallefuoco, 24 anni e i suoi colleghi Rosario Flaminio 24 anni e Salvatore De Falco di 21, non c'è scampo.
La triste verità
Rosario, Salvatore e Alberto sono tre nomi che non dicono assolutamente nulla a carabinieri e polizia. Zero. Nessun precedente. Nessuna segnalazione. Niente di significativo, dal punto di vista criminale. Vengono definiti da colleghi, amici e parenti, "tre bravi ragazzi". Sin dall'inizio gli investigatori sono in difficoltà. E non lo nascondono. "Non abbiamo elementi...". Fanno una prima ipotesi. "Potrebbe essere stato un clamoroso errore: volevano uccidere qualcuno che somigliava a uno di quei tre giovani. Qualcuno che andava in quel bar, magari proprio a quell'ora. Che aveva la stessa macchina".
Vicenda giudiziaria
Partono le indagini: i nomi dei tre operai non risultano negli archivi della Polizia e dei Carabinieri. Nessuna segnalazione, nessun precedente, niente di significativo dal punto di vista criminale. Un solo indizio. In quel territorio si respirava una brutta aria. Dopo l’omicidio del boss Antonio Egizio, capoclan storico nell’area di Pomigliano d’Arco, si fanno guerra le famiglie Veneruso e Cirella, che muovono dai vicini paesi di Volla e Casalnuovo per conquistare un’altra fetta di territorio. Dopo diverso tempo, grazie alle dichiarazioni di un pentito, la magistratura scopre la verità e trova i colpevoli della strage. Per il triplice omicidio sono stati condannati all’ergastolo Modestino Cirella, Giovanni Musone, Pasquale Cirillo, Pasquale Pelliccia e Cuono Piccolo come mandanti ed esecutori. Al collaboratore di giustizia Carmine Franzese sono stati invece inflitti 22 anni di reclusione. E quella ipotesi iniziale viene confermata. Un clamoroso errore, una scambio di persona. La ragione era banale, semplicissima: il pastificio Russo fino a quel momento aveva pagato il pizzo a un clan, si era presentato un clan emergente a chiedere il pizzo e i titolari si erano rivolti, invece di andare alla polizia, al clan a cui avevano sempre pagato. Sono stati scambiati per tre persone appartenenti al clan rivale a quello dei killer, ovvero del clan Cirella.
Quanto avevamo aspettato quel momento. Mesi di attesa, lunga, estenuante, trascorsi tra aule bunker e avvocati, trovandosi, tante volte, a incrociare gli sguardi stranamente spenti degli assassini, o quelli arroganti e minacciosi dei parenti, quasi fossimo noi i colpevoli , noi che avevano osato costituirci parte civile in un processo di camorra , noi che avevamo osato pretendere Giustizia e Verità per tre giovani vite innocenti. E, finalmente quel momento era arrivato, Giustizia era stata fatta. Ma alla lettura della sentenza, quando per la prima volta abbiamo avuto la certezza che gli assassini di Alberto, Rosario e Salvatore avrebbero pagato per quello che avevano fatto, ci siamo resi conto che questo non ci faceva stare meglio, che nostro figlio non sarebbe tornato più e che la condanna dei colpevoli non avrebbe mai potuto lenire il nostro dolore. Vorresti lasciarti andare, ma poi capisci che non è giusto, nessuna sentenza ti ridarà quello che hai perduto, e in nessun aula di tribunale troverai la risposta alle tue domande: perché proprio a noi? Perché proprio a nostro figlio? Ma tu devi fare qualcosa, devi dare un senso a quello che è successo, la morte di tuo figlio, come quella di ogni innocente, non può restare un sacrificio inutile. Ed è in quel momento che incontro Libera, don Ciotti mi aiuta a capire che la storia di mio figlio e delle tante vittime innocenti può, se raccontata, servire a smuovere le coscienze, che il dolore può essere trasformato e diventare testimonianza.
Alberto era un ragazzo normale. Come tanti. Come i suoi amici Rosario Flaminio e Salvatore De Falco. Tutti e tre frequentavano un corso di formazione presso il Pastificio Russo di Pomigliano d'Arco. Tante volte in questi anni ho sentito l'espressione “uccisi perché trovatisi al posto sbagliato nel momento sbagliato”. Nulla di più falso. Alberto, Rosario, Salvatore, tutti gli innocenti colpiti dall'assurda e ingiustificabile violenza criminale si trovavano al posto giusto nel momento giusto. Chi svolgeva il proprio lavoro, chi trascorreva una serata con gli amici, chi era in compagnia della propria famiglia. Tutte persone perbene a cui sono stati sottratti sogni e aspirazioni. In una parola, il futuro. A trovarsi nel posto sbagliato e nel momento sbagliato, al contrario, erano i loro killer. Occorre ribadirlo sempre. Reagire alla perdita di un figlio è di per sé complicato. Ancor di più se la morte è generata da una mano violenta. Mi piace rivolgermi soprattutto ai giovani, perché è su di loro che dobbiamo agire per sperare in un futuro in cui ciò che è accaduto alla mia e a tante, troppe famiglie non accada ad altre.
Memoria viva
Un'area del frutteto della Masseria Antonio Esposito Ferraioli è dedicata alla memoria di questi tre ragazzi: Alberto, Salvatore e Rosario. A loro è dedicata anche la sala dell'Ufficio Anagrafe di Casalnuovo (NA) che si trova in un bene confiscato. Un terreno confiscato alla camorra gestito dalla cooperativa A.R.S. e lo stadio comunale di Mugnano (NA) sono dedicati alla memoria di Alberto Vallefuoco.
Lo ringraziamo dal profondo del cuore per la sua testimonianza, che è stata per tutti noi una straordinaria lezione di memoria e di umanità, ma anche di amore. Perché parliamo di amore? Perché ci ha insegnato che il modo migliore per ricordarli è fare in modo che la loro morte non sia stata inutile, che dalla loro morte nasca ogni giorno il nostro impegno per amare questa nostra terra, e difenderla, e impegnarci per renderla migliore. Abbiamo imparato che la memoria deve essere responsabilità, che dobbiamo impegnarci ogni giorno affinché quello che è successo ad Alberto, a Salvatore e a Rosario, non accada mai più.
Siete vivi, siete vivi nel nostro impegno!
volontari del campo E!state Liberi - dopo la testimonianza di Bruno Vallefuoco