La storia di Rosario Flaminio, 24 anni e tutta la vita davanti, non si può raccontare senza incrociarla indissolubilmente a quella di Alberto Vallefuoco e Salvatore De Falco. È un incrocio così profondo che si fa fatica a rintracciare elementi che consentano di raccontarle separatamente queste storie. Perché quel pomeriggio maledetto del 20 luglio 1998 ha unito per sempre il destino di questi tre bravi ragazzi, strappati alla vita dalla violenza della camorra. Una violenza cieca, crudele, insensata. È un racconto tragico, uno di quelli in cui la spiegazione più semplice per una morte inspiegabile è una narrazione distorta e fuorviante: erano al posto sbagliato al momento sbagliato. E invece no, perché Rosario, Alberto e Salvatore, quel maledetto pomeriggio del 20 luglio, erano esattamente dove dovevano essere, nel momento giusto e a fare la cosa giusta.
Rosario, Salvatore e Alberto erano amici prima che colleghi di lavoro. In verità forse la parola lavoro non è proprio quella più appropriata. Più che di un vero e proprio contratto di lavoro, quello che questi tre giovani erano riusciti a conquistarsi era un tirocinio retribuito, una borsa lavoro. E tuttavia, a poco più di vent’anni, era già una grande conquista quella. Quando la prospettiva di un lavoro stabile, capace di dare un po’ di sicurezza e di tranquillità, appare quasi come un miraggio, 800 mila lire di stipendio sono veramente un sogno che si realizza. Soprattutto quando vivi dove il lavoro proprio non si trova. E soprattutto se sei un ragazzo apposto, perbene, onesto e senza grilli per la testa. Perché Rosario, come Salvatore e Alberto, era proprio così, un bravo ragazzo. Ottocentomila lire di borsa lavoro al Pastificio Russo di Pomigliano d’Arco e la speranza, finita la borsa, di ottenere un’assunzione definitiva.
Era una vita assolutamente normale quella di Rosario. Talmente normale che si fa fatica a ricostruirne i tratti in maniera dettagliata. Viveva ad Afragola con la sua famiglia. In 24 anni, nessuna macchia, nessuna sciocchezza. Una vita come quella di tanti altri ragazzi della sua età. Come quella di Salvatore e Alberto, 21 e 24 anni, che con Rosario condividevano quel contratto di formazione firmato nel febbraio del 1998 al pastificio. Erano semplicemente tre ragazzi perbene, che, come tanti altri, coltivavano sogni e passioni e amavano la vita.
L’elemento chiave di questa storia è la Y10 di Salvatore. In verità quella macchina era di suo padre. Lui però se ne serviva solitamente per andare al lavoro. Percorreva via Nazionale delle Puglie, la lingua d’asfalto a nord est di Napoli che conduce verso Pomigliano. Quella maledetta Y10 che un destino beffardo e tragico ha trasformato nella condanna a morte di questi tre bravi ragazzi.
Il 20 luglio del 1998
Il 20 luglio del 1998 faceva caldo a Pomigliano. La mattinata era passata tranquilla e con quel caldo la pausa pranzo era una benedizione. Rosario e Alberto erano nei pressi del pastificio. Salvatore invece aveva deciso di fare un salto a casa per un pasto veloce. Pochi minuti prima delle 14.00, i tre si incrociarono davanti allo Chalet Manila, a un centinaio di metri dall’azienda. Vi si fermavano abitualmente al termine dello stacco e prima di riprendere il turno. Un caffè veloce, due chiacchiere e poi di nuovo al lavoro. Monica, la cassiera, è come al solito al suo posto. Li conosce bene quei tre ragazzi e il suo bar è una tappa fissa per loro. Tutto come sempre. Ma una manciata di secondi dopo nulla sarebbe stato più come prima.
Una Lancia Y affianca la macchina di Salvatore. Alberto e Rosario stanno per salire sulla Y10 ma non fanno in tempo. Salvatore è qualche passo dietro e appena riesce a rendersi conto di quello che sta succedendo. Ma è troppo tardi. È una pioggia di fuoco, un inferno. Oltre 40 colpi di revolver e kalashnikov, esplosi da almeno quattro killer incappucciati, lasciano sull’asfalto i corpi senza vita dei tre ragazzi e feriscono di striscio al polpaccio Monica, che se la caverà. Una strage, un vero e proprio agguato in pieno stile di camorra.
Vicenda giudiziaria
Gli inquirenti non hanno dubbi sulle modalità dell’omicidio: la mano è quella di killer professionisti e le caratteristiche del commando e dell’agguato non possono che essere mafiose. Ma, a parte questo, brancolano nel buio. Non riescono in alcun modo a trovare un nesso tra la camorra e le vite di Salvatore, Alberto e Rosario. Nulla che possa far pensare alle ragioni per le quali questi tre ragazzi possano essere finiti nel mirino dei clan, vittime di un agguato così feroce e spietato. Si verificano tutte le ipotesi: che la vittima designata fosse solo uno dei tre giovani; che possa trattarsi di una vendetta trasversale; che dietro l’omicidio ci sia una questione di donne. Nulla. L’errore dei killer sarebbe troppo clamoroso per essere vero e dunque si fa fatica a credere possa trattarsi di questo. Ma la disperazione dei familiari fa muro alle dicerie, al fango, alle bugie. Così come la fermezza dei colleghi di lavoro, che in fabbrica si mobilitano, convocano un’assemblea, chiedono che vengano ripristinate condizioni minime di sicurezza e di “serena convivenza sociale”. Alla fine, l’ipotesi di un tragico scambio di persona diventa sempre più concreta. Rosario, 24 anni, è morto per uno scambio di persona. E con lui Salvatore e Alberto. Quella Y10 era maledettamente simile all’auto dei tre affiliati di camorra che quel pomeriggio del 20 luglio sarebbero dovuti morire sotto i colpi dei killer.
Qualche tempo dopo i fatti, le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Carmine Franzese hanno confermato la circostanza dell’errore. In qualche modo, era l’ennesimo atto della faida tra le famiglie Veneruso e Cirella per il controllo del territorio. Le tre vittime designate dovevano essere tre emissari del clan rivale a quello dei Cirella, che non poteva permettere che un altro gruppo criminale andasse in giro sul proprio territorio a taglieggiare commercianti e imprenditori. Ma sull’asfalto rimasero i corpi di Salvatore, Alberto e Rosario. Tre bravi ragazzi. Innocenti. Per la loro morte, sono stati condannati all’ergastolo Modestino Cirella, Giovanni Musone, Pasquale Cirillo, Pasquale Pelliccia e Cuono Piccolo. Franzese è stato invece condannato a 22 anni.
Memoria viva
Oggi la memoria di Rosario, con quella di Alberto e Salvatore, alimenta i frutti dell’impegno di un pezzo dei terreni della Masseria Antonio Esposito Ferraioli, un bene confiscato alla camorra ad Afragola, città originaria di Rosario. Nel 2012 è stata inaugurata la cooperativa A.R.S. – le iniziali di Alberto, Rosario e Salvatore - dedicata alla memoria dei tre ragazzi, alla quale nel 2015 è stato assegnato definitivamente un terreno confiscato a Casalnuovo. A loro è dedicata anche la sala dell’Ufficio Anagrafe di quella città, anch’essa in un bene confiscato.