A 21 anni, 800 mila lire di stipendio possono essere un miraggio, un sogno che si realizza. Soprattutto quando vivi dove il lavoro non si trova. E soprattutto se sei un ragazzo apposto, perbene, onesto e senza grilli per la testa. Perché Salvatore De Falco era proprio così, “nu buon guaglione”. Ottocentomila lire di borsa lavoro al Pastificio Russo di Pomigliano d’Arco, lo stesso dove il papà di Salvatore aveva preso “il posto” 30 anni prima e dove questo giovanotto di bella presenza, occhi scuri e pizzetto alla moda, sperava di poter essere assunto definitivamente. Così, con la prospettiva di un lavoro stabile, poteva pensare a realizzare il progetto di costruire una famiglia, di sposare Wanda, la ragazza che amava. E poi ci si poteva sempre arrangiare per arrotondare, magari imparando un altro mestiere, facendo l’imbianchino nelle ore libere dal lavoro al pastificio.
Nella vita di Salvatore c’era questo. Nessuna macchia, nessuna sciocchezza. Una vita come quella di tanti altri ragazzi della sua età. Come quella di Rosario e Alberto, 24 anni tutti e due, che con Salvatore condividevano quel contratto di formazione firmato nel febbraio del 1998 al pastificio. Tre ragazzi normali insomma, che, come tanti altri, coltivavano sogni e passioni e amavano la vita.
La Y10 sulla quale solitamente si recava al lavoro Salvatore la prendeva in prestito da suo padre. Percorreva via Nazionale delle Puglie, la lingua d’asfalto a nord est di Napoli che conduce verso Pomigliano. Quella maledetta Y10 che un destino beffardo e tragico ha trasformato nella condanna a morte di questi tre bravi ragazzi.
Il 20 luglio del 1998
Il 20 luglio del 1998 faceva caldo a Pomigliano. La mattinata era passata tranquilla e con quel caldo la pausa pranzo era una benedizione. Salvatore quel giorno aveva dimenticato di portare con sé la merenda. Dunque decise di fare un salto a casa per un pasto veloce. Di ritorno al lavoro, incrociò i due suoi colleghi davanti allo Chalet Manila e si fermò con loro per un caffè prima di rientrare di corsa di nuovo in fabbrica. Alle 14.00 la Y10 di Salvatore è parcheggiata davanti al bar, un centinaio di metri dal pastificio. Come al solito, nel bar c’è Monica, la cassiera. Li conosce quei tre ragazzi e il suo bar è una tappa fissa per loro. Una manciata di secondi appena e il dramma si consuma.
Una Lancia Y affianca la macchina di Salvatore. Alberto e Rosario stanno per salire sulla Y10 ma non fanno in tempo. Salvatore è qualche passo dietro e appena riesce a rendersi conto di quello che sta succedendo. Ma è troppo tardi. È una pioggia di fuoco, un inferno. Oltre 40 colpi di revolver e kalashnikov, esplosi da almeno quattro killer incappucciati, lasciano sull’asfalto i corpi senza vita dei tre ragazzi e feriscono di striscio al polpaccio Monica, che se la caverà. Una strage, un vero e proprio agguato in pieno stile di camorra.
Gli inquirenti non hanno dubbi sulle modalità dell’omicidio: la mano è quella di killer professionisti e le caratteristiche del commando e dell’agguato non possono che essere mafiose. Ma, a parte questo, brancolano nel buio. Non riescono in alcun modo a trovare un nesso tra la camorra e le vite di Salvatore, Alberto e Rosario. Nulla che possa far pensare alle ragioni per le quali questi tre ragazzi possano essere finiti nel mirino dei clan, vittime di un agguato così feroce e spietato. Si verificano tutte le ipotesi: che la vittima designata fosse solo uno dei tre giovani; che possa trattarsi di una vendetta trasversale; che dietro l’omicidio ci sia una questione di donne. Nulla. L’errore dei killer sarebbe troppo clamoroso per essere vero e dunque si fa fatica a credere possa trattarsi di questo. Ma la disperazione dei familiari fa muro alle dicerie, al fango, alle bugie. Così come la fermezza dei colleghi di lavoro, che in fabbrica si mobilitano, convocano un’assemblea, chiedono che vengano ripristinate condizioni minime di sicurezza e di “serena convivenza sociale”.
La triste verità
Alla fine, l’ipotesi di un tragico scambio di persona diventa sempre più concreta. Salvatore, 21 anni, è morto per uno scambio di persona. E con lui Alberto e Rosario. La sua Y10 era maledettamente simile a quella dei tre affiliati di camorra che quel pomeriggio del 20 luglio sarebbero dovuti morire sotto i colpi dei killer.
È tornato a casa nell’ora di spacco e ha mangiato. Poi mi ha detto che avrebbe preso il caffè con gli altri amici suoi. Stavo guardando una telenovela in tv, mi ero quasi appisolata. Hanno bussato alla porta, erano i carabinieri: c’è un problema, hanno ferito il ragazzo. Salvatore aveva sempre fatto l’imbianchino e continuava a farlo quando era libero dal lavoro al pastificio. Voleva entrare nell’azienda e magari prendere il posto del padre che lavorava lì da 30 anni ed era prossimo alla pensione.
Vicenda giudiziaria
Qualche tempo dopo i fatti, le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Carmine Franzese confermano la circostanza dell’errore. In qualche modo, era l’ennesimo atto della faida tra le famiglie Veneruso e Cirella per il controllo del territorio. Le tre vittime designate dovevano essere tre emissari del clan rivale a quello dei Cirella, che non poteva permettere che un altro gruppo criminale andasse in giro sul proprio territorio a taglieggiare commercianti e imprenditori. Ma sull’asfalto rimasero i corpi di Salvatore, Alberto e Rosario. Tre bravi ragazzi. Innocenti. Per la loro morte, sono stati condannati all’ergastolo Modestino Cirella, Giovanni Musone, Pasquale Cirillo, Pasquale Pelliccia e Cuono Piccolo. Franzese è stato invece condannato a 22 anni.
Memoria viva
Oggi la memoria di Salvatore, con quella di Alberto e Rosario, alimenta i frutti dell’impegno di un pezzo dei terreni della Masseria Antonio Esposito Ferraioli, un bene confiscato alla camorra ad Afragola. A loro è dedicata anche la sala dell’Ufficio Anagrafe di Casalnuovo, anch’essa in un bene confiscato. A Casalnuovo esiste la Cooperativa ARS, le iniziali dei nomi di Alberto, Rosario e Salvatore, alla cui memoria è dedicata.