Il ricordo di Roberta Lanzino. There’s no place like home
di Celeste Costantino *
Avevo 18 anni quando mi sono trasferita da Reggio Calabria a Rende per frequentare l’Università della Calabria. Primo anno di Filosofia, mi spettava un alloggio, come si diceva una volta, “per merito e per reddito”. Mi sono messa in attesa, perché c’era sempre qualcuna/o che il merito l’aveva più alto e il reddito più basso del mio e quindi bisognava aspettare: sono così entrata nel magico mondo dei subaffitti universitari. Ho fatto quell’esperienza al “Nervoso”, un plesso composto da tre palazzi di sette piani, rigorosamente senza ascensore, con quattro appartamenti per piano pieni zeppi di studenti. Ero ospite - a pagamento - di un appartamento vissuto da sei ragazze, tutte vetero studentesse. Dove il vetero va considerato come stato dell’animo prima ancora che anagrafico. Il “Nervoso” per alcune di loro era diventato la riproposizione del paese di provenienza. Il fidanzato, le coinquiline comari con cui parlare e fare pettegolezzi, il pranzo della domenica (non ho mai capito come cavolo riuscissero a preparare primi e secondi con una sola piastra elettrica) e poi casa, casa, ogni tanto università e poi - in una qualche sera di botta di vita - una bella uscita in coppia in pizzeria. Insomma, per me, la morte civile.
Erano tutte studentesse di economia tranne una, la mia affittuaria, che studiava lettere ma avrebbe fatto bene a fare la chiromante. Passava le giornate a leggere le carte, ad ascoltare le canzoni di Pupo e si permetteva incursioni nel neomelodico napoletano. Una personcina a modo con cui avrei dovuto dividere il posto-letto. Eppure, non si sa bene per quale motivo, alla fine io dormivo sempre in una brandina e quasi mai nel letto in cui avremmo dovuto fare a turno.
All’inizio c’ho provato ad integrarmi. Con tutte. Sapevo che con quelle della stanza di fronte alla mia avrei potuto prendere il caffè e discutere di esami, di quanto fosse difficile e pesante l’università (la loro facoltà chiaramente non la mia) e criticare chi non lavava il bagno (sempre la mia affittuaria). Con quelle della camera nel corridoio potevo parlare esattamente delle stesse cose con l’aggiunta del pettegolezzo legato alle ragazze del quinto piano (quelle che si portavano i ragazzi a dormire in casa) e poi c’era la mia compagna di stanza chiromante. Ho cercato di allargare lo sguardo. Ho iniziato a frequentare colleghe o comunque ragazzi degli altri piani e palazzi. E ho capito presto che ero capitata davvero nell’appartamento peggiore. Dietro di me, per esempio, nel terzo palazzo si divertivano un sacco. Ho socializzato un po’ con tutti, ormai il “paese Nervoso” era nelle mie mani. Conoscevo tutti - dai bacchettoni ai tossici, dai disadattati ai geni - ma nonostante tutto quella dimensione mi faceva paura. Forse non ho mai avuto percezione di cosa fosse realmente la mia terra prima di arrivare lì. Semplicemente perché lì si consumavano delle aspettative. Non credevo che la mia compagna di casa, giovane, studiosa, “fuori-sede” mi potesse dare le stesse risposte di mia nonna. E invece mi sbagliavo.
“Ma chi è Roberta Lanzino?” domandai.
“Una che hanno violentato e ucciso anni fa”.
“Quanti anni aveva?”.
“19”.
“E chi è stato?”.
“Mah, chi lo sa? Vai a vedere cosa c’è sotto?”.
“In che senso?”.
“Nel senso che non si è mai saputo”.
“Ma come sono andate le cose?”.
“Si dice che stava andando con il motorino nella sua casa al mare di Torremezzo, qualcuno l’ha buttata fuori strada e l’ha violentata e accoltellata più volte. Fino ad ammazzarla”.
“È una cosa terribile”.
“Sì, certo che è una cosa terribile, ma dico io chi la mandava a fare quella strada...”.
“In che senso?”.
“Invece di fare la strada sterrata avrebbe potuto fare la statale. Si sa che quelle sono strade da non fare”.
“Quindi è stata colpa sua?”.
“No, che c’entra. Dico solo che poteva evitare di fare quella strada da sola con il motorino”.
“Non pensi che sia stata semplicemente sfortuna?”.
“Sì, è chiaro ma sai io non è che so che faceva questa nella vita...”.
“In che senso?”.
“Vai a vedere con chi stava...”.
“Scusa non capisco che vuoi dire”.
“Che voglio dire? Che certe cose non accadono per caso”.
“Scusa prima mi hai detto che non ci sono colpevoli, ci sono sospettati?”.
“Penso di sì, ma non so neanche di chi sospettano. Però dalle mie parti sappiamo bene che certe cose non succedono mai per caso”.
“Ah siete tutti un po’ chiromanti nel tuo paese...”.
“Che vuol dire?! Ah fai la moderna...”.
“Moderna?!”.
“Sì, fai la moderna. Fai finta di non capire”.
“Purtroppo capisco fin troppo bene”.
“Vabbò ciao. Stasera vedi che il letto serve a me perché mi
fa male la schiena”.
Quella notte non ho dormito a casa. Sono andata da Elisa, una ragazza conosciuta durante il corso di Filosofia morale. Ho ascoltato per la prima volta Pablo Honey dei Radiohead e ho pensato tutta la notte a Roberta Lanzino. La sua storia mi ha ossessionato per molto tempo.
Roberta Lanzino ha 19 anni, vive con la sua famiglia a Rende (provincia di Cosenza), è una studentessa universitaria al primo anno, studia Scienze economiche. È bella e ha un Sì della Piaggio di colore blu. È il 26 luglio del 1988 e Roberta, proprio con il suo motorino, va verso la casa al mare, a Miccisi di San Lucido, al confine con Torremezzo di Falconara, sul litorale tirrenico cosentino.
I suoi genitori Franco, funzionario della Cassa di Risparmio, e la madre Matilde, insegnante di Lettere, sarebbero partiti pochi minuti dopo a bordo della “Giulietta” di famiglia. Roberta quella mattina indossa dei jeans blu, una maglietta rosa salmone e gli occhiali da sole.
Sceglie di non fare la 107 per questioni di sicurezza: ci sono troppe gallerie e troppe macchine che corrono veloci. Imbocca una strada alternativa. Purtroppo perde l’orientamento, si smarrisce, chiede informazioni prima agli occupanti di un furgone bianco che incrocia casualmente, tre uomini e una donna. Poi chiede conferma a un manovale, impegnato a irrigare zolle arse dal sole. Ma in tutto questo suo peregrinare, Roberta è seguita a vista. Due uomini con una Fiat 131 le stanno alle calcagna e, al momento giusto, le tagliano la strada. La fermano, la fanno scendere dal motorino, la violentano, la colpiscono senza pietà al collo e alla testa con un coltello, conficcandole poi in gola una spallina per strozzare le urla. Muore soffocata, Roberta. Il suo corpo viene ritrovato alle 6.30 del mattino dopo. Le indagini partono subito.
Ma la verità sul suo brutale omicidio non è ancora arrivata.
Un quadro complesso e inquietante. Fatto di depistaggi, di omertà, di morti collaterali e di violenza. L’uccisione di Roberta s’inserisce dentro la spirale della criminalità organizzata in maniera del tutto casuale. Il suo infatti non è un omicidio di ’ndrangheta, per come siamo stati abituati a conoscere questo fenomeno. Roberta viene uccisa dalla bestialità umana ma va inserita lo stesso tra le vittime delle mafie perché, accanto alla violenza sessuale, la ’ndrangheta è presente in ogni passaggio di questa storia. Come ho scritto nella prefazione a “Sdisonorate - le mafie uccidono le donne” “c’è un modo di concepire il corpo delle donne nell’organizzazione criminale calabrese che è brutale e vendicativo. Anche nella totale assenza di conoscenza della vittima”.
Roberta Lanzino era una ragazza. Una ragazza di 19 che andava all’università che aveva un Sì come tante di noi. E, come noi, a quell’età pensava di avere tutta la vita davanti. La sua storia poteva essere la mia. E chi non lo capisce si rende complice di questa morte. Tutti e tutte dobbiamo sentire il peso di questa storia e di tutte quelle che non sono state raccontate.
* Tratto da "Roberta Lanzino. Ragazza" di Celeste Costantino e Marina Comandini, realizzato dall'Associazione daSud ed è edito da Round Robin.