Da un lembo di terra delle provincia palermitana, questa storia ha attraversato lo spazio e il tempo, trasformando il suo protagonista nel paradigma del militante antimafia, del giornalista innamorato della verità, del politico assetato di giustizia sociale. Perché Peppino è stato tutto questo. Ma, prima di tutto, è stato un ragazzo di valore, onesto e coraggioso, deciso a trasformare in un percorso di impegno concreto il suo sogno di cambiamento. Un sogno che inseguito per tutta la sua vita, senza paura, immerso in una terra e in una famiglia di mafia. Quella mafia che ha pensato di spegnere il suo sogno col tritolo. Ma inutilmente. Perché Peppino è vivo più che mai.
Figlio di Luigi Impastato e Felicia Bartolotta, Peppino aveva 15 anni quando decise che la sua vita sarebbe stata diversa da quella della sua famiglia, e di suo padre in particolare. Perché Luigi Impastato era un mafioso per tradizione familiare. Sua sorella aveva sposato Cesare Manzella, capomafia di Cinisi, il paesone a pochi chilometri da Palermo in cui questa storia si dipana.
Quando nel 1963 Manzella fu fatto saltare in aria col tritolo, Peppino ne rimase profondamente turbato. Sentiva che quella cultura di violenza non gli apparteneva, che quel codice d’onore fatto di sangue e morte era totalmente estraneo al suo modo di vedere la vita, di guardare al futuro. Forse, più che quelli di suo padre, a formare la sua tempra furono i geni di sua madre. Felicia Bartolotta era la figlia di un onesto impiegato comunale ed era culturalmente lontana dalla mafia, al punto di tentare di evitare il matrimonio, quando scoprì che il suo futuro marito era invece totalmente immerso in quella cultura.
Quando era ragazzo, cercavo di capire i libri e i giornali che leggeva, ma erano troppo difficili per me che studi non ne avevo. Però, lui si metteva con la santa pazienza e mi spiegava. E anche ora che sono vecchia mi piace capire e farmi domande.
Di litigio in litigio, il rapporto tra Peppino e suo padre andò deteriorandosi giorno dopo giorno. Più Peppino scopriva l’impegno sociale, civile e politico, più cresceva dentro di sé un sentimento di repulsione e ribellione contro quel modo di pensare e di agire, che egli disprezzava profondamente. Più leggeva, scriveva, ascoltava musica, più se ne allontanava. Una guerra quotidiana, in cui l’amore di un figlio per suo padre faceva a cazzotti con quel sogno di libertà che, ogni giorno di più, dava senso al suo impegno e alla sua vita.
Cacciato di casa da suo padre, cominciò così a trasformare quel desiderio di impegno in cose concrete. Nel 1965 fondò il giornalino L’Idea Socialista e aderì al PSIUP, Il Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria nato da una scissione della corrente di sinistra interna del Partito Socialista Italiano. Quel foglio divenne uno strumento fondamentale della sua attività politico-culturale, che tuttavia era inquieta, proprio come il suo animo. Nel 1968 fu protagonista, con ruoli di dirigente, delle attività delle formazioni comuniste come Il Manifesto e, soprattutto, Lotta Continua. Il suo attivismo crebbe anche nella battaglia per la difesa del lavoro, accanto ai lavoratori edili, ai disoccupati e, soprattutto, ai contadini espropriati delle terre per la costruzione della terza pista dell’aeroporto di Punta Raisi.
Ma l’attività politica era solo uno degli strumenti del suo impegno, che ebbe forme e espressioni molteplici e variegate. Peppino era convinto che fossero l’educazione e la cultura a poter aprire nuove prospettive ai suoi coetanei, a poter fornire strumenti di emancipazione, di cambiamento, di ribellione. Con questo spirito, nel 1976, contribuì a fondare il gruppo Musica e Cultura, uno spazio aperto di discussione e confronto, ma anche di espressione artistica e musicale, dedicato ai giovani. Furono anni intensissimi, che videro Peppino impegnato senza sosta in un’attività di animazione politica e culturale in grado davvero di segnare un tratto rivoluzionario per quella terra ostaggio della cultura mafiosa.
Il passo successivo, nel 1977, fu la nascita di Radio Aut. E fu un passo decisivo nel dare ulteriore visibilità a quell’impegno, perchè da subito divenne uno strumento potentissimo di diffusione delle idee di Peppino e dei suoi compagni, la cassa di risonanza della loro battaglia per liberare Cinisi dalla mafia. Le frequenze di Radio Aut si trasformarono in uno spazio di denuncia radicale dei crimini e degli affari mafiosi. “Onda pazza a Mafiopoli”, una delle trasmissioni di punta della radio, ne fu l’espressione più alta. Utilizzando l’ironia, la satira e la potenza delle parole, Peppino sbeffeggiava politici, mafiosi, potenti e affaristi. Compreso il capomafia che aveva preso il posto di Manzella, quel Gaetano “Tano” Badalamenti, al quale da sempre suo padre Luigi era assai legato. Fu lui, “Tano Seduto”, l’oggetto principale dell’irrisione e degli attacchi di Peppino.
Nel settembre 1977, Luigi Impastato muore investito da una macchina. Un incidente sulla cui natura non si è mai fatta piena luce. Ai funerali di suo padre, Peppino si rifiutò di stringere la mano ai boss di Cinisi, pensando, forse, che dietro quell’incidente ci fossero altre ragioni: l’incapacità di suo padre di distoglierlo dal suo impegno antimafia. Perché Luigi aveva provato a difendere quel figlio ribelle, volando fino negli Stati Uniti per chiedere ai boss di non fargli del male. Ora che Luigi non c’era più, Peppino era diventato un bersaglio facile.
Qualche mese dopo, Peppino decide di candidarsi alle elezioni per il rinnovo del Consiglio comunale di Cinisi nella lista di Democrazia Proletaria, il partito nato nell’aprile del'78, quando diverse formazioni della sinistra radicale decisero di rivedere la linea del rifiuto categorico delle strutture istituzionali come strumento per il mutamento rivoluzionario della società, tentando invece di entrarvi. Le elezioni si tennero il 14 maggio 1978. Peppino fu eletto con 264 preferenze.
9 maggio 1978
In Consiglio non ci entrò mai e neanche potè festeggiare quel risultato clamoroso. Il suo corpo era stato ridotto a brandelli la notte del 9 maggio, fatto esplodere su una carica di tritolo sui binari della ferrovia Palermo - Trapani.
Nonostante le modalità eclatanti utilizzate, la notizia della morte di Peppino passò quasi inosservata, fagocitata da un’altra notizia drammatica, quella del ritrovamento del corpo senza vita del presidente della DC Aldo Moro in via Caetani a Roma.
Vicenda giudiziaria
Le indagini sembrarono andare sin da subito in una direzione precisa: escludere la mano della mafia e attribuire la morte di Peppino ad un presunto fallito attentato terroristico contro la linea ferroviaria:
Attentato alla sicurezza dei trasporti mediante esplosione dinamitarda. Verso le ore 0,30-1 del 9.05.1978 persona allo stato ignota, ma presumibilmente identificata in tale Impastato Giuseppe si recava a bordo della propria autovettura all'altezza del km. 30+180 della strada ferrata Trapani-Palermo per ivi collocare un ordigno dinamitardo che, esplodendo, dilaniava lo stesso attentatore.
L’unica pista alternativa presa in considerazione dagli inquirenti fu quella di un suicidio, pista avvalorata da una lettera rinvenuta a casa di sua zia, che in realtà non faceva alcun riferimento concreto ad una possibilità del genere.
E questo, nonostante familiari e amici, sin dalle ore del ritrovamento dei resti di Peppino, avessero pubblicamente smentito questa ipotesi, chiamando in causa senza mezzi termini il ruolo di Cosa nostra: Peppino era stato deliberatamente e barbaramente ucciso dalla mafia. A confermarlo, il ritrovamento di una pietra ancora sporca di sangue a pochi metri dal luogo dell’esplosione. Quella pietra, dicono gli amici, è la dimostrazione più evidente del fatto che, prima di essere fatto esplodere, Peppino era stato tramortito o ammazzato.
Ci sono voluti più di 20 anni per ottenere una parola di verità su questa storia. Due decenni nel corso dei quali sua madre Felicia, suo fratello Giovanni e i suoi compagni non hanno mai smesso di chiedere giustizia.
Già nel maggio del 1984, l’Ufficio Istruzione di Palermo, sulla base delle indicazioni di Rocco Chinnici, emise una sentenza che, pur rimanendo ignoti mandanti ed assassini, riconosceva di fatto la matrice mafiosa del delitto. Due anni più tardi, il Centro Siciliano di Documentazione Giuseppe Impastato, nato nel 1977 e intitolato a Peppino nel 1980, chiama in causa la responsabilità di Gaetano Baladamenti, intanto arrestato e condannato a 45 anni di carcere nell’ambito del processo alla Pizza Connection. Nel gennaio dell’88, a Badalamenti viene anche indirizzata una comunicazione giudiziaria, ma le indagini finiscono archiviate nel maggio del 1992. La battaglia di familiari e amici, però, non si ferma.
Anche attraverso una petizione popolare, viene chiesta la riapertura dell’inchiesta, con l’invito ad ascoltare il pentito Salvatore Palazzolo. Nel ’96 parte anche un esposto per chiarire il comportamento dei Carabinieri intervenuti sul posto la mattina del 9 maggio.
Gli inquirenti raccolgono le dichiarazioni di Palazzolo, secondo il quale i mandanti del delitto sarebbero stati Badalamenti e il suo vice, Vito Palazzolo. L’inchiesta riparte e nel novembre del 1997 viene emesso un mandato di cattura per Tano Seduto.
Infine, per l’omicidio di Peppino Impastato, il 5 marzo del 2001, Vito Palazzolo è stato condannato a 30 anni di carcere. Un anno più tardi, l’11 aprile del 2002, è arrivata la condanna all’ergastolo per Gaetano Badalamenti.
Nella ricostruzione dei magistrati, Peppino era stato prelevato nella tarda serata del 9 maggio e condotto in campagna, nei pressi della ferrovia. Qui era stato picchiato selvaggiamente e colpito con una pietra. Tramortito o forse già morto, i suoi assassini lo avevano adagiato su una carica di tritolo piazzata sui binari, nel tentativo di depistare le indagini. L’esplosione ne aveva brutalmente dilaniato il corpo. Dei depistaggi, si è occupata anche la Commissione Parlamentare Antimafia, con una relazione depositata il 6 dicembre del 2000.
Memoria viva
Ai funerali di Peppino parteciparono circa 1000 persone provenienti da Palermo e dai paesi vicini. Il 9 maggio del 1979, nel primo anniversario del delitto, il Centro siciliano di documentazione e Democrazia Proletaria hanno organizzato la prima manifestazione nazionale contro la mafia della storia d'Italia, a cui parteciparono 2000 persone arrivate da tutto il Paese.
Anche semplicemente elencare i titoli di film, libri, canzoni, scritti, opere, intitolazioni di strade, piazze, luoghi e iniziative in memoria di Peppino Impastato è estremamente complesso.
Ampissima è la bibliografia sulla sua storia: dagli studi sulla vicenda processuale e i depistaggi che l'hanno caratterizzata (come “Chi ha ucciso Peppino Impastato. Le sentenze di condanna dei mandanti del delitto”, a cura di Umberto Santino, 2008); alla raccolta delle registrazioni di Radio Aut (come “Impastato e la redazione di Radio Aut: “Onda Pazza”, a cura di Salvo Vitale e Guido Orlando, Edizioni Stampa Alternativa, 2008); dalla raccolta delle sue poesie, (come “Peppino è vivo”, a cura di Salvo Vitale, Edizioni EGA, 2008); fino ai racconti di chi l'ha conosciuto, (come “Resistere a Mafiopoli. La storia di mio fratello Peppino Impastato”, di Giovanni Impastato e Franco Vassia, Stampa alternativa, 2009).
A diffondere la storia di Peppino, trasformandola in memoria collettiva, ha senz’altro contribuito in maniera decisiva il film "I cento passi", uscito nel 2000 con la regia di Marco Tullio Giordana. Già nel ’78 la storia di Peppino aveva ispirato due servizi televisivi di Michele Mangiafico e di Giuseppe Marrazzo. Un anno dopo, il regista Gillo Pontecorvo va a Cinisi con l'idea di fare un film sulla vicenda. Nel 1993 Claudio Fava e il regista Marco Risi realizzano per Canale 5 un servizio su Peppino, il primo di una serie intitolata “Cinque delitti imperfetti”. Dopo qualche anno, insieme a Monica Capelli, Fava inizia a lavorare a una sceneggiatura. La regia viene affidata a Marco Tullio Giordana, mentre Luigi Lo Cascio, alla sua prima esperienza cinematografica, interpreta il ruolo di Peppino. Nasce così "I cento passi", il film che riuscirà a trasformare la storia di un giovane della provincia di Palermo in memoria collettiva. Quei “cento passi”, diventati col tempo un’espressione di uso comune, richiamavano la distanza che separava casa Impastato da quella di Tano Badalamenti, oggi bene confiscato. Sono diventati poi anche il titolo di una canzone dei Modena City Ramblers, ancora oggi grido di battaglia del popolo antimafia. Marco Tullio Giordana ci ha raccontato la costruzione narrativa del film e il suo senso di "fare memoria" nel corso della terza puntata di "Tempi VIVI. Incontri di memoria, impegno e resistenza", il format a cura del settore Memoria di Libera.
Non dimenticherò mai la prima volta che mia nonna si convinse a vedere il film. (…) Negli ultimi anni della sua vita, dopo aver voluto che le acquistassimo un lettore dvd, ogni domenica, prima che uscissi, mi chiedeva di mettere il “ciramu di me figghiu”, fino all’ultima domenica, prima che ci lasciasse, in cui, non so se casualmente e non lo saprò mai, mi chiese di metterlo “per l’ultima volta”.
Felicia se n’è andata il 7 dicembre 2004, all'età di 88 anni e dopo una vita intera spesa per ottenere verità e giustizia. La sua casa ha accolto negli anni migliaia di persone e, dopo la sua morte, grazie all’impegno di Giovanni, fratello di Peppino, e di sua figlia Luisa, è diventata “Casa memoria Felicia e Peppino Impastato”. Dalla primavera del 2005 è divenuta ufficialmente una Casa - Museo e nel 2012 è stata riconosciuta come bene culturale.
Casa Memoria è oggi un “altare laico”, come lo definisce Umberto Santino, presidente del Centro Impastato; è un luogo di memoria, impegno, incontro e comunità, di divulgazione della verità e della cultura, un avamposto della resistenza contro il potere e contro la mafia, rappresenta nel territorio e non solo un presidio di libertà, giustizia sociale e democrazia, la testimonianza concreta di un’esperienza di lotta senza remore, di un’intera vita spesa con coraggio e determinazione.