Tra il 1981 e il 1984 le strade della Sicilia si bagnarono del sangue di oltre 1000 persone. Molte di queste persone erano organiche alle famiglie di mafia, ma tante altre erano totalmente estranee a quella che è passata alla storia come la Seconda guerra di mafia. Un terremoto interno alla geografia mafiosa che ha visto contrapporsi la cosiddetta “ala moderata” di Cosa nostra - la mafia tradizionale dei vari Badalamenti, Bontate e Inzerillo - alla mafia emergente dei Corleonesi. Furono questi ultimi a spuntarla alla fine, in testa quel Totò Riina che poi per anni governerà le dinamiche criminali all’interno di Cosa nostra.
È in questo contesto di sangue e violenza, in una Cinisi dominata dal potere asfissiante di Tano Badalamenti, che matura la vicenda tragica di Salvatore Zangara.
Totò - così lo chiamavano tutti - all’epoca aveva 52 anni e una vita normale. Era un uomo impegnato e appassionato. Lavorava come analista presso l’ospedale Santo Spirito di Carini. Un lavoro al quale aveva affiancato poi l’attività privata, diventando socio in un laboratorio di analisi di Cinisi. Ma Totò era molto di più del suo lavoro. Nella sua vita c’era stato anche lo spazio per la passione e l’impegno politico. Era segretario della sezione locale del Partito Socialista Italiano e, per un breve periodo, aveva seduto anche tra i banchi del Consiglio comunale. Aveva una passione particolare per le auto e andava assai fiero dei suoi due gioiellini: una Lancia Fulvia coupé di colore blu e una Fiat 132 bianca. E poi c’era naturalmente la famiglia, attorno alla quale ruotava tutta la sua vita. Si era sposato con Enza Cannata e da quel matrimonio erano nati tre splendidi figli maschi: Antonio, Vincenzo e Massimo. Nei loro ricordi, la figura del padre appare come quella di un uomo attento e amorevole. Una famiglia tranquilla, insomma.
L’8 ottobre del 1983
Ma quella tranquillità fu sconvolta tragicamente intorno alle 19.30 di sabato 8 ottobre 1983.
Era una sera come tante a Cinisi. La piazza principale della città, piazza Vittorio Emanuele Orlando, era al solito molto affollata. Molte persone passeggiavano, chiacchieravano tra di loro, sedevano ai tavolini dei bar. Nessuno immaginava quello che di lì a pochi istanti sarebbe accaduto. Non lo immaginava neanche Procopio Di Maggio, storico boss del paese, schierato dalla parte dei Corleonesi e acerrimo nemico dei Badalamenti. In quel momento Procopio camminava tranquillamente in piazza insieme a suo figlio Giuseppe. Un paio di anni prima era sfuggito a un agguato. Quella sera i killer erano erano arrivati per chiudere quella partita una volta per tutte.
L’azione dei sicari fu rapidissima. Arrivarono in piazza a bordo di una Renault 5. Quando intravidero Di Maggio, incuranti della folla, cominciarono a sparare all’impazzata impugnando fucili caricati a lupara e rivoltelle calibro 38. Il boss percepì subito che l’obiettivo di quei colpi era lui e provò a confondersi tra la gente, di fatto facendosi scudo dei passanti. Il piombo dei killer colpì tre persone. Due rimasero ferite, fortunatamente in maniera non mortale. L’altra persona, invece, morì sul colpo. Era Totò Zangara, ennesima vittima innocente di una guerra infinita e assurda.
Per la famiglia fu un colpo durissimo. Come al solito in queste circostanze, dopo i primi giorni, l’attenzione attorno a questa storia tragica andò scemando. L’intero paese, persino chi era stato direttamente coinvolto, sembrò voler rimuovere. Eppure sul selciato era rimasto il corpo senza vita di un uomo onesto, perbene, che con quella guerra non aveva nulla da spartire.
Vicenda giudiziaria
Le stesse indagini sulla morte di Totò non hanno portato a nulla. Il caso è stato archiviato. Non ci sono mai stati i nomi di mandanti ed esecutori. Non c’è mai stata verità, non c’è mai stata giustizia.
Nel 1987 è arrivato il riconoscimento dello status di vittima innocente e poi, solo nel 1995, una targa apposta sul luogo del delitto, all’incrocio tra piazza Vittorio Emanuele Orlando e Corso Umberto I.
Memoria viva
La memoria di Salvatore Zangara è stata coltivata in tutti questi anni dai suoi figli, che, nonostante le difficoltà e qualche tentativo di gettare fango sul nome di loro padre anche da morto, non hanno accettato che l’oblìo scendesse per sempre su questa storia. Ne hanno fatto uno “strumento” di formazione ed educazione civile, fondando un’associazione intitolata a loro padre, accompagnando e facendosi accompagnare da Libera nei percorsi di legalità, raccontando chi era Totò ai giovani, nelle scuole, in tutta Italia.
Quella sera un padre, un uomo onesto, morirà per caso. Questa morte oggi deve fare rivedere il luogo comune, che ancora oggi ci accompagna, secondo cui: “la mafia è come un cane, se non lo disturbi lui non ti morderà”, e deve farci anche riflettere, perché ciò che ha colpito la famiglia Zangara poteva colpire chiunque. Oggi fare memoria è un impegno, un dovere che sentiamo di dover rendere a quanti sono stati uccisi per mano delle mafie, un impegno verso i familiari delle vittime, verso la società tutta ma, prima ancora, verso le nostre coscienze di cittadini, di laici e di cristiani, di uomini e donne che vivono il proprio tempo senza rassegnazione.
Oggi Totò sarebbe nonno di sei nipoti, che però quel nonno non lo hanno mai potuto conoscere direttamente. Lo hanno conosciuto e lo conosceranno attraverso il miracolo di una memoria viva e collettiva, che consegna la testimonianza di quest’uomo normale, onesto, perbene non solo a loro, ma a tutti quelli che intenderanno farsene carico.