Salvatore Zangara, la storia di un "uomo comune"
di Antonio Zangara
Oggi ho l’età che aveva mio papà l’8 ottobre del 1983, 52 anni, e mi rendo conto di quanto giovane fosse, di quanti e quali progetti avrebbe potuto avere per sé e per la sua famiglia, chissà quali erano i suoi sogni, sogni che si sono trasformati nel peggiore degli incubi per la sua famiglia, perché una vile mano mafiosa, incurante della gente presente in una piazza gremita come ogni fine settimana, abbia sparato tra la folla con l’obiettivo di colpire il boss Procopio Di Maggio e il figlio Giuseppe appartenenti a una fazione avversaria.
Quella sera mio padre non ce l’ha fatta e due persone, Francesco Lo Bello e Salvatore Giambanco, sono rimaste gravemente ferite e fortunosamente scampate a quella che poteva essere una strage.
Salvatore Zangara non indossava una toga, neanche una divisa e non era una penna investigativa ma un semplice professionista (un’analista, impiegato presso l’ospedale “Santo Spirito” di Carini e titolare di laboratorio di analisi a Cinisi), un amorevole padre di famiglia e uomo politicamente impegnato (segretario della sezione locale del partito socialista italiano), insomma un uomo comune, eppure, contro ogni luogo comune secondo cui la mafia vivrebbe un mondo parallelo e che l’importante è non intersecarlo, morirà ucciso dalla mafia.
Sono passati 34 anni da quel giorno, e a Cinisi come in tutto il Paese dopo i primi giorni di cronaca non si è più parlato di quel maledetto 8 ottobre, addirittura i feriti e le loro famiglie hanno preferito dimenticare assieme a tutto il paese questa buia e triste giornata dove a perdere la vita è stato un onesto cittadino.
Io e la mia famiglia non possiamo permettere che venga dimenticato e per questo grazie a Libera ho capito l’importanza della memoria come strumento di crescita, formazione, consapevolezza e impegno e per questo il mio senso di responsabilità si manifesta nelle scuole, soprattutto nella provincia e nelle periferie di Palermo.
La mafia oggi uccide sempre meno con le armi ma sa perfettamente come colpire. Un paio di anni fa si è sparsa la voce che mio padre fosse stato ucciso, non per sbaglio ma, perché aveva collaborato all’omicidio di tale Natale Badalamenti, ucciso presso il nosocomio dove lavorava mio papà.
Peccato che i detrattori non abbiano guardato con attenzione le date visto che il Badalamenti è stato ucciso un mese e mezzo dopo l’uccisione di mio padre.
Questo accadimento mi ha fatto capire, ancor di più, quanto difficile sia la “vita” per una vittima innocente di mafia che non ha una storia di contrasto alle mafie, la storia cammina sul filo di un rasoio in mancanza di una verità documentata.
Sono certo che uno dei suoi sogni era quello di potere conoscere i propri nipoti, dei quali poter essere fiero e felice nonno. Oggi Giuditta, Beatrice, Vittoria, Salvatore, Giulio e Francesco sarebbero altrettanto felici di potere avere l’opportunità strappata dalla vile mano mafiosa, di poter coccolare un nonno ormai vecchietto, desideroso come è sempre stato, di baci e abbracci.