Valderice è uno dei centri più popolosi dell’Agro - ericino. Immerso nel verde, con un territorio che si estende dai 300 metri di altitudine delle colline più alte alle spiagge cristalline che si perdono nell’azzurro del mare, dista appena 8 chilometri da Trapani. È un luogo ambito di villeggiatura, con un’economia basata, oltre che sul turismo, su un’attività agricola orientata per lo più alla produzione di olio e vino. È in questo luogo intatto e a tratti selvaggio, testimone della bellezza disarmante della terra di Sicilia, che inizia la storia di Pietro Morici. Una storia semplice di un ragazzo semplice, che sognava di indossare una divisa e che, per onorarla, ha sacrificato la propria vita.
Pietro era nato qui, a Valderice, il 21 agosto del 1956, nel pieno di una delle tipiche e caldi estate siciliane. Mamma Antonina gestiva un piccolo negozio di generi alimentari proprio di fronte alla caserma dei Carabinieri. E Pietro era cresciuto passando ogni giorno davanti a quella caserma, osservando incuriosito il lavoro di quegli uomini in divisa e rimanendone via via sempre più affascinato. È del tutto probabile che questa circostanza fortuita abbia condizionato le scelte di questo bambino una volta diventato adulto.
A Valderice Pietro aveva frequentato le scuole elementari e le medie. Terminati gli studi, il lavoro nel negozio di famiglia era diventato più assiduo e regolare. Era un ragazzino allegro e vivace, con un carattere socievole. Sua madre aveva bisogno di aiuto e a Pietro non dispiaceva affatto darle una mano. Del resto, trascorrere le sue giornate in quella bottega gli aveva consentito di conoscere e confrontarsi spesso con i militari in servizio presso la vicina caserma. Ogni occasione era buona per provare a entrare in quel mondo che tanto lo affascinava. Fino alla scelta definitiva, che avrebbe cambiato per sempre la sua vita, di arruolarsi e di indossare anch’egli quella divisa.
La scelta dell’Arma
Scelta che Pietro era determinato a compiere, nonostante l’opposizione dei genitori, che avrebbero preferito tenerlo vicino e affidargli la cura del negozio di alimentari. Ma, per quanto avesse ancora solo 19 anni, Pietro era deciso a intraprendere quella strada sulla quale tante volte, sin da bambino, aveva fantasticato. Del resto ne aveva tutte le qualità: era un giovanotto serio, riservato, assolutamente capace di affrontare i sacrifici e la disciplina della vita militare. E così, senza lasciarsi frenare dal profondo amore che nutriva per la sua famiglia, il 5 marzo del 1975 raggiunge la scuola Allievi Carabinieri di Roma, dove finalmente inizia la sua avventura nell’Arma. Poco dopo, il trasferimento a Milano e poi, nel 1976, inatteso e improvviso, il ritorno in Sicilia, dapprima a Palermo e poi alla Compagnia Carabinieri di Monreale, dove a comandarlo trova il Capitano Emanuele Basile, di cui diventa autista. A Monreale lavora anche un altro carabiniere il cui destino si incrocerà drammaticamente con quello di Pietro, l’appuntato Giuseppe Bommarito. I tre costruiscono un rapporto molto intenso. Sono anni difficili, nel pieno della seconda guerra di mafia. Il Capitano Basile, un militare pugliese di 28 anni, che aveva raccolto il testimone del capo della Squadra Mobile di Palermo Boris Giuliano dopo il suo omicidio, sta lavorando a indagini delicate e complesse. Il Capitano Basile sta seguendo un filone in particolare, quello sul ruolo e sulle relazioni di Salvatore Damiani, indiziato di mafia e di avere uno stretto collegamento con le famiglie mafiose di Altofonte e Corleone. Indagini che porteranno a importanti operazioni e, evidentemente, alla condanna a morte di Basile. Il Capitano riceve pressioni e minacce, schiacciato da un clima pesantissimo, che lo induce a chiedere il trasferimento nelle Marche. Ma non farà in tempo a lasciare Monreale: verrà assassinato senza pietà il 4 maggio del 1980. Poche settimane dopo, a sostituirlo arriva il Capitano Mario D’Aleo, che, giovanissimo e senza alcune esperienza diretta di contrasto alla mafia, del tutto inaspettatamente decide di continuare il lavoro intrapreso da Basile, a sua volta stringendo un rapporto di grande fiducia con Bommarito e con il carabiniere scelto Morici, confermato nelle sue funzioni di autista.
Le indagini avviate da Basile riprendono vigore. I militari approfondiscono legami, relazioni, interessi economici. Indagano su attività imprenditoriali, riciclaggio, traffico di droga. Mettono le mani addirittura sulla famiglia Brusca di San Giuseppe Jato. È un lavoro instancabile che comincia a dar fastidio alle cosche e a chi le protegge. Nel dicembre del 1982, Damiani vene arrestato insieme a Onofrio Greco. È accusato di aver fatto scomparire un gruppo di estorsori che avevano preso di mira un imprenditore della zona, Greco appunto. Le indagini partono da un rapporto firmato proprio da Bommarito, che sorprende Damiani nel mobilificio Greco insieme a Ignazio Demma, già Sindaco di Monreale (lo sarebbe ridiventato nel 1985). Ma la carcerazione dura pochi mesi: i due vengono scarcerati nel marzo successivo e le dichiarazioni di Bommarito vengono pesantemente screditate dai giudici. D’Aleo, Bommarito e Morici si rendono conto che la situazione si fa di giorno in giorno più pericolosa, ma non si fermano. Fino a quel maledetto 13 giugno del 1983.
Il 13 giugno del 1983
Intorno alle 20 di quel lunedì, i tre militari lasciano la caserma di Monreale alla volta di via Cristofaro Scobar, dove il capitano D’Aleo vive con la sua compagna. Sono a bordo di una Ritmo blu. Morici guida, accanto a lui D’Aleo, dietro Bommarito. Quaranta minuti più tardi sono sotto casa dell’ufficiale. D’Aleo scende, Giuseppe fa altrettanto per passare davanti. È in questo istante che scatta l’agguato. Tre killer sparano con almeno quattro armi. D’Aleo, 29 anni, e Morici, 27 anni, rimango uccisi sotto i colpi di due pistole. Giuseppe invece, che di anni ne aveva 38, viene colpito alla testa da un fucile a pallettoni.
Vicenda giudiziaria
Le indagini sull’agguato di via Scobar stentano a decollare, tra intoppi e rallentamenti. Poi finalmente, a distanza di molti anni, le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Calogero Ganci e Francesco Paolo Anzelmo, danno una spinta decisiva, che porta alla sentenza di primo grado emessa il 16 novembre 2001 dalla Corte d’Assise di Palermo. Nella sentenza, che ha condannato all’ergastolo i mandanti e gli esecutori materiali del triplice omicidio, vengono puntualmente ricostruite le ragioni dell’agguato e il contesto in cui è maturato, con un riferimento costante al coraggio e alla determinazione di D’Aleo, Bommarito e Morici. A essere condannati sono Michele Greco, Totò Riina, Bernardo Provenzano, Pippo Calò, Giuseppe Farinella e Nenè Geraci, considerati i mandanti dell’agguato. Gli esecutori materiali furono individuati invece in Michelangelo La Barbera, Salvatore Biondino e Domenico Ganci, arrivati in via Scobar a bordo di un auto guidata proprio da quel Francesco Paolo Anzelmo, poi diventato collaboratore di giustizia.
Memoria viva
Il 31 agosto del 1983 a Pietro Morici - e naturalmente anche a D’Aleo e Bommarito - è stata conferita la Medaglia d’oro al valor civile alla memoria:
In servizio in una Compagnia Carabinieri operante in zona ad alto indice di criminalità organizzata, pur consapevole dei gravi rischi cui si esponeva, con elevato senso del dovere e sprezzo del pericolo svolgeva tenacemente opera intesa a contrastare la sfida sempre più minacciosa delle organizzazioni mafiose. Barbaramente trucidato in un proditorio agguato tesogli con efferata ferocia, sacrificava la sua giovane vita in difesa dello Stato e delle istituzioni.
A Pietro, nell’ottobre del 2010, è stata intitolata la caserma dei Carabinieri della sua città natale, Valderice. In sua memoria si corre una gara podistica e nel 2016, a Balestrate, città di origine di Giuseppe Bommarito, è stato inaugurato un Centro di aggregazione giovanile intitolato proprio ai tre carabinieri uccisi in via Scobar.