13 giugno 1983
Monreale (PA)

Mario D'Aleo

Nella storia della lotta alla mafia gli uomini - con le loro idee, il loro coraggio, la forza della loro coerenza - hanno fatto sempre la differenza. Perché nella vita ciò che conta non è mai solo il titolo che hai o la divisa che indossi, ma piuttosto come la indossi, come interpreti nella quotidianità il tuo ruolo. Anche nelle situazioni più delicate, dove non sempre è facile compiere le scelte giuste e dove, da queste scelte, può dipendere la tua stessa vita.

Nella storia della lotta alla mafia gli uomini - con le loro idee, il loro coraggio, la forza della loro coerenza - hanno fatto sempre la differenza. Perché nella vita ciò che conta non è mai solo il titolo che hai o la divisa che indossi, ma piuttosto come la indossi, come interpreti nella quotidianità il tuo ruolo. Anche nelle situazioni più delicate, dove non sempre è facile compiere le scelte giuste e dove, da queste scelte, può dipendere la tua stessa vita. Mario tutto questo lo sapeva bene quando arrivò a Palermo il 28 maggio del 1980. Era stato chiamato, nel pieno della seconda guerra di mafia, a comandare la Compagnia Carabinieri di Monreale. E non era un incarico qualunque, perché quel posto, fino a poche settimane prima, era stato occupato dal Capitano Emanuele Basile, protagonista di una straordinaria stagione di impegno investigativo e repressivo contro Cosa nostra, al punto da essere assassinato barbaramente, davanti alla moglie e alla figlia, nella notte tra il 3 e il 4 maggio. Arrivando a Monreale, contro ogni aspettativa, questo giovane ufficiale di appena 26 anni, senza esperienza diretta nel campo del contrasto alla mafia, sentì su di sé tutto il peso di quella eredità. E fece le scelte che forse da lui nessuno si aspettava. 

Mario D’Aleo era nato a Roma il 16 febbraio del 1954. Suo padre Salvatore, di origini siciliane, era un maresciallo dell’esercito, circostanza questa che pure deve avere avuto il suo peso nella decisione di Mario di intraprendere la carriera militare. Mamma Gabriella invece era una casalinga e si occupava di crescere i suoi tre figli - oltre Mario, il più piccolo, i gemelli Nino e Fausto. Era un bambino allegro, vivace e spensierato. Amava profondamente lo sport e il calcio in particolare. Anzi, a giocare a pallone Mario era particolarmente bravo. Ne aveva dato dimostrazione giocando nei campetti della capitale con gli amici, prima di capire che poteva fare sul serio. E cominciò a farlo, indossando dapprima la maglia della squadra parrocchiale del Quartiere Appio Latino,e poi finendo addirittura convocato nelle giovanili della Lazio, con cui disputò il campionato 1970/71. 

Due anni più tardi, la decisione che cambiò per sempre la vita di Mario. Dopo il diploma conseguito al Liceo scientifico “Cavour”, nel 1973 decide di arruolarsi nell’Arma dei Carabinieri. Lo fa seguendo un percorso di formazione di grande prestigio, frequentando l’Accademia di Modena e, successivamente, la Scuola Ufficiali di Roma. Viene nominato sottotenente il 20 ottobre 1975 e trasferito alla Scuola di Applicazione di Roma. Nel settembre del 1977 viene destinato alla Scuola Sottufficiali Carabinieri di Firenze per il 1° Battaglione Velletri. Promosso Tenente, continua nello stesso Comando di Corpo e quindi trasferito all'allora Legione Carabinieri di Palermo, dove assume appunto il Comando della Compagnia Carabinieri di Monreale. 

L’incarico a Monreale

Quello che era accaduto negli anni precedenti a Monreale è determinante per comprendere appieno ciò che accadrà dopo. Il Capitano Basile, un militare pugliese di 28 anni che aveva raccolto il testimone del capo della Squadra Mobile di Palermo Giorgio Boris Giuliano dopo il suo omicidio, aveva lavorato, fianco a fianco con altri militari - tra i quali in particolare il fedelissimo appuntato Giuseppe Bommarito - a indagini delicate e complesse. Il Capitano Basile seguiva un filone in particolare, quello sul ruolo e sulle relazioni di Salvatore Damiani, indiziato di mafia e di avere uno stretto collegamento con le famiglie mafiose di Altofonte e Corleone. Indagini che porteranno a importanti operazioni e, evidentemente, alla condanna a morte di Basile. Il Capitano riceve pressioni e minacce, schiacciato da un clima pesantissimo, che lo induce a chiedere il trasferimento nelle Marche. Ma non farà in tempo a lasciare Monreale. 
L’arrivo a Monreale di Mario D’Aleo matura in questo clima. Il Capitano arriva al comando della Compagnia senza nemmeno aver potuto acquisire le informazioni che il suo predecessore avrebbe potuto affidargli nel passaggio di consegne. Ad accompagnarlo come autista c’è un carabiniere di due anni più giovane, il trapanese Pietro Morici. Nessuno crede che il suo arrivo avrebbe potuto dare continuità al lavoro di Basile. Ma ben presto, tutti si devono ricredere. D’Aleo è un ufficiale autorevole e coraggioso. Quando incontra i fratelli di Emanuele Basile, promette loro che il suo sacrificio non sarebbe stato vano. 
D’Aleo, contando in particolare ancora su Bommarito, che considera l’anello di congiunzione, l’unico elemento di continuità tra Basile e lui, si rimette al lavoro sulle indagini del suo predecessore, ridando loro vigore. Il nome di Salvatore Damiani ritorna più volte nei loro rapporti e i due si convincono sempre di più che ci sia lui dietro l’omicidio di Basile. Approfondiscono legami, relazioni, interessi economici. Indagano su attività imprenditoriali, riciclaggio, traffico di droga. Mettono le mani addirittura sulla famiglia Brusca di San Giuseppe Jato. È un lavoro instancabile che comincia a dar fastidio alle cosche e a chi le protegge. Nel dicembre del 1982, Damiani vene arrestato insieme a Onofrio Greco. È accusato di aver fatto scomparire un gruppo di estorsori che avevano preso di mira un imprenditore della zona, Greco appunto. Le indagini partono da un rapporto firmato proprio da Bommarito, che sorprende Damiani nel mobilificio Greco insieme a Ignazio Demma, già Sindaco di Monreale (lo sarebbe ridiventato nel 1985). Ma la carcerazione dura pochi mesi: i due vengono scarcerati nel marzo successivo e le dichiarazioni di Bommarito vengono pesantemente screditate dai giudici. D'Aleo e Bommarito si rendono conto che la situazione si fa di giorno in giorno più pericolosa, ma non si fermano. Fino a quel maledetto 13 giugno del 1983. 

Il 13 giugno del 1983

Intorno alle 20 di quel lunedì, D’Aleo, Morici e Bommarito lasciano la caserma di Monreale alla volta di via Cristofaro Scobar, dove il capitano vive con Antonella, la sua compagna. Antonella aveva lasciato Roma per seguirlo e sono in procinto di sposarsi.
Sono a bordo di una Ritmo blu. Morici guida, accanto a lui D’Aleo, dietro Bommarito. Quaranta minuti più tardi sono sotto casa del capitano. D’Aleo scende, Giuseppe fa altrettanto per passare davanti. È in questo istante che scatta l’agguato. Tre killer sparano con almeno quattro armi. D’Aleo, 29 anni, e Morici, 27 anni, rimango uccisi sotto i colpi di due pistole. Giuseppe invece, che di anni ne aveva 38, viene colpito alla testa da un fucile a pallettoni. 
Il giorno del funerale, ad Antonella non fu permesso di sedersi nelle prime file della chiesa, perché non erano sposati. Una ferita nei confronti della donna che il capitano amava.

A mio fratello la mafia non diede neppure il tempo di formarsi una famiglia. Tre killers lo uccisero il 13 giugno 1983 a Palermo, in via Critstoforo Scobar. Si stava recando a casa della fidanzata Antonella. Gli telefonai intorno alle 21. Non rispose. Avrei voluto tirargli le orecchie perché si era dimenticato di farmi gli auguri per sant'Antonio, il mio onomastico. Lo seppi così che l'avevano ammazzato.
Antonino - fratello del Capitano D'Aleo

Vicenda giudiziaria

Le indagini sull’agguato di via Scobar stentano a decollare, tra intoppi e rallentamenti. Poi finalmente, a distanza di molti anni, le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Calogero Ganci e Francesco Paolo Anzelmo danno una spinta decisiva, che porta alla sentenza di primo grado emessa il 16 novembre 2001 dalla Corte d’Assise di Palermo. La lettura della sentenza, che ha condannato i mandanti e gli esecutori materiali del triplice omicidio, permette di ricostruire le ragioni dell’agguato e il contesto in cui è maturato, rievocando il coraggio e la determinazione di D’Aleo, Bommarito e Morici: 

Fin dal momento del suo insediamento, il Capitano D’Aleo aveva proseguito, con lo stesso zelo, l’attività di polizia giudiziaria del suo predecessore, volta a contrastare gli interessi mafiosi nel territorio ove imperversava la potente cosca di San Giuseppe Jato, comandata da Brusca Bernardo ed avente come referente, a Monreale, Damiani Salvatore (…) Può dunque affermarsi che l’omicidio del Capitano D’Aleo e degli altri due militari che lo accompagnavano, è da ascriversi a Cosa Nostra. Si volle così fermare l’azione di un coraggioso Carabiniere che avrebbe potuto ledere gli interessi ed il prestigio del sodalizio nel territorio del mandamento di San Giuseppe Jato, in quel periodo divenuto uno dei più importanti di Cosa Nostra. Addirittura, il Capitano D’Aleo stava mettendo in pericolo la latitanza di due boss del calibro di Bernardo Brusca e Salvatore Riina. Pertanto, è lecito ritenere che la motivazione dell’uccisione del Capitano D’Aleo risieda nella necessità di fermare un’azione di polizia giudiziaria che prima o poi avrebbe dato i suoi frutti con danni incalcolabili, essendosi peraltro acquisita la consapevolezza che ci si trovava di fronte ad un altro servitore dello Stato assai determinato e in grado di mettere a repentaglio lo stesso prestigio da sempre goduto dai mafiosi in quel territorio.
Corte di Assise di Palermo - sentenza n. 22 del 16 novembre 2001

Con queste motivazioni, furono condannati all’ergastolo Michele Greco, Totò Riina, Bernardo Provenzano, Pippo Calò, Giuseppe Farinella e Nenè Geraci, considerati i mandanti dell’agguato. Gli esecutori materiali furono individuati invece in Michelangelo La Barbera, Salvatore Biondino e Domenico Ganci, arrivati in via Scobar a bordo di un auto guidata proprio da quel Francesco Paolo Anzelmo, poi collaboratore di giustizia. 

Memoria viva

Il 31 agosto del 1983 a Mario D’Aleo è stata conferita la Medaglia d’oro al valor civile alla memoria. Nella motivazione, il riferimento al suo “elevato senso del dovere” e al suo tenace lavoro di contrasto alla mafia. Un lavoro per il quale Mario ha scelto di sacrificare “la sua giovane vita in difesa dello Stato e delle istituzioni”.

A lui, nel 2016, è stata intitolata la caserma dei Carabinieri di Palazzo Adriano, paese di origine del padre del Capitano D'Aleo. Nello stesso anno, a Balestrate, città di origine di Giuseppe Bommarito, è stato inaugurato un Centro di aggregazione giovanile intitolato proprio ai tre carabinieri uccisi in via Scobar. 
A maggio 2021 in sua memoria è stata affissa una targa anche nel cortile del Liceo Cavour di Roma, che aveva frequentato negli anni della giovinezza.

La giornalista Valentina Rigano e il marito Marco D’Aleo, nipote del capitano, hanno scritto il libro “Per sempre fedele”, raccontando la storia del giovane Capitano.

Abbiamo dato voce a Mario e a ciò che rappresenta volevamo fissare per sempre la vicenda di un giovane dal cuore grande, che ha interpretato il suo servizio come una missione e vestito la divisa lottando contro la mafia a neppure 30 anni: con la finale abbiamo raggiunto il nostro obbiettivo. Il mio, in particolare. Mario D’Aleo e i colleghi morti con lui sono il volto sano del nostro Paese. Un paese dove le persone che credono in quello che fanno, che lottano per i valori che sono tutto per una società civile, ci sono. Spesso, come nel caso del nostro capitano e di molti altri, le storie si perdono tra nomi più noti, tra tanti morti che purtroppo si susseguono e noi, chiamati a raccontare cosa accade, dobbiamo fare in modo che non si dimentichi. Il nostro in definitiva e’ un piccolo contributo alla memoria.
Valentina Rigano - giornalista