Emanuele Basile, terzo di cinque figli, nasce a Taranto, il 2 luglio 1949. È un ragazzo serio, dal cuore grande, legato alla sua famiglia. Ancora molto giovane decide di frequentare l'Accademia Militare di Modena. Terminati gli anni di formazione, dopo aver superato il test d’ammissione, si iscrive alla Facoltà di Medicina. Ma il suo forte senso di giustizia lo spinge ben presto a decidere di abbandonare l’università per intraprendere la carriera nell'Arma dei Carabinieri. Emanuele è capace e dedito al servizio così, già nel 1972 viene promosso Tenente e, come prima Compagnia comanda quella di Sestri Levante (GE). Sin da subito, si distingue in rischiose operazioni di servizio tanto che, ben presto, viene promosso Capitano e assegnato al nucleo investigativo di Palermo. Nel settembre 1977, diviene Comandante della Compagnia di Monreale, punto d’importanza strategica per il controllo e la lotta alla mafia. Emanuele è consapevole dei pericoli a cui si espone ma ciò non lo spaventa: si impegna con passione e dedizione in prolungate e difficili indagini sulla cosca mafiosa di Altofonte, la stessa sulla quale indagava il Capo della mobile di Palermo, Giorgio Boris Giuliano.
L’omicidio del commissario Giuliano
In seguito all’omicidio del commissario Giuliano nel luglio del 1979, a Emanuele viene affidato l’incarico di seguire le indagini e, grazie alla sua dedizione e alle sue spiccate qualità investigative, giunge a individuare esecutori e mandanti.
Decisive si rivelano le sue intuizioni non solo sull’omicidio Giuliano, ma soprattutto sul clan dei Corleonesi, in ascesa proprio in quegli anni, e sui grossi traffici di stupefacenti gestiti dalla famiglia di Altofonte. Le indagini portano Emanuele ad arrestare, il 6 febbraio 1980, i membri delle famiglie del mandamento di San Giuseppe Jato, Antonio Salamone e Bernando Brusca, e alla denuncia di altri sodali tra cui Leoluca Bagarella, Antonino Gioè, Antonino Marchese e Francesco Di Carlo. Ma soprattutto, le attività delle cosche inducono il Capitano a formulare l'ipotesi che le famiglie facessero capo a Salvatore Riina dei Corleonesi. Basile infatti, come Giuliano, è stato tra i primi a capire il peso dell'intromissione del clan corleonese nel traffico di droga e di stupefacenti.
Le parole che spiegano queste dinamiche sono racchiuse tutte nel suo rapporto del 16 aprile 1980 – che sarà l’ultimo - che consegnò nello stesso giorno, insieme ai faldoni con tutta la documentazione, al giudice Paolo Borsellino. Quelle parole, così chiare e precise, furono considerate troppo pericolose dalla mafia che decise di fargli pagare con la vita il suo alto senso di giustizia e di dedizione al dovere.
E la sua condanna a morte non si fa attendere.
L’attentato al Capitano Basile
È la sera del 4 maggio 1980 quando la sua giovane vita viene stroncata da un agguato mafioso.
Sono le ore 1.40, Emanuele sta rientrando in Caserma dopo aver assistito ai festeggiamenti per la festa patronale in onore del Santissimo Crocifisso quando viene colpito alle spalle, in mezzo alla folla, e crivellato di colpi da tre uomini di Cosa Nostra. Porta in braccio la figlioletta Barbara, di soli 4 anni, che si era addormentata al sicuro tra le sue braccia e che in un attimo si ritrovò a terrà tra il sangue del papà. Emanuele fa da scudo a sua figlia per proteggerla dai proiettili, compiendo l'ultimo gesto di amore e altruismo della sua giovane vita. Accanto a loro la moglie Silvana, che cerca invano di proteggere il marito, mettendosi sul bersaglio dei sicari; fortunatamente un colpo di pistola andrà a finire su un’agenda con copertina in argento massiccio che la donna aveva con sé, e che le salvò la vita. Emanuele viene subito trasportato in ospedale, ma a nulla servirà quella corsa disperata; morirà durante una delicata operazione chirurgica lasciando nel dolore la sua famiglia e il suo amico e giudice Paolo Borsellino.
Vicenda giudiziaria
I sicari furono arrestati poco dopo il delitto, mentre cercavano di far perdere le loro tracce. Si trattava di Armando Bonanno, poi sparito con la “lupara bianca”, Vincenzo Puccio, ucciso in carcere a colpi di bistecchiera in ghisa e Giuseppe Madonia, figlio del boss di San Lorenzo. Ma la vicenda giudiziaria è stata molto lunga e frastagliata. Il processo di primo grado, nonostante la testimonianza diretta della moglie Silvana, portò all'assoluzione dei tre che vennero scarcerati e inviati al soggiorno obbligato in Sardegna. La Corte d'Appello ribaltò l'esito della sentenza di primo grado condannando all'ergastolo gli assassini. Ma il processo fu annullato in Cassazione dal giudice Corrado Carnevale (soprannominato l'ammazza sentenze) per dei vizi di forma. La Corte d'Appello di Palermo presieduta dal giudice Antonino Saetta (poi ucciso da Cosa nostra il 25 settembre 1988) condannò nuovamente i colpevoli all'ergastolo, ma la Corte di Cassazione annullò il processo per difetto di motivazione. Bisogna arrivare sino al settimo processo, per vedere condannati in modo definitivo, sia gli esecutori che i mandanti: Totò Riina, Michele Greco e Francesco Madonia. Inoltre, Giovanni Brusca ha ammesso di aver collaborato nella progettazione dell’omicidio.
Mio fratello Emanuele sapeva che la mafia l'avrebbe fatto fuori. E io mi chiedo sempre: come fa un giovane Capitano dei Carabinieri, di 30 anni, sapendo che deve morire, a continuare a operare? La risposta è una sola: lui ha sempre creduto nell’Arma, ha sempre creduto nella legge e nella giustizia! E con coraggio, fino all'ultimo, ha onorato il giuramento prestato all'Arma.
Memoria viva
Al Capitano Emanuele Basile sono dedicati tre presidi di Libera: quello di Ginosa, di Leonforte e di Manduria.
Il consorzio Libera Terra Mediterraneo ha dedicato alla sua memoria il vino Syrah "Marne di Saladino".