Parole di memoria

Mio padre, Antonino Saetta

Mio padre, Antonino Saetta

A 34 anni dalla barbara uccisione di Antonino e Stefano Saetta, vogliamo ricordarli attraverso una lettera di Roberto Saetta, scritta in occasione del 30^ anniversario dell'omicidio.

Antonino Setta è forse il più ignorato o dimenticato, tra i magistrati vittime della mafia.

Mi è capitato, varie volte, di vedere, con piacere, che persino in piccoli e sperduti paesini dell'Umbria o della Toscana, o di altre regioni, ci sono strade o scuole intitolate a grandi Magistrati siciliani, caduti per mano mafiosa, come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, qualche volta anche a Rosario Livatino.

Si contano, invece, sulle dita forse di una mano soltanto i Comuni nei quali esistono strade o scuole intitolate al Magistrato Antonino Saetta, sebbene la sua uccisione abbia rappresentato uno degli episodi più importanti, più inquietanti e più sconcertanti nella lotta della mafia contro lo Stato.

Non solo perchè Antonino Saetta, quando è stato ucciso, era un magistrato di un livello piuttosto elevato in carriera, ma, soprattutto, perchè, per la prima volta nella nostra Storia, insieme con il magistrato, vittima designata, veniva ucciso anche uno dei suoi figli ed anche perchè, per la prima  volta, veniva ucciso un magistrato con funzioni giudicanti, anzichè inquirenti, ossia un soggetto che non ha il compito di combattere la mafia, ricercandone i componenti o svelandone le trame, ma ha il compito di applicare la Legge, in nome del Popolo Italiano, in posizione di terzietà, tra le ragioni dell'accusa e quelle della difesa.

A causare l'oblio hanno contribuito probabilmente vari fattori, fra cui la sua poca notorietà da vivo, dovuta al tipo di funzioni svolte, generalmente piuttosto lontane dai riflettori e dall'attenzione della stampa, e la sua lontananza verso organizzazioni politiche, sindacali, religiose. Soggetti che, spesso, hanno svolto un ruolo attivo nel mantenere vivo il ricordo di una vittima del dovere percepita come a loro vicina.

Mio padre era originario di Canicattì.

Entrò piuttosto giovane in Magistratura, all'età di 26 anni, nel 1948. Per quel che lui sapesse, era stato il primo canicattinese a divenire magistrato, nel corso del novecento.

Uno dei valori più cari ad Antonino Saetta, nell'esercizio della sua attività, era quello dell'indipendenza del Magistrato.

Indipendenza, anzitutto, da poteri politici e da interferenze di qualsiasi genere. Indipendenza, anche, da eventuali pressioni dell'opinione pubblica, che, in determinate circostanze, per ragioni emotive, può essere spinta a condizionare, in senso colpevolista o innocentista, l'esercizio dell'attività giurisdizionale, che, invece, secondo Antonino Saetta doveva essere sempre libero ed indipendente.

Ma indipendenza, anche e soprattutto, da tentativi di condizionamento e intimidazione provenienti dalla mafia, cui Antonino Saetta resistette in due importanti processi da lui presieduti in grado d'appello, come quello relativo ai responsabili della strage Chinnici, celebratosi qui a Caltanissetta, e quello relativo agli assassini del cap. Emanuele Basile, celebratosi a Palermo, In questi processi, si assistette ad un aumento delle pene e delle condanne rispetto ai giudizi di primo grado, evento non molto frequente in grado di appello, dove, solitamente, si verifica il contrario. Per giungere a tali risultati, del resto conformi alle risultanze processuali e probatorie, Antonino Saetta dovette spesso fare uso di tutta la sua autorità di Presidente, in seno al Collegio Giudicante, ove, come è stato poi accertato, taluni giudici popolari erano stati avvicinati ed intimiditi da soggetti mafiosi.

La mafia non perdonò ad Antonino Saetta la sua fermezza e, in particolare, Totò Riina e Francesco Madonia, allora capi indiscussi della mafia palermitana, non gli perdonarono la condanna all'ergastolo degli assassini del capitano Basile, uno dei quali figlio di Francesco Madonia.

L'uccisione avvenne nei pressi di Canicattì, con la collaborazione della mafia canicattinese, nel Settembre 1988.

Nell'agguato, morì, crivellato di colpi, anche il figlio Stefano.

Pochissime notizie si trovano su Stefano e, spesso, si tratta di notizie inesatte o del tutto irreali. Per esempio, nel film, di alcuni anni fa, "Il Giudice Ragazzino", Stefano viene, di sfuggita, raffigurato come un invalido, allo stato vegetativo, sulla sedia a rotelle.

Nulla potrebbe essere più lontano dalla realtà.

Nessuna malattia è offensiva od infamante, ma, per rispetto della verità, bisognerebbe attribuire ad ognuno le malattie che ha, non quelle che non ha.

Stefano, fisicamente, stava benissimo. Praticava anche degli sport: era un ottimo nuotatore; giocava spesso a calcio e faceva lunghissime passeggiate. Era poi una persona socievole con tutti, spiritosa, con molti interessi culturali, in particolare era appassionato di cinema. Aveva avuto, però, dei disturbi di tipo psichiatrico, da adolescente, con diverse ricadute anche negli anni successivi, che lo avevano costretto ad abbandonare gli studi. Per tale ragione, gli era stata riconosciuta l'invalidità. Lui teneva spesso con sè questa tessera, che gli dava diritto ad una riduzione sul biglietto del cinema. Quando fu ucciso, fu trovata questa tessera e qualcuno immaginò che fosse un paralitico, dando luogo involontariamente ad una notevole disinformazione sul suo conto.

Nel concludere, voglio ripetere qui, per Antonino e Stefano Saetta, ma anche per le tante altre vittime della criminalità mafiosa, note o meno note, le toccanti parole che, nel 1968, il primo ministro indiano Indira Gandhi (che poi, a sua volta sarebbe stata assassinata) pronunciò, per le esequie di Martin Luther King:

"Egli non è qui con noi, ma ne sentiamo lo spirito.

La tragedia ha ravvivato il ricordo dei grandi martiri di tutti i tempi, che hanno dato la loro vita perchè altri uomini potessero vivere e prosperare.

Tali eventi rimangono come ferite nella coscienza umana, richiamandoci alla mente battaglie ancora da combattere e traguardi ancora da raggiungere.

Non dovremmo piangere per la morte degli uomini di alti ideali.

Piuttosto, dovremmo gioire per il privilegio di averli avuti con noi, ad ispirarci con la loro radiosa personalità".

Roberto Saetta