Mafia e rifiuti sono sempre stati un binomio inscindibile. Il giro di affari che ruota attorno al servizio di raccolta, trattamento e smaltimento della spazzatura non ha mai smesso di fare gola alle organizzazioni criminali, che ovunque hanno provato a monopolizzarlo, a infiltrarlo, a gestirlo più o meno direttamente. Troppo spesso ci sono riuscite. Altre volte, quando c’è stato bisogno di far capire come stavano le cose e come dovevano andare, non hanno esitato a usare la violenza per lanciare i propri messaggi. Con la spazzatura non si scherza, perché vale oro. Di più finanche della vita umana. A Lamezia Terme, nel 1991, addirittura più di due vite, quelle innocenti di Pasquale Cristiano e Francesco Tramonte.
Pasquale era nato il 20 settembre del 1963 a Nicastro, uno dei tre comuni, insieme a Sambiase e Sant’Eufemia Lamezia, che, nel gennaio del 1968, furono uniti per dare vita alla città di Lamezia Terme. Era il secondo di sei fratelli nati dal matrimonio tra Vincenzo Cristiano e Rosa Gigliotti. Una famiglia semplice e unita. Pasquale era una ragazzo buono e generoso, sempre disponibile ad ascoltare e aiutare gli altri. Valori di solidarietà ai quali si era formato anche grazie all’esperienza vissuta negli scout, di cui era capo. Nel 1991 non aveva ancora compiuto 29 anni. Era felice perché da poco, nel 1989, era stato assunto dal Comune come addetto alla pulizia delle strade. Un lavoro umile che però gli dava sicurezza e tranquillità, consentendogli anche di dare una mano alla sua numerosa famiglia. E poi era riuscito a costruire un bel rapporto di amicizia con alcuni colleghi, e tra questi in particolare con Francesco Tramonte, una decina di anni più grande di lui e, come lui, un uomo perbene, onesto, generoso.
Da bambino Pasquale era stato investito da un auto, un brutto incidente che aveva provocato conseguenze piuttosto serie. Vincenzo, suo padre, lo aveva accompagnato negli ospedali di Bologna, di Genova per cercare una cura, ma nessun medico era riuscito a trovarla. Le crisi epilettiche potevano essere un problema sul lavoro e così, una volta assunto, era stato destinato al lavoro di spazzamento delle strade, esonerato dai turni di notte e dal lavoro sugli autocompattatori. Quella mattina del 24 maggio, dunque, Pasquale su quel camion non ci sarebbe dovuto essere. E non ci sarebbe dovuto essere neanche Francesco. Ma l’assenza di due dipendenti della SEPI, la ditta cui il Comune aveva affidato il servizio della nettezza urbana in città, li aveva costretti al turno di notte per la raccolta dei rifiuti. Una squadra di cui faceva parte anche Eugenio Bonaddio, a differenza loro dipendente della SEPI e già destinato a quella mansione.
Il 24 maggio del 1991
La sveglia quella notte era suonata alle 3.00. Pasquale aveva accettato quella sostituzione anche perché lo stesso aveva fatto Francesco. In fondo, si trattava di coprire un solo turno, poi entrambi sarebbero tornati alle loro mansioni di netturbini. Intorno alle 4.00, i tre si ritrovarono in piazza San Giovanni, nei pressi dell’ex hotel Centrale di Lamezia, divenuto il centro comunale della nettezza urbana. Salirono a bordo del mezzo per la raccolta dei rifiuti - Bonaddio guidava, Pasquale era seduto al centro e Francesco alla sua destra - e cominciarono il loro giro. Un’oretta dopo, giunsero in contrada Miraglia, una zona piuttosto isolata e degradata nella parte nord di Sambiase. Accadde tutto in pochi istanti. Prossimi a fermarsi accanto ad alcuni cassonetti, i tre videro piazzarsi davanti al mezzo un uomo con in mano un mitra. Le perizie balistiche stabiliranno in seguito che si trattava di un’arma da guerra di fabbricazione statunitense, un Kalashnikov calibro 7,62. L’uomo ordinò ai tre di scendere dal camion ma non gli diede il tempo di farlo. Appena Francesco aprì lo sportello, il killer cominciò a sparare all’impazzata. Alla fine, si contarono 22 colpi, molti dei quali crivellarono Francesco. Uno solo ma mortale, attraversato il corpo di Francesco, colpì alla testa Pasquale. Morirono entrambi sul colpo. Bonaddio invece si catapultò dal mezzo e riuscì a scappare, salvandosi la vita. Una mattanza, un’esecuzione in puro stile terroristico.
Fino al giorno della loro morte, papà Vincenzo e mamma Rosa, scomparsi il primo nel 2000 e la seconda nel 2020, non hanno mai smesso, insieme a tutti gli altri loro figli, di chiedere per Pasquale verità e giustizia. Ci hanno provato in tutti i modi, mantenendo costantemente viva la memoria del loro ragazzo. Due anni dopo l’agguato, le famiglie di Pasquale e Francesco si incontrarono nella memoria dei loro cari assassinati, unendo le forze in una battaglia comune per far venire a galla la verità, anche con gesti eclatanti, come quando, nel 2013, inscenarono un sit-in dinanzi al Palazzo di Giustizia. Poi, il legame tra queste due famiglie è diventato ancora più profondo quando, nel 2006, Maria Tramonte, la prima figlia di Francesco, e Antonio Cristiano, uno dei fratelli di Pasquale, si sono sposati.
Vicenda giudiziaria
Il movente apparve agli inquirenti immediatamente chiaro. Le due vittime di cotanta brutalità erano incensurate e totalmente estranee a qualsiasi contesto criminale. Non erano state individuate deliberatamente da chi aveva ideato quell’agguato, ma erano state scelte a caso. Insomma, bisognava dare un segnale chiaro per far capire a chi doveva capire che la spazzatura era un affare nel quale la ‘ndrangheta voleva entrare e dettare le sue regole. Chi fosse morto, era indifferente. Toccò a Pasquale e Francesco essere il monito per quanti, negli ambienti politici e non solo, dovevano convincersi di avere a che fare con le cosche quando si parlava di nettezza urbana. Il servizio era stato esternalizzato nel 1988 e, da allora, era stato monopolizzato dalla SEPI e dal Consorzio CISE. Eppure, il Comune aveva tutte le carte in regola per gestire in proprio quel servizio, compresi 14 autocompattatori e 39 operai specializzati. Era chiaro che qualcosa non andava. Lo evidenzierà anche la sentenza della Corte d’Assise, la sola che scrive qualcosa su questa storia: "all’efferato fatto di sangue - vi si legge - venne immediatamente ed esattamente conferita una matrice mafiosa che lo collocava nella cruenta lotta apertasi tra gruppi mafiosi per assicurarsi l’appalto del servizio di nettezza urbana della città di Lamezia Terme, appalto che sino ad allora era stato conferito con procedura di dubbia legalità e con dispendio sproporzionato di pubblico denaro ad imprese non immuni da sospetti di contiguità al mondo mafioso”.
Alla sentenza si era arrivati nell’unico processo sul duplice omicidio, avviato grazie alle dichiarazioni di Bonaddio, che aveva descritto il killer, individuato in Agostino Isabella, un uomo vicino agli ambienti della ‘ndrangheta e a persone già indagate per altri omicidio commessi utilizzando armi simili al mitra che aveva assassinato Pasquale e Francesco. La decisione della Corte assolse Isabella per non aver commesso il fatto. Il processo di appello non si è mai svolto: la richiesta fu depositata dal PM con alcuni giorni di ritardo e ritenuta inammissibile. La sentenza di assoluzione di Isabella, morto poco dopo per una malattia al fegato, è diventata definitiva il 18 luglio del 1996. Da allora, più niente, se non alcune dichiarazioni rilasciate dal pentito Giovanni Governa nel 2010 ma ritenute del tutto inattendibili. Ad oggi, i nomi di chi ha deciso la morte di questi due onesti lavoratori e di chi ha premuto il grilletto restano sconosciuti. I familiari di Pasquale ricordano spesso come l’unico ad aver indagato seriamente su quei fatti sia stato l’ispettore Salvatore Aversa, ucciso a sua volta, insieme alla moglie Lucia Precenzano, il 4 gennaio del 1992. Aversa aveva indagato anche sugli intrecci tra mafia e politica nel comune di Lamezia. Il 13 maggio del 1991, undici giorni prima di quel delitto terribile, i cittadini lametini avevano eletto la nuova Amministrazione comunale. Il 30 settembre dello stesso anno il Presidente della Repubblica firmò il decreto di scioglimento del Consiglio comunale per infiltrazioni mafiose, anche basandosi sulle evidenze emerse dalla indagini di Aversa.
Memoria viva
A Pasquale e Francesco è dedicato il Coordinamento provinciale di Libera a Catanzaro. Ogni anno, all’alba, il sacrificio di queste due giovani vittime innocenti viene ricordato sul luogo del delitto, dove sono stati piantati anche due alberi di limoni a loro intitolati.
La trasmissione LaC Dossier nel maggio del 2018 ha dedicato una puntata alla storia di Pasquale e Francesco, “La strage dei netturbini”.
Il loro nome è associato inoltre a un premio che, annualmente, viene conferito a studenti universitari e delle scuole superiori. Nel febbraio del 2021, infine, è stato ideato il Premio d’Arte TeC, una testimonianza artistica per ricordare e chiedere verità e giustizia per Pasquale Cristiano e Francesco Tramonte.
Erano all’incirca le sei quando sono arrivati due uomini del Comune. Io mi sono affacciato e ho chiesto che cosa volessero. Loro mi hanno risposto che avevano sparato a mio fratello. Io non ho creduto. A quelle parole e, come se nulla fosse accaduto, mi sono preparato per andare a lavorare sul cantiere. Le stesse persone, però, mi hanno raggiunto più tardi e mi hanno ripetuto che Pasquale era stato ammazzato. A quel punto ho capito che era tutto vero e con loro siamo andati in campagna, dove lavorava mio padre Vincenzo, per informarlo di quanto era accaduto. Tutti insieme poi abbiamo raggiungo il centro storico di Sambiase, in località Miraglia, dove c’era il camion con mio fratello morto. Ma i carabinieri non ci hanno fatto avvicinare. Poi con papà siamo tornati a casa e abbiamo informato dell’accaduto mia madre e i miei fratelli. Eravamo tutti disperati.