6 gennaio 1980
Palermo (PA)

Piersanti Mattarella

Razionalizzazione, trasparenza, rigore sono alcune delle parole d'ordine dell'azione riformatrice messa in atto da Mattarella, volta a bloccare quel circuito perverso tra mafia e amministrazione pubblica che dominava la scena politica siciliana di quegli anni.

Tra gli anni ’50 e ’60 del secolo scorso, la città di Palermo fu protagonista della più massiccia speculazione edilizia della storia italiana. Un vero e proprio assalto alla città, condotto sulla spinta della domanda di case che il processo di inurbamento seguito al secondo conflitto mondiale aveva generato, ma che produsse un drammatico stravolgimento dell’assetto urbanistico del territorio, avvenuto a spese di alcune delle aree e degli edifici storici più belli della città. Il famigerato Sacco di Palermo fu un’occasione ghiottissima per Cosa nostra, che se ne rese protagonista indiscussa, facendo leva sui propri referenti politici nell'amministrazione comunale, a cominciare da Salvo Lima e Vito Ciancimino. Al grido di “Palermo è bella, facciamola più bella” - il motto del rampantismo della Democrazia Cristiana al potere - la città cambiò tristemente volto.

È in questi anni assai difficili che si affaccia sulla scena politica cittadina un altro esponente della DC. Si tratta di quel Piersanti Mattarella che, con la sua storia e il suo impegno politico, segnerà una vera e propria rottura nello schema di potere mafia-politica che teneva saldamente nelle mani le redini della città. Una crepa che comincia a segnare quel sistema sin dal 1964, anno della sua prima elezione al Consiglio comunale.

Piersanti era nato il 24 maggio del 1935 a Castellammare del Golfo, in provincia di Trapani, secondogenito di Maria Buccellato e Bernardo Mattarella, uomo di punta della DC, più volte Ministro della Repubblica. Una famiglia importante, molto cattolica e dalle frequentazioni prestigiose. A battezzarlo fu, ad esempio, Pietro Mignosi, tra i più stimati filosofi e docenti universitari dell’epoca, con cui Bernardo ebbe un rapporto assai profondo.

Nel 1948, ancora adolescente, Piersanti si trasferisce a Roma con la sua famiglia, che intanto si era allargata con la nascita di Sergio, nel 1941. Qui studia presso l’Istituto San Leone, gestito dai Fratelli maristi, per poi laurearsi a pieni voti in Giurisprudenza alla Sapienza, con una tesi in economia politica sui problemi dell’integrazione economica europea.

Dal racconto dei suoi amici, emergono i tratti di un ragazzo serio ma, al tempo stesso, assai gioviale, equilibrato e sempre pronto a dispensare consigli. In questi anni si avvicina agli ambienti dell’Azione Cattolica, aderendo a quella dottrina sociale della Chiesa che negli anni successivi avrebbe ispirato in maniera determinante il suo impegno pubblico. Nel 1958 decide di tornare in Sicilia, dove diventa assistente di Diritto privato all’Università di Palermo e dove sposa Irma Chiazzese. Dal matrimonio nasceranno due figli, Maria e Bernardo.

Tra il 1962 e il 1963, aderisce formalmente alla Democrazia Cristiana, dando avvio così ad un percorso politico che mai più si interromperà. La dimensione di questo impegno pubblico è totalizzante: dal 1964, anno della sua prima elezione in Consiglio comunale, al 1980, anno del suo assassinio, la sua carriera politica è un crescendo costante, fatto di traiettorie sempre più prestigiose. Eppure, Piersanti riesce sempre a riservare un posto fondamentale agli affetti più cari, che si sforza con naturalezza di non trascurare.

Papà aveva la straordinaria capacità di non portare a casa le preoccupazioni e lo stress del lavoro. Con noi era sempre allegro e sereno. Non aveva molto tempo da dedicarci ma ci chiedeva sempre della scuola, delle amicizie…Lo abbiamo visto inquietarsi molto di rado. Ricordo che in un paio di occasioni mise un veto tassativo alla nostra partecipazione a feste o cene alle quali era prevista la presenza di figli di persone chiacchierate per i rapporti con la mafia.
Maria, figlia di Piersanti Mattarella (dal libro “Piersanti Mattarella. Da solo contro la mafia” di Giovanni Grasso”)

È un uomo affettuoso, attento alle dinamiche familiari e alle esigenze dei figli. Ogni giorno si sforza di trovare il tempo di rientrare a casa per pranzo, per trascorrere qualche ora con i suoi cari. Ma occuparsi di politica - in quegli anni, in quel contesto e con lo spirito con cui lo faceva lui - non lascia molto spazio ad altro. La città è avviluppata in un sistema di potere che ne sta massacrando il volto più bello, fatto di palazzi storici e giardini monumentali. La commistione tra mafia e politica è un elemento connaturato alle istituzioni cittadine e rimanerne fuori richiede attenzione e coraggio. Piersanti ne è profondamente consapevole, e sceglie da che parte stare.

Gli 11 mila voti che lo portano in Consiglio comunale sono solo il primo passo di una lenta ma inesorabile progressione. Nel 1967 si candida alle elezioni regionali e viene eletto con 34 mila preferenze, che diventeranno oltre 40 mila nel 1971 e oltre 60 mila nel 1967. Anche qui, un crescendo straordinario. E subito, entrato nell’Assemblea regionale siciliana, imprime un’impronta inconfondibile al suo impegno politico.

È un’impronta che ricorda la lezione di Giorgio La Pira e Aldo Moro. L’impronta di un cattolicesimo democratico che va di pari passo con una profonda azione moralizzatrice della politica e guarda, con inusuale coraggio e lungimiranza, a una nuova stagione di apertura a sinistra. Piersanti si fa interprete autentico di questa spinta innovatrice, tentando di applicarla anzitutto al contesto siciliano.

Nel giugno del 1970, attraverso le pagine di Sicilia domani, mette nero su bianco i mali della politica regionale, denunciandone storture, criticità e zone d’ombra. Scrive della prassi clientelare che pervade l’azione politica dei suoi colleghi, stigmatizza l’eccesso di incarichi che ingolfa la macchina del governo, propone una riforma elettorale, il taglio e la rotazione dei ruoli di governo e di sottogoverno. E parla di mafia, esigendo un rinnovamento e un impegno più incisivo su questo fronte anche nel suo partito. Da questo punto di vista, il rapporto di profonda comunanza con Aldo Moro lo rafforza e gli apre ampi spazi di manovra, come quando riesce ad ottenere l’elezione a segretario regionale di Giuseppe D’Angelo.

Tra il 1971 e il 1978 è assessore regionale al Bilancio. Un incarico di peso, che Mattarella ricopre con rigore e incisività, facendo votare ben otto rendiconti arretrati e, soprattutto, ottenendo l’approvazione dei bilanci di previsione nei termini di legge, evitando così l’odiosa prassi dell'esercizio provvisorio. Fino all’approvazione, anche con i voti dei comunisti, del Piano regionale d'interventi per gli anni 1975-1980, il primo organico tentativo di programmazione a lungo termine delle risorse regionali. Una rivoluzione per la Sicilia.

I meriti di Mattarella sul campo sono indiscutibili. Se ne convince sempre di più anche Moro, che, dopo il congresso del ’76, lo chiama ad importanti incarichi di partito, dapprima nel Consiglio nazionale e poi nella Direzione nazionale della Democrazia Cristiana. Una stagione in cui la relazione con il Presidente del partito si fa sempre più intensa e in cui il suo peso politico nel partito si fa sempre più determinante. Piersanti lo interpreta nel segno di quella “funzione autenticamente popolare della DC, che non è mai stato un partito dei conservatori o di chi ha tutto conseguito, ma al contrario l'espressione, per la sua vera ispirazione cristiana, dell'esigenza di cambiamento, per il progresso civile, un più accentuato sviluppo democratico, una maggiore giustizia sociale”. Parole che sono il manifesto della sua visione del partito e dell’impegno politico ma che, pronunciate a Palermo, stridono con una realtà ben diversa.

Il sequestro Moro

La carriera politica di Piersanti Mattarella raggiunge l’apice il 9 febbraio del 1978. Con 77 voti su 100, viene eletto Presidente dell’Assemblea regionale siciliana, ottenendo lo storico risultato dell’appoggio esterno del Partito comunista. Accetta l’incarico con una riserva, che scioglierà il 14 marzo per entrare ufficialmente in carica il 21 dello stesso mese.

Cinque giorni prima, il 16 marzo, a poche ore dalla presentazione del quarto governo Andreotti, che avrebbe visto per la prima volta a livello nazionale il voto favorevole dei comunisti e il loro ingresso in maggioranza, Moro era stato rapito da un commando delle Brigate Rosse. 55 giorni dopo, il corpo del Presidente DC fu trovato nel bagagliaio di un’auto parcheggiata in via Caetani, a Roma.

Il rapimento, e poi la morte, di Aldo Moro sono per Piersanti un colpo durissimo. Vorrà essere personalmente in via Caetani la mattina del 9 maggio del 1978, e, due giorni dopo, racconterà così quegli attimi al Giornale di Sicilia: “una mano sollevò una punta della coperta e vidi il volto di Aldo Moro e, durante tutte le complicate e forzatamente lente operazioni degli artificieri, la commozione fu solo superata con la preghiera e con la consapevolezza che il colpo dato alle nostre istituzioni è talmente grave che è indispensabile iniziare subito con razionalità a operare per difenderle”. Lui, Piersanti, era stato lo sperimentatore, in Sicilia, di quelle convergenze che Aldo Moro stava tentando di costruire a Roma. Il rapimento e la morte del suo mentore avevano il sapore di un triste presagio.

L’azione politica riformatrice

Tuttavia, Mattarella non demorde e, alla guida del governo regionale e di uno staff di alto profilo, avvia una profonda azione riformatrice. Ottiene, tra l’altro, l’approvazione di una legge urbanistica e una sugli appalti che favoriscono trasparenza e imparzialità, riformando il sistema di collaudo delle opere pubbliche. Norme che assestano colpi durissimi a quel sottobosco di speculatori politico-mafiosi e di costruttori che aveva distrutto la città. Nel ’79, dopo una veloce crisi, insedia il secondo governo regionale con la sua guida, dando seguito al lavoro già avviato.

Ci sono alcuni episodi, in questi anni, che testimoniano una volta di più i valori ai quali Mattarella aveva deciso di ispirare la sua azione politica. Come quando partecipò ai funerali di Peppino Impastato, pronunciando parole di fuoco contro la mafia, tra l’incredulità dei compagni di Peppino. Oppure quando, alla Conferenza regionale dell’agricoltura del 1979, di fronte alle accuse di corruzione e collusione mosse da Pio La Torre all'Assessorato dell'agricoltura, lui riconobbe pienamente la necessità di correttezza e legalità nella gestione dei contributi agricoli regionali, spiazzando tutti.

6 gennaio 1980

L’Epifania del 1980 arriva di domenica. Piersanti è alla guida della sua Fiat 132 in via della Libertà, poco lontano da casa, diretto alla messa del mattino. Accanto a lui, sul sedile davanti, c’è sua moglie Irma. Dietro, sua suocera Franca e sua figlia Maria.

L’azione del killer è fulminea: impugna una rivoltella calibro 38, si avvicina al finestrino lato guida e spara 5 o 6 colpi. Piersanti si accascia sulle gambe di Irma mentre l’assassino si allontana verso una Fiat 127 ferma a pochi metri. Chi la guida consegna al killer un’altra pistola. L’uomo torna verso l’auto di Mattarella e spara di nuovo. Per Piersanti non c’è alcuna possibilità di salvarsi. La 127 sarà ritrovata a 700 metri dal luogo dell’omicidio.

Tra le tante persone che accorrono subito sul luogo dell’agguato c’è Sergio, il fratello minore di Piersanti. E c’è una fotografa, Letizia Battaglia. È lei a scattare una foto che sarebbe poi diventata iconica, in cui si vede il futuro Presidente della Repubblica tenere tra le braccia suo fratello esanime e tirarlo fuori dall’abitacolo. È lo scatto simbolo di una tragedia sulla quale le indagini, lunghe e lente, non sono riuscite a fare pienamente luce.

Vicenda giudiziaria

Nell’immediatezza del fatto, gli inquirenti inseguono la pista di un attentato terroristico, spinti in quella direzione da una telefonata di rivendicazione di un sedicente gruppo neofascista. Poi si fa strada l’ipotesi, sempre più accreditata, di un delitto politico-mafioso. Vanno in questa direzione le parole, pesanti come macigni, pronunciate dal cardinale Salvatore Pappalardo nel corso dei funerali:

Una cosa sembra emergere sicura, ed è l'impossibilità che il delitto sia attribuibile a sola matrice mafiosa. Ci devono essere anche altre forze occulte, esterne agli ambienti, pur tanto agitati, della nostra Isola. Palermo e la Sicilia non possono accettare o subire l'onta di essere l'ambiente in cui ha maturato l'atroce assassinio.
Cardinale Salvatore Pappalardo, arcivescovo di Palermo, ai funerali di Piersanti Mattarella, 8 gennaio 1980

Un contributo decisivo alle indagini arriva dalle dichiarazioni di Cristiano Fioravanti, neofascista romano, arrestato nell’aprile del 1981. È lui a consegnare a Giovanni Falcone, tra l’82 e l’85, alcuni elementi di conoscenza sul delitto Mattarella. Fioravanti attribuisce la responsabilità dell’omicidio a suo fratello Valerio e a Gilberto Cavallini, entrambi esponenti del NAR. Poi con Falcone cominciano a parlare anche alcuni mafiosi di primissimo livello. Il primo è Tommaso Buscetta, che, nel luglio del 1984, riconduce con certezza l’omicidio ad una decisione della “Commissione” mafiosa. Le indagini su questo filone sarebbero dovute finire nel maxiprocesso, ma vengono stralciate per consentire ulteriori approfondimenti. Nell’ottobre dell’89 è la volta di Francesco Marino Mannoia, che, parlando ancora al giudice Falcone, conferma la matrice mafiosa dell’agguato ed esclude il coinvolgimento di ambienti politici.

Le risultanze delle indagini di Giovanni Falcone finiscono nella famosa requisitoria di 1690 pagine sui delitti politici siciliani, l’ultimo lavoro investigativo di Falcone, depositato nel marzo del 1991. Secondo l’ipotesi contenuta nella requisitoria, gli esecutori sono stati Fioravanti e Cavallini, ma in un contesto di cooperazione tra Cosa Nostra, il terrorismo nero, la P2 e ambienti riconducibili alla banda della Magliana.

Nel giugno 1991, vengono rinviati a giudizio i membri della Cupola di Cosa nostra - Michele Greco, Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Giuseppe Calò, Bernardo Brusca, Francesco Madonia, Antonino Geraci - come mandanti. Delitti eccellenti come quelli di Mattarella e La Torre non potevano avvenire senza il loro assenso. Giuseppe Valerio Fioravanti e Gilberto Cavallini vengono invece individuati quali esecutori materiali. È interessante rileggere le parole di Falcone, poi integralmente riprese dal giudice istruttore Gioacchino Natoli:

Per le considerazioni già svolte, deve ritenersi provato che l'omicidio di Piersanti Mattarella fu materialmente eseguito da Valerio Fioravanti e Gilberto Cavallini. Dalle fonti di prova esaminate è risultato, altresì, che l'omicidio del Presidente della Regione Siciliana fu un omicidio politico-mafioso, attuato in virtù di uno specifico pactum sceleris intervenuto fra i detti esponenti della destra eversiva e Cosa Nostra. […] Più particolarmente, per quanto riguarda questo gravissimo episodio criminoso, la genesi logica della scelta, da parte di Cosa Nostra, di due esponenti del terrorismo nero quali esecutori materiali deve essere individuata nella eccezionalità del crimine, le cui motivazioni trascendevano la ordinaria logica dell'organizzazione mafiosa e coinvolgevano interessi politici che dovevano restare assolutamente segreti, nonché nel momento storico che questa criminale associazione attraversava per dinamiche interne.
Ordinanza-sentenza del Giudice Istruttore (pp.897-898)

Il processo di primo grado si apre il 12 aprile 1992 nell'aula bunker del carcere dell'Ucciardone per chiudersi tre anni più tardi con la condanna all’ergastolo dei boss Riina, Greco, Brusca, Provenzano, Calò, Madonia e Geraci, individuati quali mandanti. Assolti dall’accusa di essere gli esecutori, invece, Valerio Fioravanti e Gilberto Cavallini. Il movente del delitto è da ricercarsi, secondo la sentenza, nella volontà di Mattarella di “bloccare quel perverso circuito (tra mafia e pubblica amministrazione) incidendo così pesantemente proprio su questi illeciti interessi”. A ordinare l’omicidio era stata dunque Cosa nostra, determinata a bloccare il processo di modernizzazione dell’amministrazione regionale che Mattarella intendeva portare avanti, in particolare contrastando l’ex sindaco Vito Ciancimino, referente politico dei Corleonesi.

La sentenza di appello, pronunciata il 17 febbraio 1998, conferma quella di primo grado, diventando poi definitiva con la pronuncia della Cassazione del maggio 1999. Gli esecutori materiali non sono mai stati individuati con certezza e del resto ancora aleggia, su questa drammatica vicenda, un velo di mistero che continua a coprirne molti aspetti, compreso quello di un presunto coinvolgimento di Giulio Andreotti, chiamato in causa, in particolare, dal collaboratore di giustizia Francesco Marino Mannoia.

Memoria viva

È imponente l’influenza della vicenda umana e politica di Piersanti Mattarella sulla cultura di massa. Sulla sua storia sono stati scritti libri e prodotti film. Si perde il conto delle intitolazioni di strade, scuole, luoghi pubblici. Un punto di riferimento resta il libro “Piersanti Mattarella. Da solo contro la mafia”, scritto nel 2010 da Giovanni Grasso, successivamente chiamato al Quirinale da Sergio Mattarella come consigliere per la stampa e la comunicazione e direttore dell'ufficio stampa della Presidenza della Repubblica. 

Tra i documentari che ricostruiscono la sua storia: "Piersanti Mattarella, 6 gennaio 1980", scritto da Alessandro Chiappetta per la regia di Agostino Pozzi; il docu-film “Piersanti Mattarella. La buona battaglia”, diretto da Maurizio Sciarra. Su Raiplay, inoltre, sono pubblicati due documenti video di grande valore storico: la deposizione integrale davanti alla Corte d’Assise di Palermo di Totò Riina sui delitti “politici” e un’intervista di Joe Marrazzo a Leonardo Sciascia sull’uccisione di Mattarella.

Individuare occasioni pubbliche nelle quali Sergio Mattarella abbia fatto riferimento alla vicenda di suo fratello Piersanti è un’impresa estremamente ardua. Ce n’è una, però, assai recente, che vale la pena di ricordare. Nel maggio del 2022, il Presidente della Repubblica incontra un gruppo di studenti insieme alla Presidente del Parlamento Europeo Roberta Metsola. Una delle due scuole presenti è intitolata proprio a Piersanti. Il Capo dello Stato, quando è il suo turno, prende la parola e sorridendo dice:

Voglio rassicurare la Presidente Metsola: l'Istituto non è intitolato a me, ma a mio fratello, che ha ben altri meriti.
Sergio Mattarella