Filippo Gebbia è un ragazzo allegro e socievole di Porto Empedocle, comune della provincia di Agrigento. Ha una sorella, Leonarda, è amante dello sport e un tipo creativo. È inoltre una persona sempre attenta al prossimo: sin da piccolo frequenta la parrocchia e fa il volontario. Nel frattempo studia e una volta giunto il momento di scegliere la scuola superiore, non trova nel suo paese scuole che soddisfino la sua voglia di sapere e di guardare al mondo del lavoro con un titolo che possa offrirgli diverse opportunità. Vuole infatti frequentare l’istituto tecnico per diventare perito industriale, istituto che però si trova a Gela. Così, già dall’età di 14 anni fa il pendolare, percorrendo quasi 100 km per raggiungere la scuola dei suoi sogni. E lo fa senza lamentarsi, perché grande è la sua voglia di imparare cose nuove. Filippo ha una grande intelligenza, è vivace e ironico e ama stare in compagnia. Dopo aver conseguito il diploma si laurea in chimica e cerca un lavoro che gli permetta di mettere a frutto le competenze acquisite e realizzare i suoi sogni, tra i quali c’è quello di poter sposare la sua amata fidanzata. E nel 1986, dopo anni di ricerca e attesa, finalmente trova lavoro come dottore chimico presso una casa farmaceutica e così, soddisfatto e colmo di gioia, fa la proposta di matrimonio alla sua fidanzata. La giovane coppia si mette subito a organizzare il matrimonio, felice di poter programmare concretamente il futuro insieme, comprare casa e magari vedere presto allargarsi la famiglia.
Nel frattempo Filippo è sempre impegnato nell’ambiente parrocchiale e nel mese di settembre si fa promotore di un torneo di sport presso la parrocchia di Santa Croce.
Il 21 settembre del 1986
La sera del 21 settembre sembra una sera di fine estate come un’altra. È domenica e Filippo sta camminando lungo il corso con la sua fidanzata, mano nella mano. Si godono la piacevole brezza, tipica delle serate di settembre, chiacchierando tra le strade del loro paese per salutare l'estate, appena terminata.
Non sono gli unici, tanta gente sta passeggiando per le vie del centro di Porto Empedocle quando all’improvviso un blackout elettrico (provocato ad arte si scoprirà) fa scendere l’oscurità. Immediatamente due cabriolet decappottate si fermano di fronte al bar “Albanese” di corso Roma distruggendo quella serenità e normalità. Da quell’auto scendono degli uomini che iniziano a sparare all’impazzata. A scandire i secondi, i colpi d’arma da fuoco. Una voce urla: “Filì, Filì”, e uno dei killer spara ancora. Pensavano fosse Filippo Adorno, consigliere e amico d’infanzia dei Grassonelli, i veri obiettivi dell’agguato. Pensavano di aver stanato un altro membro della banda avversaria e invece è Filippo Gebbia, che cade a terra, gravemente ferito, davanti agli occhi terrorizzati della sua futura sposa.
In totale più di 100 colpi saranno sparati.
La gente atterrita cerca scampo, corre all’impazzata; alcuni cercano riparo nei portoni dei palazzi che contornano la via, i tavolini dei bar sui quali, fino a pochi istanti prima erano appoggiate bevande e gelati, ora sono rifugio per chi cerca di difendersi sotto di loro. Altri ancora cercano di nascondersi dietro gli alberi secolari presenti sulla via. Attimi infiniti di terrore e paura.
Quando poi, di colpo, torna la corrente elettrica, ci si trova di fronte a una scena agghiacciante.
Filippo viene trasportato all’ospedale San Giovanni di Dio, le sue condizioni appaiono da subito gravissime e a nulla servirà il disperato tentativo di salvargli la vita. Morirà dopo un giorno di agonia. La sua vita strappata dalla violenza della mafia, a soli 30 anni.
Oltre a lui un altro innocente perderà la vita in quella strage, si tratta di Salvatore Morreale, un pensionato che stava aspettando il genero per essere riaccompagnato a casa e per riposarsi un po', aveva deciso di stare seduto in quel bar per gustarsi un gelato insieme alla moglie.
Inoltre, Gigi Grassonelli - il vero bersaglio - che aveva provato a sfuggire alla morte, fu raggiunto e ucciso in un vicolo laterale al corso, quello che porta verso il cinema del paese. Oltre a lui, saranno uccisi altri esponenti della Stidda, l’organizzazione mafiosa dell'agrigentino.
Era settembre, faceva caldo, poi aveva piovuto e l'aria si era rinfrescata. La sera pareva una festa, la gente era tutta fuori, c'era un popolo in strada. [..] Mi volto, entro nel bar, prendo il bicchiere, e, come in un film, vedo saltare tutte le bottiglie davanti a me. Non mi rendo conto di che cazzo sta succedendo. Capisco che stanno sparando, bevo il whisky in un unico sorso, e mi affaccio mentre stanno ancora sparando. [..] Vedo una trentina di persone che mi sembrano morte, perché erano svenute, stese a terra, ferite.
Il contesto storico
Porto Empedocle era teatro di guerra tra due famiglie mafiose: la famiglia Messina e la famiglia Grassonelli.
Fino alla metà degli anni Ottanta, infatti, la città subiva l’influenza di Cosa nostra, la quale deteneva la supremazia e non tollerava che altre famiglie, come quella dei Grassonelli, potessero farsi spazio nel territorio.
La strage del 21 settembre 1986 era quindi proprio un’azione di guerra, decisa da Cosa nostra per rispondere agli affronti e alle umiliazioni subite dagli stiddari. Nei due mesi precedenti alla strage di via Roma, infatti, il clan dei Messina, alleati di Cosa nostra, era stato colpito con 15 agguati da parte degli stiddari. Il primo obiettivo di questa guerra era stato individuato in Gigi Grassonelli, poi suo padre Giuseppe e i fratelli Bruno e Salvatore. Il commando trovò solo i primi due della lista, ma si rifece assassinando anche Salvatore Tuttolomondo e Giovanni Mallia, i loro guardaspalle.
La strage del 21 settembre del 1986, che ha strappato alla vita sei persone, di cui due innocenti, passerà alla storia come la prima strage di Porto Empedocle, l’inizio della guerra tra Cosa nostra e la Stidda.
Vicenda giudiziaria
A occuparsi delle indagini fu il maresciallo Giuliano Guazzelli, esperto del fenomeno mafioso in Sicilia e in particolare Stidda, di cui aveva indagato le principali famiglie. Lo stesso Guazzelli fu poi ucciso il 4 aprile del 1992. Grazie alla spinta che diede alle indagini venne incardinato il primo maxi – processo della mafia agrigentina, il processo “Santa Barbara”. All’alba del 22 gennaio del 1987 scattò un blitz nelle città di Agrigento e di Bonn, in Germania, che portò a decine di arresti tra gli appartenenti sia del clan dei Messina sia tra quelli del clan Grassonelli, le due famiglie in guerra a Porto Empedocle. Il processo fu istruito dal magistrato Fabio Salamone e condotto dai pubblici ministeri Rosario Livatino, Salvatore Cardinale e Roberto Sajeva, quest’ultimo fu il magistrato che firmò gli ordini di cattura. Nel 1989 il processo si celebrò nell’aula bunker (oggi in disuso ) di Villaseta, una vecchia palestra. Processo che era stato interrotto nei primi mesi del 1987, dopo che il Presidente del Tribunale di Agrigento, Gianfranco Riggio, aveva accolto le richieste di nullità avanzate dal pubblico ministero Cardinale, per delle lacune nei verbali di udienza. Dopo 38 sedute, il processo dovette ricominciare. In primo grado furono condannati come esecutori della strage del 21 settembre del 1986 Pasquale Salemi (detto "Maraschino"), Luigi Putrone e altri esponenti di Cosa nostra empedoclina, tra cui il capo mafia di Porto Empedocle, Salvatore Albanese ("U cippu"), ucciso nel '91. Mentre Sergio Vecchia, ritenuto tra i mandanti, fu scarcerato pochi mesi dopo il processo per decorrenza dei termini e insufficienza di prove. Anche Pasquale Salemi fu poi assolto in appello e iniziò a collaborare con la giustizia nel 1997, quando si rese conto di essere a rischio. Fu il primo collaboratore di giustizia di Cosa nostra empedoclina, una mafia cresciuta e arricchitasi con il traffico di stupefacenti con il Venezuela, il Canada e gli Stati Uniti.
Memoria viva
A Filippo è dedicata la Camera del Lavoro della CGIL di Porto Empedocle.
Quel lontano 21 settembre 1986 è sempre presente come lama sottile conficcata nel cuore. Ogni anno, ogni giorno vivo di ricordi e di memoria la perdita di mio fratello è un dolore perpetuo, con cui tocca comunque convivere. Filippo, certamente, non aveva fatto i conti con l’imprevedibile e l’inimmaginabile, non poteva mettere in conto la mano assassina che ha reciso la sua giovinezza, strappandolo alla vita e agli affetti più cari. Così, da quel lontano 21 settembre, porto avanti la sua memoria e il suo ricordo.