Da Gallicano, un piccolo borgo nel cuore della Garfagnana, a Menfi, un paesone nella profonda Sicilia, ci sono quasi 1.500 chilometri. Un viaggio che attraversa quasi l’Italia intera e che è la direttrice da dove comincia il viaggio di Giuliano Guazzelli. Lui quella strada l’ha percorsa la prima volta da giovane carabiniere per prendere servizio in quella terra di Sicilia che non avrebbe mai più abbandonato. Donandole tutto se stesso, fino all’ultimo respiro.
A Gallicano, Giuliano era nato il 6 aprile del 1934. Sin da ragazzino aveva desiserato diventare carabiniere. Appena potette, ancora diciassettenne, la scelta di arruolarsi nell’Arma fu dunque quasi naturale. Tre anni più tardi, nel 1954, il trasferimento in Sicilia. Quel primo lungo viaggio che lo portò nell’isola a costruire una carriera sfolgorante. Era un segugio Giuliano, un investigatore puro. Aveva una straordinaria capacità di analizzare e una memoria portentosa per fatti, circostanze, legami, intrecci. Doti che gli consentirono di accumulare un patrimonio inestimabile di conoscenza e di competenza sui fatti di mafia. Era un’enciclopedia vivente e per questo era diventato un prezioso punto di riferimento.
Arrivato in Sicilia, venne assegnato al Nucleo Investigativo di Palermo. Una scuola importante, nella quale lavorò fianco a fianco con investigatori del calibro di Carlo Alberto dalla Chiesa, Giuseppe Russo, Vito Jevolella, distinguendosi da subito per le sue straordinarie capacità operative.
La mafia dei corleonesi finì al centro del suo lavoro investigativo, così come la Stidda, l’organizzazione agrigentina che spesso con quella corleonese entrava in contrasto. Un lavoro nel quale Giuliano dimostrò delle notevoli abilità, al punto da meritarsi il soprannome di Mastino. Divenne ben presto un esperto di dinamiche criminali e mafiose, capace di districarsi nell’intreccio perverso di relazioni tra mafia, politica e mondo degli affari.
Di quella squadra di investigatori sopravvissero in pochi. Il 20 agosto del 1977 fu ucciso il colonnello Giuseppe Russo. Al maresciallo Jevolella toccò la stessa sorte, con un agguato mortale avvenuto a Palermo il 10 settembre dell’81. Pochi mesi più tardi, il 3 settembre del 1982, fu la volta del generale dalla Chiesa.
Dopo la morte del colonnello Russo, per Giuliano fu disposto il trasferimento dapprima a Trapani e poi ad Agrigento. Era un tentativo di tenerlo al riparo dalle ritorsioni di Cosa nostra che però, purtroppo, non fu efficace. Ritorsioni, minacce, intimidazioni e attentati accompagnarono tutto il percorso professionale di questo integerrimo e rigoroso uomo dello Stato.
Reazioni di rabbia e di vendetta per punire proprio quel rigore investigativo che aveva consentito risultati impensabili. Tra questi, l’essere riuscito a convincere Benedetta Bono, amante del boss Carmelo Colletti, a collaborare con la giustizia. Grazie alle sue indagini fu possibile istruire il processo “Santa Barbara”, il primo processo alla mafia agrigentina che si celebrava dopo 42 anni di silenzi e che vedeva tra i PM quel Rosario Livatino ucciso poi il 21 settembre del 1990. In quegli anni si occupò anche dell'omicidio del giudice Antonino Saetta e del figlio Stefano, avvenuto nel 1988 nei pressi di Caltanissetta. Agli inizi degli anni ’90 fu chiamato a guidare la sezione di polizia giudiziaria dei Carabinieri al Tribunale di Agrigento, dove diede il suo contributo alla magistratura nelle delicate indagini allora in corso. In mezzo, il comando della Stazione di Palma di Montechiaro e altre delicatissime indagini, come quella contro la mafia di Raffadali. Aveva ricevuto anche l'incarico di indagare sulla partecipazione dell’onorevole Calogero Mannino al matrimonio del figlio del boss di Siculiana, Gerlando Caruana.
Ma Giuliano era un uomo, oltre che un carabiniere. Ed era un uomo generoso, disponibile, attento a chi era più debole, a chi subiva soprusi, a chi viveva condizioni di fragilità. Era un marito e un padre. Si era innamorato di Maria Montalbano nei primi anni del suo trasferimento in Sicilia, e con lei, ben presto, aveva deciso di mettere su famiglia. Un amore profondo che aveva generato tre figli: Riccardo, Giuseppe e Teresa. Una vita normale quella di questa famiglia, una vita tranquilla. Certo, il lavoro di Giuliano era rischioso e la passione e l’impegno con cui lo svolgeva lo esponevano particolarmente. Ma per lui era tutto normale: quella era la sua vita ed è così che lui sapeva e voleva viverla.
Il 4 aprile del 1992
Il 4 aprile del 1992 ad Agrigento c’era un’aria di primavera che sapeva già di estate. Era un sabato. Il lunedì successivo Giuliano avrebbe compiuto 58 anni e, chissà, forse quel weekend lo avrebbe trascorso con i suoi affetti ad aspettare e organizzare la festa di compleanno. Era da loro che stava tornando quel sabato mattina, quando, a bordo della sua Ritmo verde, imboccò il viadotto Morandi, sulla Strada Statale 115 che da Agrigento conduce a Porto Empedocle e poi, di lì, a Menfi. Erano le 13.15 più o meno e faceva caldo mentre Giuliano viaggiava tranquillo verso Menfi per tornare dalla sua famiglia. E invece il suo viaggio finì su quel viadotto.
Un furgone bianco superò la Ritmo verde tagliandole la strada e costringendo Giuliano a una brusca manovra. Poi il portellone posteriore del furgone si spalancò e fu l’inferno di fuoco: centinaia di colpi di mitra e fucili a pompa esplosi all’indirizzo della macchina che non lasciarono scampo a Giuliano, devastandone il corpo. Quelle 58 candeline il Mastino non le spense mai.
L’omicidio di Giuliano Guazzelli fu un colpo durissimo per la sua famiglia, per l’Arma, per la Sicilia e per la Repubblica. Alla vigilia di un importante turno elettorale, gli assassini avevano colpito un uomo simbolo della lotta alla mafia, la memoria storica dell’azione di contrasto a Cosa nostra. Da Roma si mosse il Presidente della Repubblica Cossiga, che nella piazza di Menfi pronunciò un discorso per invitare i cittadini a reagire a quell’attacco andando a votare. Il giorno dei funerali, per il quale fu proclamato il lutto cittadino, ad accompagnare il feretro c’era tutto il paese, al punto che fu necessario celebrare il rito funebre in piazza perché la chiesa non avrebbe mai contenuto tutte quelle persone.
La vicenda giudiziaria
Le indagini si indirizzarono dapprima verso gli ambienti della Stidda agrigentina. Nel dicembre del 1992, furono arrestati in Germania i presunti killer, poi condannati all’ergastolo in primo grado e infine assolti in appello per insufficienza di prove.
Le dichiarazioni del collaboratore Alfonso Falzone spinsero poi gli inquirenti a ricercare i responsabili dell’agguato tra le fila di Cosa nostra. Il processo Akragas che ne derivò portò alla condanna all’ergastolo di sei persone: Simone Capizzi e Salvatore Frangapane come mandanti ed esecutori dell’agguato; Joseph Focoso, Calogero Castronovo, Giuseppe Fanara e Gerlandino Messina furono invece individuati come gli esecutori materiali del delitto. La condanna definitiva della Corte di Cassazione arrivò l’11 ottobre del 2004. La famiglia di Giuliano si costituì parte civile nel processo.
Memoria viva
Sono passati molti anni ma il ricordo è ancora vivo e la ferita ancora aperta. Quel giorno ci salutammo come sempre, per poi scoprire che non lo avrei più rivisto. Mio padre era un uomo straordinario e l’ha dimostrato anche dopo la sua tragica morte. Tutti lo ricordano con affetto e sono in tanti i carabinieri a fermarmi e dirmi «siamo orgogliosi di conoscere il figlio del Maresciallo Guazzelli». Tutto questo affetto lo vivo con grande orgoglio, anche se lo avrei voluto in vita accanto a me. Sarebbe stato tutto diverso.
Quando era ancora in vita, il 2 giugno del 1991, a Giuliano è stata conferita l’onorificenza di Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana. Poi, dopo la sua morte, è stato insignito della Medaglia d’Oro al Valor Civile. Nella motivazione, il riferimento alle sue elevatissime qualita? professionali, alla sua eccezionale perizia, al suo sereno sprezzo del pericolo e alla sua incondizionata dedizione al dovere e alle istituzioni: “eccelso esempio di preclare virtu? civiche ed altissimo senso del dovere”.
A Gallicano, suo paese natale, ogni anno se ne ricorda il sacrificio. Lì, in Garfagnana, gli sono stati intitolati l’Auditorium comunale e il "Murales della legalità". Nel 2006 è stato realizzato “Marascià… un eroe antimafia”, un film documentario che ne racconta la storia, diretto da Sabino Taormina e Francesco Angelino.
Ancora oggi, i rapporti di polizia giudiziaria redatti da Giuliano Guazzelli sono una fonte preziosissima di informazioni per le indagini sulla mafia siciliana.