10 settembre 1981
Palermo (PA)

Vito Ievolella

Specialista in casi difficili. Era conosciuto così Vito Ievolella dai giornalisti siciliani, che in quegli anni seguivano le indagini delle Forze dell'Ordine per contrastare l'organizzazione mafiosa.

Vito Ievolella nasce a Benevento il 4 Dicembre del 1929. Penultimo di dieci figli, la sua era una famiglia contadina molto umile. Vito dunque aveva sperimentato la durezza di una vita fatta di sacrifici e stenti, ma anche la dignità con cui, nonostante le fatiche, i suoi genitori avevano costruito quella famiglia. È in questo contesto che, evidentemente, questo ragazzo acquisisce e assorbe i valori di determinazione, spirito di sacrificio, senso della giustizia che ispireranno tutta la sua vita.
Ben presto decide di  arruolarsi nell’Arma dei Carabinieri per poter contribuire, facendo la propria parte, a contrastare il malaffare e a difendere i più deboli. È determinato nel voler realizzare questo suo sogno tanto che all’età di soli 19 anni si arruola nell’Arma.
Vito viene destinato alla Legione di Alessandria, dove si contraddistingue per le sue capacità, per la sua professionalità e per il suo attaccamento alla divisa. E così, nel biennio 1958-1959 frequenta il corso Allievi Sottufficiali della Scuola di Firenze, terminato il quale viene assegnato in forza alla Legione di Palermo.

Quando, all’inizio degli anni ’60, si trasferì a Palermo, Vito fece una scelta. Non fu una destinazione casuale quella del capoluogo siciliano. Lui lo scelse, nella profonda convinzione che lì avrebbe potuto incarnare fino in fondo i valori in cui credeva e che lo avevano spinto a diventare Carabiniere. Un contesto estremamente difficile dove però avrebbe potuto dimostrare, come poi fece, tutto il suo valore. 

Il trasferimento a Palermo

Nel capoluogo siciliano viene prima impegnato nella Stazione dei Carabinieri "Duomo" e poi nella guida della Stazione "Falde", corrispondente al territorio dell'attuale quartiere di Monte Pellegrino. Dopo circa un decennio di servizio nelle regioni del Nord Italia, Vito è felice di trasferirsi a Palermo, dove vuole impegnarsi nella lotta contro la criminalità mafiosa.
Viene trasferito alla Caserma "Carini", in Piazza Giuseppe Verdi, dove coordinerà, con il grado di Maresciallo Maggiore, le attività del reparto "Delitti contro il patrimonio" del Nucleo Investigativo del Comando Provinciale dei Carabinieri di Palermo.
Vito è da subito molto noto negli ambienti investigativi dell’Arma e tra i magistrati per la sua capacità professionale, per l’impegno investigativo e per la determinazione a fare luce tanto sul delitto comune quanto su quello mafioso. Vito, difatti, è anche molto conosciuto negli ambienti della criminalità mafiosa locale; si distingue per la sua fine e acuta sensibilità psicologica che, coniugata alla perizia investigativa, gli permette di penetrare a fondo nel territorio. Riesce a comprendere e a intuire anticipatamente la pericolosità e la forza dirompente dell’organizzazione mafiosa, in questi anni non ancora ben delineata nella sua composizione e struttura.
Tutte queste caratteristiche gli sono valse, da parte della stampa, appellativi come “segugio temuto dai boss” e “specialista in casi difficili”.
I risultati ottenuti grazie alle sue tecniche investigative vengono ricompensati da sette encomi solenni e da ben ventisette apprezzamenti del Comandante generale dell'Arma dei Carabinieri.
Non si ferma davanti a nulla Vito, mosso da un sincero senso della giustizia che lo spinge a porsi sempre dalla parte degli ultimi, dei più deboli, dei più indifesi. Un approccio al lavoro che è figlio, certamente, anche della sua profonda fede in Dio. Sì, perché Vito era anche un uomo molto sensibile, un padre e un marito amorevole e affettuoso. È sempre attento nel cercare di conciliare al meglio la sua vita professionale con quella familiare, non venendo mai meno a nessuna delle due responsabilità.  Dai racconti dei suoi familiari e di chi lo ha conosciuto, vieni fuori il profilo di una persona profondamente innamorata della vita, in grado di coniugare perfettamente i due poli della sua esistenza: la famiglia, composta da sua moglie Iolanda e dalla figlia Lucia, e il lavoro. 

Il 10 settembre 1981

Sono circa le 20.30 di una calda serata di inizio settembre, Vito e sua moglie sono a bordo della loro Fiat 128, parcheggiata in Piazza Camporeale, perché stanno aspettando la figlia Lucia, appena 20enne, che sta frequentando un corso per il conseguimento della patente di guida. Vito sta parlando con Iolanda di quanto è felice e orgoglioso di Lucia, in macchina c’è un clima sereno, i due si sorridono come hanno sempre fatto nel corso di tutti questi anni di matrimonio. A un certo punto Vito si volta verso la sede della scuola guida per vedere se Lucia ha finito, quando all’improvviso accade l’inimmaginabile. La loro auto viene affiancata da un’altra vettura, dalla quale, in poche frazioni di secondo, scendono quattro killer che iniziano a esplodere numerosi colpi di fucile e di pistola calibro 7,65. Quella raffica di colpi, esplosa in direzione di Vito non gli lascerà scampo, riuscirà a compiere un ultimo gesto di amore e altruismo: si getta sulla sua amata Iolanda per farle scudo con il suo corpo e proteggerla. I killer risalgono sulla loro auto e scappano velocemente lasciando Vito senza vita e la sua amata moglie, ferita lievemente al volto e straziata dal dolore.
L’auto dei killer, una “Fiat Ritmo”, verrà poi ritrovata successivamente dai Carabinieri in stato di abbandono e completamente annerita dalle fiamme, in Via Caruso.

Vicenda giudiziaria

Appare da subito chiaro agli inquirenti che l’assassinio del Maresciallo è da inquadrare in un programma mafioso teso all’eliminazione di quanti si oppongono all’espansione dei loro interessi criminali.
Nel 1980 Vito, proprio il 10 settembre, aveva concluso un’importante indagine. Quell’indagine, denominata “Savoca + 44”, aveva permesso di individuare gravi responsabilità e i loschi affari di personaggi di spicco della mafia locale, tra cui la famiglia Spadaro. La gravità della scoperta fatta e i danni che essa avrebbe provocato agli affari di Cosa nostra furono tali da mobilitare in quel 10 settembre, una squadra di tutto prestigio della mafia locale.

Nei giorni immediatamente successivi all’agguato, si fa avanti un testimone. Si chiama Pietro La Piana e racconta agli inquirenti di aver riconosciuto nell’auto dei killer due pregiudicati, Santo Barranca e Giuseppe Di Girolamo. I due vengono arrestati con l’accusa di essere gli esecutori del delitto. Ma nel 1988 la Cassazione, presieduta da Corrado Carnevale, annulla per ben tre volte la condanna all’ergastolo di Barranca, che esce definitivamente assolto. In realtà però quello di La Piana, poi condannato per calunnia, si rivela un tentativo di depistaggio. Nel 2001, le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Salvatore Cucuzza, Giuseppe Marchese e Salvatore Cancemi portano alla riapertura del processo il 5 aprile del 2002. I tre si autoaccusano dell’omicidio e chiamano in correità Pino Greco,  Filippo Marchese, Giovanni Fici e Mario Prestifilippo, tutti già morti ammazzati nella guerra di mafia degli anni ’80. Nel 2003 la Corte d’Assise di Palermo condanna all’ergastolo come mandante Tommaso Spadaro, capomafia della Kalsa, e, tra gli esecutori, Giuseppe Lucchese. Condanne più lievi, grazie alla collaborazione, per Cancemi e Cucuzza. 

Il Maresciallo Vito Ievolella sapeva che andando a contrastare le spartizioni che governavano la criminalità organizzata rischiava, ma non si è fermato, riaffermando così il senso del dovere. Lo spirito che ci deve animare è quello di riaffermare i nostri doveri, tutelando automaticamente i diritti altrui, per poter essere sicuri di aver fatto ciò per il quale siamo chiamati a prestare la nostra attività.
Il Comandante della Legione Carabinieri Sicilia

Memoria viva

Per tenere viva la memoria di Vito, i suoi familiari hanno costituito l'Associazione socio - culturale “Vito Ievolella”, che esplica la propria attività in vari ambiti di interesse sociale e culturale.
Nel 2000 gli è stata intitolata la nuova sede della stazione Carabinieri “Falde”, dove Vito aveva lavorato e si era distinto.

Addetto a nucleo operativo di gruppo, pur consapevole dei pericoli cui si esponeva, si impegnava con infaticabile slancio ed assoluta dedizione al dovere in prolungate e difficili indagini - rese ancora più ardue dall'ambiente caratterizzato da tradizionale omertà - che portavano alla individuazione ed all'arresto di numerosi e pericolosi aderenti ad organizzazioni mafiose. Proditoriamente fatto segno a colpi d'arma da fuoco in un vile agguato tesogli da quattro malfattori, immolava la vita ai più nobili ideali di giustizia e di grande eroismo.
Medaglia d'oro al valor civile alla memoria