"Il partito dei palazzinari a Reggio governa la città”. Era il 1985 quando Demetrio affidò ad alcuni fogli, ritrovati a distanza di tempo dai suoi familiari, una riflessione attenta, precisa, puntuale sulla Reggio Calabria di quegli anni. Una fotografia spietata degli interessi attorno ai quali gruppi di potere affaristico - imprenditoriali si erano coagulati tenendo sotto scacco la città intera. Una denuncia lucida e coraggiosa, figlia di quell’etica professionale che ha caratterizzato tutta la sua esistenza. Un rigore e un’intransigenza mai negoziate, nelle quali è possibile ritrovare le ragioni del suo tragico destino.
Demetrio Quattrone era nato a Reggio il giorno di Natale del 1948, ma era stato registrato all’anagrafe una settimana più tardi, il 2 di gennaio del nuovo anno. La sua non era una famiglia facoltosa, ma per quel figlio era stata disposta a fare molti sacrifici. Erano stati proprio quei sacrifici che avevano consentito a Demetrio, una volta diplomato, di trasferirsi a Torino per frequentare il Politecnico e qui conseguire la laurea in ingegneria. Ma di restare per sempre lontano dalla sua terra questo giovane ingegnere non ci aveva mai veramente pensato. Decise dunque di tornare in Calabria, nella Reggio che amava tanto, per mettere a disposizione della sua terra le competenze acquisite, impreziosite da un rigore morale e da una meticolosità che lo accompagneranno per tutta la vita.
Fu una carriera veloce, quasi fulminante la sua. La fama di professionista serio e integerrimo ben presto si diffuse in tutta la città e oltre, facendogli acquistare rapidamente la stima dei colleghi e di molti altri ambienti professionali della città. Il culmine di questa carriera fu il lavoro di funzionario dell’Ispettorato provinciale del lavoro, nell’ambito del quale fu chiamato a coordinare l’attività di controllo nei cantieri edilizi. Nel contempo, fu spesso chiamato a collaborare, come consulente tecnico, con le Procure di Reggio, Palmi e Locri, con le quali lavorò ad alcune delicate indagini di ‘ndrangheta. Erano anni particolarmente difficili. La seconda guerra di ‘ndrangheta, scoppiata alla metà degli anni Ottanta, insanguinava le strade di Reggio. Quando si concluse, nell’estate del 1991, con l’uccisione del magistrato Antonio Scopelliti, si contarono circa 700 morti ammazzati. Un’ecatombe.
Demetrio era estraneo a questi ambienti naturalmente. Ma a questi ambienti il suo rigore e la sua inflessibilità dovettero di certo creare non pochi problemi. Il sacco edilizio di Reggio era un chiodo fisso per questo giovane professionista, probabilmente il primo ad avere e dare una lettura organica e strutturale di un fenomeno che stava devastando la città in quegli anni. Lo scrisse nero su bianco su quei fogli nell’85, con un atto d’accusa che a rileggerlo oggi appare di una lucidità - e forse anche di un’attualità - veramente sconvolgente. A questo rigore accompagnava anche una profonda umanità. Un lato della sua personalità che viene fuori da diversi racconti dei suoi familiari. Come quando, intervenendo sul luogo di un incidente sul lavoro costato la vita a un contadino, schiacciato dal suo stesso trattore, Demetrio ne rimase a tal punto impressionato da decidere di dedicarsi alla realizzazione di un dispositivo in grado di arrestare il mezzo in caso di caduta del conducente. Non lo brevettò nemmeno quel sistema, che successivamente divenne obbligatorio. E a spingerlo, a motivarlo, furono le lacrime della vedova del contadino, la sua domanda: “e ora che cosa faccio?”.
E poi c’era la sua famiglia, l’altro polo della sua vita. Aveva sposato un’architetta, Domenica Palamara. Dal loro amore erano nati tre figli: Rosa, Antonino e Maria Giovanna. Vivevano tutti insieme in una casa che gli aveva lasciato il papà di Domenica. Era un vecchio mulino che Demetrio e sua moglie, con passione e scrupolosità, avevano rimesso a nuovo. Si trovava a Villa San Giuseppe, una ventina di chilometri a nord di Reggio Calabria. Via Mulino, proprio per la presenza di quell’antico edificio, si chiamava la stradina stretta che, circondata dagli aranceti, conduceva a quella casa. Ci passava a stento una macchina. E fu esattamente su questa stradina stretta e buia che, intorno alle 21.30 del 28 settembre 1991, la vita di questo onesto professionista fu barbaramente stroncata da un commando mafioso.
Il 28 settembre del 1991
Quella sera Demetrio non era solo. Aveva invitato a casa, forse per un consulto medico o più semplicemente per trascorrere una serata insieme, un suo giovane amico medico. Si chiamava Nicola Soverino, era specializzato in omeopatia e prestava servizio alla guardia medica di Gallico. Condividevano i due la passione per le auto. E poi si somigliavano. Entrambi portavano una barba molto scura a circondagli il viso.
Demetrio aveva da poco acquistato una macchina nuova. Era una BMW 520 di cui andava molto fiero. Propose a Nicola di fare un giro per provarla e gli lasciò il posto di guida, accomodandosi sul sedile passeggeri. Fu l’ultima volta che uscì di casa.
Sua moglie chiamò la Polizia quando, dall’interno della loro casa, udì gli spari. Pochi istanti prima, alcuni killer appostati lungo la strada avevano esploso contro la vettura una scarica di colpi di fucile caricato a pallettoni. Avevano mirato direttamente al conducente. Nicola Soverino non aveva avuto scampo. Demetrio istintivamente aveva aperto lo sportello e si era buttato nello spazio stretto tra la macchina e il muretto a secco che costeggiava la strada. I killer si resero conto immediatamente che quello alla guida non era Demetrio. Lo raggiunsero e lo freddarono lì, sul selciato, a colpi di 7.65. Quando i soccorsi arrivarono, allertati da Domenica, Nicola e Demetrio erano entrambi morti. Avevano 30 e 42 anni.
Dopo l’omicidio, i colleghi dell’ingegnere Quattrone decisero di astenersi dal lavoro per una settimana in segno di protesta e di solidarietà. È stato probabilmente l’unico atto di ribellione a quel vile agguato, sul quale poi per anni è sceso il silenzio e l’oblio. Talvolta, anche quegli schizzi di fango che, in tanti casi, uccidono le vittime innocenti per la seconda volta.
Vicenda giudiziaria
Gli inquirenti si resero conto subito che venire a capo di quella vicenda non sarebbe stato affatto facile. Le modalità dell’esecuzione erano drammaticamente chiare e furono ricondotte da subito agli ambienti mafiosi. Così come da subito fu chiaro che Nicola non doveva essere la seconda vittima di quell’agguato, il cui unico obiettivo doveva essere l’ingegnere Quattrone. Il problema era capire chi lo avesse voluto morto e perché. Si scavò a fondo nella vita professionale e lavorativa di Demetrio: le sue attività di controllo e vigilanza sui cantieri; i suoi interessi in alcune cooperative; la sua parentela con Franco Quattrone, potente segretario regionale della Democrazia Cristiana e Presidente della Camera di Commercio. Con lui, che era stato più volte sottosegretario agli Interni, Demetrio condivideva, sebbene in misura molto ridotta, le quote di una società di consulenza, la Aurion. Quote delle quali però, negli ultimi tempi, aveva più volte espresso la volontà di liberarsi.
Nonostante la quantità delle piste battute dagli investigatori, tuttavia, le indagini non portarono a nulla di concreto. Ancora oggi la morte di questi due giovani professionisti non ha un responsabile né un movente accertati in un’aula di Tribunale. Il fascicolo su quel duplice omicidio è stato archiviato senza colpevoli e così Nicola e Demetrio aspettano ancora verità e giustizia.
Memoria viva
Demetrio è stato riconosciuto vittima innocente della mafia. I suoi figli oggi vivono a Torino, nella città in cui loro padre si era formato prima di tornare nella terra che lo aveva visto nascere e lo avrebbe anche visto morire. Accanto a loro, Libera prova a tenere viva la memoria di quest’uomo onesto, di questo professionista retto e intransigente, che non digeriva le ingiustizie e si era sempre schierato dalla parte dei più deboli. E che, per difendere i valori in cui credeva, ha sacrificato la sua stessa vita.
Noi abbiamo aspettato vent’anni prima di pronunciare il nome di mio padre in questa città. In vent’anni, nessuno ha ricordato cos’era successo ad uno dei figli migliori di questa terra. Tra gli scritti di mio padre che ho ritrovato, già nel lontano 1985 lui denunciava quella che era la situazione della corruzione nella provincia di Reggio, perché, grazie al suo lavoro aveva una visione a 360 gradi di quelli che erano i movimenti politici, mafiosi e corruttivi che governavano la città e che stavano preparando quella che poi sarebbe stata la guerra di mafia.
La memoria di un lutto privato deve rimanere privata e non può essere di dominio pubblico. Ma la necessità di noi familiari delle vittime innocenti delle mafie è far capire che quelle uccisioni devono avere anche una dimensione collettiva, perché quelle persone, con la loro naturale onestà, proteggevano tutti i cittadini.