Sebastiano Bonfiglio, una figura di straordinaria attualità
di Anita Bonfiglio
C’era un libro a casa dei miei genitori che mi ha sempre incuriosito: aveva la copertina leggermente sbiadita e la fotografia di un uomo d’altri tempi, con il cappello e l’aria severa. Un giorno chiesi a mio papà chi fosse quell’uomo e lui, con grande semplicità, mi disse che si trattava di Sebastiano Bonfiglio, uno zio di suo padre che faceva il sindaco di un paese in Sicilia e che fu ucciso dalla mafia. La mafia, quella cosa bruttissima che per me bambina significava solamente terribili esplosioni, strade saltate sventrate e corpi straziati. “Papà, ma la mafia non uccide solo giudici e poliziotti?” chiesi con un misto di sorpresa e curiosità. “No, la mafia uccide chiunque non faccia quello che vuole lei”. Ero piccola e per un certo tempo tanto mi bastò. Crescendo, ho sentito la necessità di capire e ho cominciato a leggere e a studiare, partendo proprio da quel libro, che per me, studentessa ginnasiale, con le sue pagine ruvide e macchiate dal tempo, aveva un che di antico. Sebastiano Bonfiglio nasce nel disciolto comune di Monte San Giuliano (attualmente Erice, Valderice, Custonaci, Buseto Palizzolo e San Vito Lo Capo) il 23 settembre del 1879, precisamente in località San Marco, una borgata rurale alle pendici del Monte Erice; inizia a lavorare presso la bottega di un artigiano a quattordici anni e alla stessa età, nel 1893, partecipa con il padre alle rivolte organizzate dal movimento dei Fasci Siciliani per rivendicare maggiori diritti per i contadini che lavoravano sulle terre dei grandi latifondisti. A vent’anni, nel 1899, fonda, con l’artigiano che lo aveva preso a bottega, la società agricolo-operaia di mutuo soccorso: è l’inizio di un crescente impegno sociale e politico. I primi anni del ‘900 sono intensissimi: studia da autodidatta e consegue prima il diploma di insegnante e successivamente quello di ingegnere agronomo (perito agrario), fonda e dirige la prima sezione locale del partito socialista, critica duramente, attraverso i giornali locali, l’amministrazione comunale così distante dai problemi della maggioranza della popolazione e attenta unicamente agli interessi delle poche famiglie facoltose della zona. Senza mai abbandonare l’attività politica nella terra natale, fra il 1904 e il 1906 si reca prima a Milano e poi negli Stati Uniti d’America: durante questi soggiorni lavora come operaio in industrie importanti e prende contatto con le associazioni e i partiti che si pongono come obiettivo primario la tutela dei diritti dei lavoratori. Quando nel 1913 torna definitivamente in Sicilia, prende parte all’organizzazione di un grande sciopero contadino e per questo è arrestato da un commissario di pubblica sicurezza destinato a diventare molto famoso nella storia della lotta alla mafia: Cesare Mori. Dopo il breve periodo di detenzione, torna immediatamente alla politica attiva schierandosi fermamente contro l’ipotesi di un conflitto bellico e in particolare contro l’eventuale appoggio dell’Italia agli Imperi centrali. La Grande Guerra lo vede richiamato alle armi come riservista e inviato in Cirenaica da “sorvegliato speciale” da parte delle gerarchie militari. In Libia, come una sorta di cooperante ante litteram, l’autodidatta divenuto maestro elementare, fonda una scuola per i bambini arabi. Al termine del conflitto, il partito, che nel frattempo ha conquistato qualche seggio in consiglio comunale, decide di candidarlo a sindaco del paese: il 3 ottobre 1920 Sebastiano Bonfiglio è eletto sindaco del comune di Monte San Giuliano. In questa attività trasfonde tutto l’impegno di una vita, promuovendo azioni a tutela della popolazione contadina e degli artigiani, denunciando apertamente ogni atto di violenza compiuto dai mafiosi al soldo dei grandi latifondisti locali e opponendosi con fermezza ai tentativi di coloro che in passato avevano amministrato il territorio e che ancora sedevano in Consiglio per far prevalere gli interessi particolari di poche influenti famiglie sull’interesse generale della popolazione. Sebastiano Bonfiglio muore il 10 giugno 1922 a quarantadue anni; a sparargli, mentre rientra da una seduta consiliare, una mano rimasta anonima, appostata dietro i rovi di una curva sulla strada che percorreva per tornare a casa. Una mano rimasta anonima, ma sicuramente appartenente a quei mafiosi che già si erano macchiati di gravi violenze nell’agro ericino e armata certamente dagli esponenti di quei gruppi di potere che l’azione del sindaco socialista stava evidentemente danneggiando. La mafia uccide chiunque non faccia ciò che lei vuole. Adesso ho capito. Ho capito perché la mafia uccide anche sindaci, amministratori e pubblici funzionari: perché un bravo sindaco, un bravo amministratore conosce la differenza fra interesse generale e interessi particolari; perché un bravo sindaco, un bravo funzionario agisce, avendo come unico obiettivo il bene collettivo. La mafia è il contrario di tutto ciò: la mafia è prevaricazione, è violenza, è interesse di pochi a scapito del bene di molti. Riguardo la foto sulla copertina del libro; quello sguardo che inizialmente mi sembrava severo e forse un po’ antipatico, mi appare adesso sincero e determinato: è lo sguardo di chi crede fortemente in qualcosa, di chi sceglie una missione, di combatte fino in fondo pur consapevole dei rischi che corre. La missione di Sebastiano Bonfiglio ha un nome, ancora oggi attualissimo: giustizia sociale. La stessa per quale vent’anni dopo i partigiani hanno combattuto contro il nazifascismo. La stessa a cui tende ogni parola della nostra Costituzione. Mi sembrava un uomo d’altri tempi e poi ho scoperto con stupore e un pizzico d’orgoglio che invece, pur avendo vissuto tutta la sua vita in un’Italia sotto molti profili, del tutto diversa da quella contemporanea, è una figura di straordinaria attualità: una persona che ha superato i limiti imposti dalla sua umile condizione natale e ha dedicato tutta la sua vita a combattere contro ogni forma di ingiustizia e di sopraffazione, con l’unico intento di realizzare una società più equa, più civile.