Un senso alle cose. Il ricordo di Maria Grazia Cutùli
di Donata Cutùli
Quando, nel 2004 a pochi anni dalla scomparsa di Maria Grazia è arrivata la notizia della condanna a morte in Afghanistan di uno dei suoi assassini, vari giornalisti hanno subito chiesto cosa ne pensasse la famiglia. Confesso che io ho fatto un po’ muro, avrei preferito non mettere in mezzo i miei genitori su una cosa che mi sembrava troppo “forte”per loro – come lo è stata per tutti noi – da un punto di vista emotivo. È morta tua figlia e stanno ripagando con la stessa moneta chi l’ha uccisa.
E, invece, il giorno dopo ho preso un giornale e ho letto la dichiarazione di mia madre, una dichiarazione in cui con grande semplicità e fermezza diceva: “Da cristiani siamo sempre stati contrari alla pena di morte. Non abbiamo mai pensato che chi ha ucciso Maria Grazia, potesse e dovesse essere condannato alla pena capitale. Questo non ci avrebbe ridato nostra figlia. Ci rimettiamo a quello che la giustizia crede di fare e ai magistrati italiani che ritengo vogliano interrogarlo, ma siamo sempre stati contrari alla pena di morte”.
Tutto ciò detto da una donna già anziana che sta affrontando il più grande dolore della sua vita. Per me è stata un’ennesima lezione di civiltà e di umanità.
Maria Grazia è sempre stata una persona inquieta e curiosa, sempre alla ricerca di qualcosa di più, che potesse dare un senso alle cose.
Ha cominciato a fare la giornalista a Catania con “La Sicilia” e poi “Telecolor”. A 24 anni è andata a Milano, lavorava per un giornale di moda, aria fritta, diceva lei e intanto scalpitava perché voleva scrivere di cose più utili. La stessa direttrice del giornale l’ha aiutata a passare a “Epoca”, un settimanale che si occupava di attualità e approfondimenti. In realtà, è proprio in quel periodo che scopre la sua vera passione, gli esteri e soprattutto Paesi in guerra e situazioni di crisi.
Quando “Epoca” ha chiuso non è rimasta con le mani in mano; si è domandata cosa poteva fare di più e si è scritta a un corso di peace keeping alla Scuola Sant’Anna di Pisa. In seguito, è partita per il Rwanda finché non è stata chiamata dal “Corriere della Sera”. Insomma, un periodo in cui ha dovuto affrontare una serie di scelte professionali anche importanti.
Maria Grazia ha fatto la giornalista in un periodo in cui si cominciava già a parlare di crisi dell’informazione; i giornali cominciavano a vendere meno e le notizie puntavano sempre più sul sensazionalismo; si cominciavano a diffondere tramite internet le fake news, anche se ancora l’espressione non era corrente.
Si stava già diffondendo una certa mentalità che metteva il “notizione” dinanzi la veridicità dei fatti e che stava già svalutando il mestiere del giornalista. Ha combattuto parecchio questa tendenza, continuava a ripetere: “Raccontare la verità è l’unica arma rimasta a noi che facciamo questo mestiere”.
Amava il suo lavoro e pensava che l’onestà ne dovesse essere il tratto distintivo. Oggi, come sappiamo, nel campo dell’informazione non è sempre scontato.
Maria Grazia era una di quelle persone “che si domandano”. Usavamo quest’espressione per indicare quelle persone che cercano di scavare a fondo nelle cose, di chiedersi sempre il perché delle cose. La sua professione, ma direi anche tutta la sua vita, è stata caratterizzata da un continuo domandarsi su cosa fosse giusto e cosa sbagliato, su come era doveroso raccontare i fatti, su quali fatti soffermarsi.
E le sue scelte sono sempre state una conseguenza di questo continuo domandarsi, di questa costante riflessione.
Il suo percorso professionale è stato insieme anche un percorso umano. Così le sembrava indispensabile andare dove “succedevano le cose” - Paesi in guerra, carestie, siccità… - non si accontentava di racconti di seconda mano.
Una volta le ho chiesto “tu che sei tanto appassionata al tuo lavoro, hai mai pensato di fare una carriera interna al giornale, forse un giorno diventare direttore?” e lei mi ha risposto che quando stava in redazione le sembrava di non poter avere la piena coscienza dei fatti.
Non si fermava alle versioni ufficiali, restava lontana dalle notizie diffuse in conferenze stampa, che si svolgono sempre in luoghi sicuri a centinaia di chilometri dal fronte, o dalla retorica di un comunicato. Ma era bello il suo modo di raccontarle.
Di una guerra, infatti, non ti raccontava soli i fatti, si soffermava soprattutto sugli effetti che questi avevano sulla popolazione, sui civili. Aveva sempre un’attenzione speciale ai più deboli, ai più fragili, ai diritti negati.
E, fra questi, soprattutto alla condizione delle donne, credo che abbia scritto decine e decine di articoli sull’argomento: dalle donne in Rwanda, che dopo il genocidio in assenza di uomini hanno preso in mano il Paese, alle donne nei Paesi islamici i cui diritti erano i primi a essere sacrificati, con la scusa di una religione spesso mal interpretata, ma che corrispondeva a precisi schemi di potere.
E poi, i bambini, sempre ricorrenti nelle sue cronache, anzi, nei suoi racconti. Mi viene in mente un articolo sulle condizioni dell’orfanotrofio di Sarajevo.
Quindi, più che della guerra in sé raccontava dell’impatto che questa aveva sui più deboli e di come i conflitti, la violenza, le situazioni di crisi generassero disagi, dolore, emarginazione… e lo faceva proprio parlando di gente comune, della vita vera delle persone, della loro sofferenza.
Creava ritratti estremamente emozionanti, commoventi e pieni di dignità. Mi piaceva questo suo modo di non togliere dignità a degli esseri umani che, in qualche modo, per effetto di una guerra ne erano stati privati.
Sembrava sempre alla costante ricerca di empatia, di comunicazione con altri mondi, altri esseri umani. Possibilmente diversi, diversissimi, da sé. Sempre in cerca di un punto di contatto e un punto di vista per poterli raccontare.
Era tanto il suo domandarsi che in un dato momento scrive: “A un certo punto mi è sembrato che il giornalismo fosse una chiave limitata per capire realmente che cosa si nasconde dietro lo strazio delle popolazioni che vivono la guerra. Molto di quello che si registra su un taccuino, quasi sempre in fretta, finisce per toccare appena la superficie delle cose. Volevo andare più a fondo. Superare la schizofrenia del cronista che rimane spettatore di tragedie che non gli appartengono”.
La sua ansia, quindi, di andare più a fondo.
Fra i tanti ritratti, ho un ricordo - non ricordo se lo abbia scritto in un articolo: era andata in una scuola islamica per ragazze, aveva visto come funzionava, le aveva intervistate e alla fine parlavano di cosa avrebbero voluto fare da grandi: chi la dottoressa, chi l’infermiera, chi la sarta. Una ragazza le risponde “la giornalista” ed è la stessa che alla fine, ai saluti le stringe la mano, sembra non volerla mollare e la guarda con un misto di paura e ammirazione. Chissà, forse in quel momento la ragazza stava facendo una scelta, una scelta difficile considerando la situazione delle donne nel Paese.
In nome di Maria Grazia è anche nata una Fondazione.
Ha realizzato dei corsi per giornalisti in aree di crisi, dei premi, diverse rassegne intitolate “Racconti di guerra” per ricordare crisi e conflitti dimenticati.
Abbiamo cercato in qualche modo di portare avanti un lavoro coerente con quello che Maria Grazia aveva svolto come giornalista.
E’ stata costruita una scuola in Afghanistan, in un villaggio fra i più poveri nella provincia di Herat - Kush Rod - un posto in cui la scuola precedente era in una stalla: quando uscivano gli animali, entravano i bambini.
L’idea è nata dai racconti di Maria Grazia su questo Paese, sull’intensità del cielo, sulla vivacità dei più piccoli. Credeva nell’Afghanistan, credeva in un futuro di pace e di sviluppo. Per noi familiari è un segno del perdono e della possibilità di un mondo diverso.
Il processo che ha portato alla realizzazione della scuola non è stato sempre facil,e ma è un esempio di come la collaborazione fra comunità e individui possa realmente migliorare la vita delle persone, restituire loro diritti e dignità.
Si sono avuti molti colloqui con il consiglio del villaggio, un signore locale aveva donato il terreno, la Terna un’azienda italiana ha donato la vernice, gli architetti hanno lavorato gratis, il PRT (Provincial Reconstruction Team) di Herat ha dato supporto logistico.
La scuola è un edificio blu cobalto circondato da alberi da frutta, con una torretta che serve da biblioteca, che spicca nel paesaggio desertico dove sorge il villaggio. La scuola ha tante finestre aperte sul futuro e i bambini e le bambine la frequentano in turni separati.
Ho detto anche che il processo non è stato sempre facile. A un certo punto ci era stata prospettata l’ipotesi di fare una scuola per soli maschi. Ovviamente ci siamo opposti con forza, in tal caso avremmo rinunciato all’intero progetto. Non ci serviva costruire qualcosa che ci avrebbe dato sì pubblicità, della quale i giornali avrebbero certamente parlato ma che poi di fatto creava un’ulteriore discriminazione e la creava soprattutto nei confronti delle bambine, sulle quali Maria Grazia aveva scritto così tanto. Ancora una volta, era una questione di scelta.
Alla fine siamo andati in Afghanistan all’inaugurazione della scuola e, al di là di tutte le cerimonie ufficiali, vedere le ragazzine e i ragazzini che si rincorrevano per il giardino e si facevano fotografare felici per le scale della biblioteca è uno dei miei ricordi più belli.
Un altro piccolo progetto che mi è molto caro sarà realizzatoa Catania, insieme con l’Associazione Lad Onlus, presso il Polo di accoglienza per bambini malati di talassemia (WonderLad), legato all’Unità Operativa di Ematologia e Oncologia Pediatrica del Policlinico.
Accanto all’edificio, che funzionerà da centro di accoglienza e supporto anche per le famiglie, è prevista la realizzazione di un giardino con un parco giochi per bambini del quale, appunto, si farà carico la Fondazione Maria Grazia Cutùli.
Il prossimo progetto sarà la costruzione di Centro di accoglienza per minori e adolescenti disagiati in Kenya, con l’Associazione Koinonia.
L’Associazione ha già realizzato e gestisce diversi centri di accoglienza e di soccorso nel paese con attività di sostegno e aiuto all’infanzia e alle frange più emarginate e vulnerabili della società.
A Kilifi svolge, tramite educatori di strada, attività di piccola scala nel recupero di minori e adolescenti in condizioni di disagio.
Una terra in cui i minori, e non solo, sono esposti a condizioni deplorevoli in una situazione che costringe i genitori a esporre i bambini allo sfruttamento in cambio dei pochi soldi che ottengono per la sopravvivenza.
Il progetto darà una casa a 40 bambini orfani, bambini di strada, trascurati e disabili di età compresa tra i 5 e i 15 anni.
Funzionerà anche come centro diurno per altri adolescenti vulnerabili. E prevede oltre che dei programmi di istruzione anche un percorso di inclusione delle famiglie. Infatti, cercherà di migliorare la vita familiare attraverso la diversificazione delle fonti di reddito, dando quindi un sostegno anche economico. In altri centri simili sono state create delle coltivazioni di Moringa o dei piccoli allevamenti in cui possono lavorare anche le famiglie. Un modo per aumentare la consapevolezza e l’empowerment delle famiglie e dei membri della comunità locale, sfruttando le risorse locali.
Anche questo progetto mi piace molto, oltre che per gli obiettivi di inclusione e perché può migliorare in maniere reale la vita di una comunità, perché lo stiamo realizzando con Padre Kizito, un padre comboniano, una figura che sta a metà fra il grande saggio e un capacissimo imprenditore, con cui Maria Grazia aveva lavorato più volte e al quale era legato da una stima profonda. Ne ricordo i racconti anche se l’ho conosciuto solo negli ultimi anni. Inoltre, a differenza della scuola, sarà un posto visitabile, in cui si potrà anche andare a fare dei periodi di volontariato.
Beh, mi piace pensare che Maria Grazia sarebbe contenta di queste iniziative.
So con quali parole Maria Grazia ha cambiato la mia vita, non dimentico le promesse che le ho fatto, gli improbabili consigli su faccende di cuore, le montagne di sigarette che ci siamo fumati. E mi porto dietro tutto questo come un amuleto, un antidoto alla banalità e all’ipocrisia, un giuramento a prendere le cose terribilmente sul serio, ma a non prendersi mai troppo sul serio. A coltivare l’ironia e la “resilienza”, la capacità di diventare più forti e generosi nelle avversità.