Pino Russo. Amore oltre la ‘ndrangheta
di Maria Joel Conocchiella
Una busta, dei proiettili.
La voce di una famiglia che fa paura alle cosche.
Il 21 maggio 2018 è stata recapitata una busta a Teresa Lochiatto, madre di Giuseppe Russo Luzza, barbaramente ucciso nel 1994 ad Acquaro. Al suo interno dei proiettili e la foto del figlio. Un messaggio chiaro, senza se e senza ma, un’intimidazione forte ai danni di una famiglia che ha perso tanto, troppo ma che fin da subito, ha iniziato a lottare. Una famiglia scomoda agli occhi della ‘ndrangheta, perché è una famiglia che ha fatto del suo dolore, forza di impegno. Della sua tragedia, radice di lotta per il riscatto di un’intera terra. Matteo, infatti, fratello di Pino, porta avanti instancabilmente la memoria del fratello e in veste di referente regionale della Memoria di Libera, quella di tutte le vittime innocenti delle mafie.
La verità fa paura, destabilizza, corrode il potere di chi, invece, vuole il silenzio assordante intorno a storie di sangue e dolore.
La storia di Pino è una storia d’amore negato, in una terra nella quale purtroppo, c’è chi si arroga il diritto di decidere chi puoi amare e chi invece, no. L’amore, forza dirompente e incontenibile, dissacrante, profonda e senza limiti, si scontra con le rigide e becere regole della ‘ndrangheta che non conosce sentimenti, ma soltanto giochi di potere e di forza.
Pino aveva ventun’anni quando scomparve misteriosamente dopo aver iniziato da poco a frequentare la cognata del boss Gallace, quest’ultimo, oggi, all’ergastolo.
La giovane non era libera di scegliere il suo futuro ma silente pedina, oggetto alla mercé della famiglia di ‘ndrangheta per creare ponti e alleanze criminali.
Era il 15 gennaio quando Pino uscì per andare a Vibo Valentia, purtroppo non fece mai ritorno a casa.
Due mesi dopo, il 21 marzo, i suoi resti vennero ritrovati in una zona impervia nei pressi di Dinami, paese vicino al suo paese natio. Fu l’ex latitante Albanese a confessare e a permettere alla famiglia di avere almeno un corpo su cui piangere e a cui portare un fiore.
Uno degli omicidi più sanguinari del vibonese, la ricostruzione è un pugno allo stomaco.
Lo uccidono, inveiscono sul corpo e lo gettano in fosso.
Un messaggio eclatante: il boss deve mostrare di avere il controllo sulla sua famiglia e quindi, sul territorio. Non c’è spazio alla spensieratezza di un primo amore vissuto tra i vicoli stretti di quella cittadina nell’entroterra calabro, di quei sorrisi accennati e la fierezza di un giovane uomo che si affaccia alla vita.
Pino è colpevole d’amore.
Il tribunale clandestino della ‘ndrangheta ne sentenzia la morte. Non c’è appello.
Una storia, un volto, un nome destinati all’oblio.
Ed è una comunità intera che, invece, squarcia il velo tetro della morte, facendo propria la storia di un giovane figlio di questa terra contraddittoria; storia di una vittima innocente della ‘ndrangheta ancora purtroppo, in attesa del riconoscimento da parte dello Stato.
Una storia che diventa la storia di ognuno di noi, una sofferenza che entra nelle nostre case, una rabbia che ci deve far essere febbrili e attenti. Pino diviene nostro fratello, nostro figlio, il nostro vicino di casa, il compagno di scuola. E le nostre voci si devono levare sempre più forti affinché nessuno possa continuare a usurpare concetti come dignità e onore, piegandoli alla legge della morte.
La ‘ndrangheta agisce dove c’è un vuoto di comunità, quando i cittadini e cittadine abdicano ai loro diritti e ai loro doveri voltandosi dall’altra parte, con silenzi complici, con comportamenti contigui, genoflettendosi alla protervia di “non uomini” senza scrupoli. E’ necessario allora costruire ed essere comunità, affinché la morte delle vittime innocenti non sia vana.
Oggi, quel giovane alto e magro, dai capelli scuri e il volto di uomo, continua ad amare. Lo fa grazie alla madre Teresa che ti dispensa sempre un sorriso, anche se dentro ha il cuore a pezzi, grazie a Matteo che porta la storia di Pino nelle scuole e nelle carceri, grazie a chi, con la sua storia, ha scelto da che parte stare in una terra che non ha più bisogno di parole, ma di gesti coraggiosi per poter rivendicare anche il più elementare dei diritti, quello all’amore.