Parole di memoria

Memoria e riscatto, il sorriso di Jerry trent'anni dopo

Memoria e riscatto, il sorriso di Jerry trent'anni dopo

di Angelo Buonomo

“Oggi fa più caldo del solito” pensai, mentre riempivo l’ultimo cassone di pomodori e vedevo avvicinarsi la fine della giornata. Speriamo domani vada meglio, oggi sono riuscito a riempire meno casse del solito, già ricevo pochi spiccioli. Con questi pensieri feci un balzo sulla mia nuova bicicletta. Nuova, si fa per dire. Ho recuperato i pezzi in giro e assemblato tutto con l’aiuto di un mio amico. Così mi avviavo al rientro dopo una dura giornata di lavoro. Ero abbastanza felice con il mio nuovo mezzo perché sono riuscito a recuperare una bicicletta, certo è un po' malandata però mi permetteva di non andare più sulla rotonda ogni mattina e di non prendere più il pulmino dei caporali. Non è che non ci sia più, però almeno il viaggio lo evito. Lungo il tragitto che mi porta al campo, distrutto dalla fatica quotidiana, sento il profumo dei campi appena innaffiati, passando da una casa alzo gli occhi e sorprendo un bambino a fare merenda con pane e succo di pomodoro, qui è un fatto di tradizione. Avrà avuto cinque o sei anni, la stessa età di mia figlia. Penso sempre a mia figlia, al suo sorriso e a quello di sua madre, mia moglie, che non riesco a sentire da mesi. Un attimo di spaesamento, la bici sbanda, poi ritorno a guardare i campi che mi circondano, lì in mezzo ci sono i miei fratelli che sentano sulla propria pelle lo sfruttamento quotidiano di chi lavora per pochi euro l’ora. Che saranno mai 14 ore di lavoro giornaliero per chi ha vissuto la guerra, la fame, gli stenti? In tutti questi pensieri non sento più la bicicletta, è scappata via la catena. Mi fermo per rimetterla a posto, ora le mie mani hanno un odore misto di pomodoro e grasso di bicicletta, di terra e di metallo, le piaghe della fatica sono evidenti, il colore testimonia la cerca di riscatto. Ho voglia di fare una doccia. Mentre sto montando di nuovo sulla bicicletta scopro un piccolo casotto dal tetto malandato, dall’intonaco consunto che viene giù. Alzo gli occhi e incrocio un bellissimo sorriso stampato su un manifesto.  Non è fresco. È vecchio quanto il casotto. Saranno stati nuovi tanti anni fa, almeno trenta visto il colore giallo dei lati. Osservo meglio, è difficile distogliere lo sguardo da quel sorriso di un fratello africano. Mi guarda. Vorrebbe dirmi qualcosa. Quando ci provo non ci riesco, quando ci riesco leggo una data che mi spinge davvero all’estate di trent’anni fa. Io non ero ancora nato. Leggo ancora, ipnotizzato, il manifesto. “La nostra condizione di clandestini permette a datori di lavoro disonesti e alla criminalità organizzata di usarci per mettere in pericolo i diritti che voi lavoratori italiani avete saputo conquistare. Non siamo disposti a essere strumento per far arretrare i vostri diritti. Chiediamo di appoggiarci in questa lotta” leggo la frase, poi una grande scritta che recita "Sciopero Generale! In memoria di Jerry Masslo". Chi è Jerry Masslo? È sicuramente quel fratello che continua a fissarmi come a volermi dire qualcosa. Allora monto sulla bicicletta e corro il più velocemente possibile per tornare al posto dove dormo. Non riesco a non pensare a quella frase e a quel sorriso. Arrivo con affanno e mille pensieri. Cerco Bokamoso, il professore. Lo chiamiamo così perché è laureato. Gli chiedo immediatamente di Jerry. Lui mi guarda e scoppia in lacrime. Quelle lacrime mi erano del tutto nuove, non avevo mai visto Bokamoso piangere, erano lacrime di disperazione e speranza, dal sapore di rammarico e riscatto, di chi ha perso un fratello e non si rassegna all’ennesima morte sia essa in Africa, oppure nel luogo in cui avevi cercato un nuovo sogno, l’Italia. Bokamoso asciuga le lacrime che ora sanno di terra, di lamiere, di salato, di dita che riaprono ferite cucite malissimo. “Jerry sono io, sei tu, sono tutti i fratelli come noi che camminano lungo i sentieri di liberazione dallo sfruttamento e dal razzismo”. Il professore ha assunto un tono solenne, che mi rende ancora più riverente.  Inizia il suo racconto: “Jerry Masslo è un fratello come noi, è scappato dal Sudafrica razzista e dell'apartheid. Arrivò in Italia il 21 marzo 1989 e da qui non è andato più via”. C'è un contrasto forte dentro di me, Bokamoso mi stava raccontando una storia triste ma quell'uomo su quel manifesto sorrideva e mi guardava, ci guardava con occhi profondi, ora ha anche un nome. Jerry arrivò in Italia dopo aver perso i genitori e un figlio di 7 anni.  Lo volevano rispedire a casa, sarebbe morto lì, poco cambia, ma alla fine è stato ucciso qui a pochi chilometri da noi, a Villa Literno. Era scomodo Jerry, lottava per i nostri diritti, aveva combattuto contro i razzisti figuriamoci se facevano paura quattro caporali. Mentre parla Bokamoso spacca in due un pomodoro e inizia a gustarlo, io ho quasi la nausea, sono mesi che raccolgo pomodori. Quando arrivò Jerry l'Italia riconosceva asilo politico solo ai migranti dell'est Europa. Dopo la sua morte, il suo sacrificio, solo allora hanno cambiato la legge. Volevano rimpatriarlo in Sudafrica poi però con l'aiuto di Amnesty International è riuscito a restare con un permesso temporaneo, le autorità italiane volevano chiudere presto il caso per non finire sui giornali. Jerry venne a lavorare a Villa Literno, a fare la raccolta di pomodori proprio come noi, sorrideva sempre, abbracciava i compagni, si ribellava al piccolo potere dei caporali coperti dal grande potere della camorra e di chi qua vuole fare solo affari. Jerry è stato ucciso da quattro persone che avevano a che fare con la camorra, volevano rubare le paghe di chi come noi si spezza la schiena nei campi per permettere loro di condire la loro pasta. Un colpo perché non volevano dare quei soldi, pochi e sudati sotto al sole. Ma noi siamo nelle stesse condizioni. Sempre meno perché qui i pomodori diminuiscono. Però siamo qui, come trent'anni fa, tra le lamiere che chiamiamo casa, con la nostra casa e le nostre famiglie a chilometri di distanza. Due euro l'ora se tutto va bene. “Ma allora non è servito a niente?” domando avendo paura della risposta. La rabbia di Bokamoso fa tremare le lamiere. Impreca in afrikaans, poi torna a parlare in italiano, facciamo in questo modo per esercitarci con la lingua, anche se sarebbe molto più semplice e usare l’inglese. “Cosa dici?” mi risponde. “Jerry ha sacrificato la propria vita e tu dici che non è servito a niente?!” urlava. Sì irrigidiscono le braccia e le gambe, neanche il pensiero del sorriso di mia figlia mi sblocca. I pensieri si accavallano, si intrecciano, sento dolore nel petto, nello stesso punto in cui è stato colpito Jerry, le mani puzzano ancora di fatica e grasso della catena della bicicletta. Ho voglia di fare la doccia, ma qui, in queste condizioni non è possibile. Bokamoso mi guarda, io lo fisso. Non abbiamo più parole. L’esempio di Jerry aveva portato a una grande lotta per i diritti, per l’emancipazione, per la pace. Dopo trent’anni siamo ancora qui. Ora tocca a noi. Ho voglia di fare la doccia. Bokamoso rientra dal silenzio e mi dice “Ho voglia di fare una doccia” pausa, poi ancora “era la prima rivendicazione di Jerry, lo sai?”. Guardai la bicicletta, osservai Bokamoso cucinare, rivolsi il mio sguardo fuori a veder le stelle. Ciao Jerry, siamo ancora qua. Sorrisi per ricambiare il suo sorriso. Il giorno seguente organizzammo uno sciopero che bloccò la raccolta per due giorni.