“A forza di fare denunce politiche finisce che prima o poi qualcuno mi ammazza”
di Tea Sisto
«Convinciamoci che siamo dei cadaveri che camminano». Fu l’amara frase sussurrata dal vice questore di Palermo Ninni Cassarà al magistrato Paolo Borsellino, mentre entrambi si recavano sul luogo nel quale era stato ammazzato dalla mafia un altro poliziotto, Beppe Montana, commissario della squadra mobile di Palermo. Era il 1985. Cassarà fu ucciso da Cosa nostra poco dopo, nello stesso anno. Aveva 38 anni. Quello stesso presagio fu ripetuto, nel corso di un’intervista, dallo stesso Paolo Borsellino dopo la strage di Capaci e la morte del suo collega e amico fraterno Giovanni Falcone. Era il 1992. Quel cupo presentimento di Borsellino si avverò pochi mesi dopo, nella strage di via D’Amelio.
“A forza di fare denunce politiche finisce che prima o poi qualcuno mi ammazza”, diceva spesso anche Peppino Basile, il consigliere comunale e provinciale dell’Italia dei Valori di Ugento, in provincia di Lecce. Lo dichiarava quasi scherzando, ma in lui c’era una vaga sensazione di morte, quella che prima di lui avevano provato tanti che, con coraggio e determinazione, combattevano le mafie in totale isolamento. E le mafie hanno gioco facile contro gli avversari che conducono lotte solitarie, perché “scomode”. Peppino Basile fu ucciso nel suo paese nella notte tra 14 e 15 giugno del 2008. Aveva 61 anni. I sicari della Sacra Corona Unita lo aspettarono sotto casa sua. Lui arrivò all’una di notte a bordo della sua Fiat Panda che aveva parcheggiato lì dove abitava, alla periferia di Ugento. Lo colpirono con diciannove coltellate sino a dissanguarlo. Una vicina di casa, unica testimone, dichiarò: "Mi chiamava per nome e chiedeva aiuto. Urlava da disperato. Il tempo di vestirmi e sono uscita. Quando sono arrivata però era già morto. Ho chiamato mio marito, mio figlio e i carabinieri”. Le Forze dell’Ordine arrestarono nell’immediato due sospetti, un anziano e un ragazzo, nonno e nipote, vicini di casa. Furono processati e assolti dopo 14 mesi di carcere. Erano altre le piste da seguire. La politica, per esempio. Il suo ruolo di amministratore pubblico di opposizione, componente della Commissione Provinciale Ambiente di Lecce, impegnato in battaglie a difesa dell’ambiente, contro quella politica che talvolta agisce in complicità con la Sacra Corona Unita e la Camorra. Basile di certo toccava interessi economici che danneggiavano la salute della popolazione. Peppino denunciava le infiltrazioni mafiose nella gestione dei rifiuti, soprattutto quelli tossici, nocivi e persino radioattivi nella discarica di Borgesi e del centro di stoccaggio rifiuti mai utilizzato ufficialmente. Denunciava le numerose morti per tumore nella stessa zona. Poco tempo prima dell’omicidio, aveva subito intimidazioni: qualcuno gli aveva fatto trovare davanti alla sua abitazione la testa mozzata di un animale. Tre anni prima aveva ricevuto per posta tre proiettili in busta. E poi, ancora, scritte sui muri: “Peppino devi morire”. Classiche minacce dei copioni delle mafie. La sua morte non è stata vana. Furono aperte inchieste dopo il ritrovamento di fusti di rifiuti contenenti sostanze cancerogene in quella contrada. Tonnellate di pirolio, olio sintetico cancerogeno messo fuori legge negli anni Settanta. Insomma, Basile aveva scoperto una bomba ecologica che stava uccidendo i suoi concittadini ed arricchendo imprenditori, mafiosi e politici senza scrupoli. Ma lui, il coraggioso Peppino, a distanza di undici anni, è ancora senza giustizia. L’omicidio di questa vittima innocente della mafia, non ha ancora colpevoli. Ma non si dispera. Qualcuno tra gli arrestati potrebbe decidere di collaborare con la giustizia anche per questo delitto. Le indagini non sono ancora chiuse, perché non è chiusa l’inchiesta sulla discarica ancora da bonificare, su quella bomba ecologica che Peppino Basile voleva disinnescare.