A 10 anni dalla strage di Castel Volturno
a cura dei ragazzi e delle ragazze del Presidio di Libera di Fabriano, intitolato alle vittime della strage di Castel Volturno
La sera del 18 settembre 2008 la provincia di Caserta fu teatro di quella che poi verrà definita come una delle pagine più nere e violente della storia criminale italiana. Sei africani, tutti giovanissimi, furono barbaramente uccisi da un gruppo scissionista del Clan dei Casalesi facente capo all’allora boss latitante Giuseppe Setola. In soli 30 secondi ben 125 colpi di kalashnikov, pistole e mitragliatrici vennero scagliati contro i giovani ragazzi. Un’azione di inaudita ferocia, definita “militare” dai magistrati, che ravvisarono l’aggravante dell’odio razziale tra i moventi della strage. Lo scopo della camorra fu quello di destare il panico e incutere terrore nella collettività, attraverso un’azione violenta e volutamente eclatante, nonché di minare la fiducia della cittadinanza nello Stato (i killer erano travestiti da poliziotti con tanto di divisa e lampeggianti).
A cadere a terra furono sei lavoratori del Ghana, tutti incensurati e tutti apparentemente ben integrati nel tessuto sociale di Castel Volturno: Ibrahim Muslim, Karim Yakubu, Kwame Julius Francis, Justice Sonny Abu, Eric Affun Yeboa, Kwadwo Owusu Wiafe. Joseph Ayimbora, unico sopravvissuto alla strage, si finse morto e, nonostante la mitragliata di colpi scagliati contro di lui dai killer, riuscì a guardarli in faccia e a testimoniare contro di loro durante il processo. Grazie a questo grandissimo atto di coraggio, che lo costrinse poi a vivere sotto protezione con la moglie e i suoi tre figli fino alla sua morte avvenuta per cause naturali nel 2012, il boss Giuseppe Setola e altri tre uomini furono condannati all’ergastolo.
All’indomani della strage la stampa, sia locale che nazionale, attribuì agli africani legami con la criminalità organizzata ipotizzando un regolamento di conti per lo spaccio di droga. L’ipotesi, del tutto infondata, fu smentita anche dalla magistratura che escluse ogni rapporto degli africani sia con la camorra che con la mafia nigeriana. Questo gravissimo e inaccettabile errore mediatico, suscitò lo sdegno dell’intera comunità africana. Il giorno successivo alla strage salì la rabbia e scoppiò una rivolta davanti al luogo del massacro. Centinaia di connazionali delle vittime scatenarono una rivolta popolare a cui partecipò gran parte della comunità africana del paese. Gli africani occuparono le strade e chiesero che gli assassini venissero assicurati alla giustizia. Volevano attirare l’attenzione e dimostrare che contro poche persone si può ogni tipo di violenza, ma contro un’intera popolazione schierata no. Nei sei mesi precedenti, la camorra aveva ucciso un numero impressionante di innocenti italiani. Sedici persone in sei mesi. Ma nulla. Nessuna protesta. Nessun italiano era sceso in strada. I pochi indignati erano spesso confinati sul piano locale e lasciati sempre più soli.
Scrive Roberto Saviano: «Le due più importanti rivolte spontanee contro le mafie in Italia non sono partite da italiani ma da africani»: la rivolta di Rosarno e quella appena descritta di Castel Volturno, avvenute entrambe nel 2008. Continua Saviano: «Chi ha urlato: “Ora basta” ai capizona, ai clan, alle famiglie sono stati africani […] La popolazione africana ha immesso nel tessuto quotidiano del sud Italia degli anticorpi fondamentali per fronteggiare la mafia, anticorpi che agli italiani sembrano mancare. Anticorpi che nascono dall’elementare desiderio di vivere […] L’omertà non gli appartiene e neanche la percezione che tutto è sempre stato così e sempre lo sarà. La necessità di aprirsi nuovi spazi di vita non li costringe solo alla sopravvivenza ma anche alla difesa del diritto. E questo è l’inizio per ogni vera battaglia contro le cosche».
Non è forse dunque possibile vedere nei migranti nuove speranze e nuove forze per cambiare ciò che noi non riusciamo più non solo a mutare ma neanche a vedere?
A dieci anni dalla strage di Castel Volturno, purtroppo, quasi nulla è cambiato. Ancora oggi, troppo spesso, il migrante è individuato come un’emergenza sociale, un nemico da combattere, qualcuno che viene a rubarci il futuro. Senza dubbio i toni di un dibattito politico sempre più acceso contribuiscono ad alimentare questa immagine ma anche il ruolo dei mass media diventa cruciale. Continuare a raccontare la storia di questi giovani è di fondamentale importanza perché ci permette di proporre narrazioni resistenti a quelle dilaganti dell’odio. Contrariamente ai luoghi comuni, questa storia ci ricorda e dimostra con fatti concreti che solo attraverso l’integrazione, accogliendo la diversità, potremo garantirci un futuro migliore.